Alfabeta - anno VIII - n. 91 - dicembre 1986

gio in televisione, e non deve necessariamente essere un film-perla-tv, può trattarsi di telefilm o spettacoli di varietà, o altro ancora. Un limite, poniamo il 15%, di produzione nazionale di cinema, che abbia già concluso il circuito delle sale. E siamo a circa il 60% di produzione nazionale. Se a questo si aggiunge un 30% di produzione europea, rimane un10% per quella extraeuropea. Tutti dati intesi, come per quelli Cee, al netto dei servizi sportivi e giornalistici e della pubblicità. Si tratta di percentuali che possono sembrare un po' provocatorie, ma sono quelle che consentirebbero di fare della buona televisione, e soprattutto di stimolare l'industria nazionale dello spettacolo a partecipare alla creazione di una televisione moderna, che non sia costretta a subire decisioni e culture lontane dai propri interessi. Inoltre si creerebbe una pluralità di produttori televisivi e cinematografici in grado di arricchire il mercato nazionale ed internazionale con le proprie offerte. Oggi invece l'imprenditore televisivo è anche industriale cinematografico, in un mercato reso asfittico dal monopolio e dalle sue inevitabili scelte. Con l'interconnessione anche le reti private nazionali avranno l'opportunità di trasmettere propri telegiornali. Ritiene che sia giusto limitare tale opportunità (questo prevederebbe il provvedimento stralcio annunciato dal Ministero delle Poste) ad una sola delle reti facenti capo ad un'unica proprietà? Crede che sia accettabile o praticabile un eventuale 'inserimento delle inserzioni pubblicitarie anche nei telegiornali? Ritengo profondamente sbagliato che un unico broadcaster possegga tre reti televisive in uno Stato moderno. Sarebbe un errore anche qualora le reti fossero due. Nessun privato dovrebbe poter possedere più di una rete naziona- " le. Chi possiede una rete nazionale inoltre non dovrebbe possedere organi di stampa, quotidiani e settimanali. Non è ammissibile in una moderna società dell'informazione l'esistenza di monopoli nei settori strategici del sistema. Non si può affidare ad un solo imprenditore, che persegue ovviamente e giustamente propri obiettivi di sviluppo, la gestione monopolistica del settore informativo di una nazione moderna. Tanto più in tempi in cui la «società dell'informazione» è destinata ad orientare i valori sociali. Gli unici paesi al mondo in cui vige una totale deregulation in materia radiotelevisiva sono il Libano e l'Italia, e non mi sembra realistico né di buon augurio considerarci in buona compagnia. Nessuna obiezione a che i telegiornali veicolino pubblicità. Sono da considerare programmi come gli altri, si metterà in luce la professionalità dei direttori nell'impaginare un notiziario televisivo che contenga pubblicità. Il telegiornale è un prodotto televisivo, realizzato per la televisione, e lo si può «pensare» come contenitore pubblicitario. Sarebbe da chiedersi se è giusto che i film, che -non sono stati realizzati per la televisione, né tanto meno per essere interrotti ......,da spot pubblicitari, possano inver-ri ce continuare ad esserlo senza ~ .5 danni per il prodotto e per il tele- [ spettatore. Il nostro paese ha in progetto, a cavallo degli anni ottanta e novanta, la realizzazione di un piano nazionale di intervento nel campo della trasmissione diretta via satellite. Esso può rivestire grande im- ~ portanza sul piano culturale, proI:! duttivo, industriale, di immagine. ~ Quali sono, secondo lei, le ini- l ziative propedeutiche ad una pro- ~ ficua realizzazione del progetto, tenendo conto dell'attuale grande sviluppo delle trasmissioni via satellite e via cavo in molti paesi d'Europa? Vox clamans in deserto qualcuno scrisse già, nel 1976, che il vero sviluppo tecnologico non viene dal satellite e dai suoi servizi di direct broadcasting television ma piuttosto dalle reti cavo e dai loro servizi, televisivi e non, basati sulle Two ways communications. Le novità collegate al satellite sono decisamente inferiori a quelle collegate alle reti cavo, sia sul piano culturale sia su quello produttivo e industriale. Forse solo il piano dell'immagine può essere all'inizio sfavorevole alle reti cavo. Il satellite è avvantaggiato dal fatto di librarsi nell'alto dei cieli, mentre il cavo è, più tetramente, steso sottoterra. Ma basta pensare all'enormità di servizi in più che si possono ottenere con le reti cavo per far sbiadire l'immagine del satellite come portavoce di tècnologia e sviluppo. Il fatto è che il Governo italiano, preso da una forsennata ed insensata paura della televisione via cavo, ne impedì lo sviluppo con un apposito articolo della legge 103. Insano gesto delle cui conseguenze la nostra dirigenza politica non si è, forse, ancora neppure accorta. Il satellite rappresenta un palliativo inutile a questa assenza, un estremo e forzato tentativo di risalire la china. Perché se il satellite ha un senso, e lo ha, è proprio •quello di essere collegabile a delle reti cavo terrestri che ne captino il segnale per instradarlo verso i propri abbonati. I vantaggi di questa connection sono enormi e sinora è questo l'unico modo con cui viene usato il satellite, non DBS, dalle emittenti private (Sky Channel, Music box, Children Channel, Screen Sport, ecc.), o pubbliche (Sat 3) che lo utilizzano. Per l'Italia il satellite allo stato attuale dei fatti è una assurdità. L'abbondanza di trasmissioni televisive gratuite lo renderebbe del tutto superfluo. Occorrerebbe che il satellite inventasse qualcosa di nuovo, e non può farlo per la limitatezza della sua tecnologia, che ripeto è inferiore a quella di una moderna rete cavo. Né vale illudersi che la sola Alta Definizione sia sufficiente a spingere milioni di cittadini ad abbonarsi.La decisione sull'Alta Definizione peraltro è stata rinviata dalla competente sede internazionale. Per quanto riguarda poi il mercato, il Global Market, esso è ancora troppo ristretto per mantenere in attivo un satellite DBS; del resto il Global Market può benissimo svilupparsi in ambito Satellite~Cavo; ed anzi se ne gioverebbe per la maggior flessibilità di cui potrebbe disporre per i suoi annunci. L'unico vantaggio che avrebbe potuto darci il satellite italiano sarebbe stato un vantaggio di posizione, visto che nel nostro paese si hanno tanti programmi televisivi e nel resto d'Europa pochi. Il satellite avrebbe potuto diffondere i migliori per il pubblico europeo, doppiati in tre lingue, e se gli europei si fossero davvero attrezzati per captare i nostri programmi noi avremmo potuto trarne profitto vendendo gli spazi pubblicitari adatti al Global Market o comperati dalle imprese italiane che hanr:::> mercato europeo. Ma il vantaggio di posizione è ormai perso, il satellite italiano non sarebbe più il primo. Allora fa bene la RAI a salire sulla carrozza Olympus-Europa, ma farebbe anche bene a rinunciare al progetto Sarit. Così come fa bene l'impresa privata a voler salire sul primo satellite disponibile per offrire ai propri clienti pubblicitari uno sbocco europeo. Per concludere rispondendo al quesito finale collegato alla domanda, riteniamo che la migliore iniziativa propedeutica alla realizzazione di un progetto che preveda la televisione da satellite sia la realizzazione di una rete cavo nazionale. Rete cui possano collegarsi imprenditori locali per posare cavi in bacini d'utenza ben definiti e regolamentati. Quali sono per l'Italia, a suo parere, le priorità di intervento, nel campo delle nuove tecnologie della comunicazione elettronica, al fine di adeguare lo sviluppo del sistema italiano alle tendenze che caratterizzano l'evoluzione del settore sul piano internazionale? La risposta è già stata fornita alla domanda precedente. Si può aggiungere che i sistemi Teletext e Videotex possono essere meglio sviluppati di quanto non lo siano attualmente. Soprattutto il Videotex ritengo sia molto arretrato rispetto alle sue potenzialità. Si può imparare molto dai cugini francesi sull'uso di queste tecnologie. ( ... ) Addenda Le risposte di Francesco Siliato - e ci sembra le stesse domande del questionario della Fondazione Olivetti - si attengono ad un punto di vista che ha antichi ed illustri precedenti nei sistemi radiotelevisivi di tutto il mondo occidentale. In sintesi, si tratta di quella «filosofia della regulation» secondo cui si tratta di stabilire le regole del gioco entro cui debbono svilupparsi rapporti politici e di mercato nell'offerta e nel consumo di servizi audiovisivi, allo scopo di salvaguardare gli interessi più generali di ordine sociale e civile. Negli scorsi decenni, in buona parte del mondo occidentale, prevalevano i monopoli pubblici o forme miste di monopolio pubblico e di settore privato. La regulation si appoggiava appunto all'incidenza della presenza statale per «armonizzare» anche l'attività dei privati. Nell'ultimo decennio, i monopoli pubblici hanno subìto ovunque un'erosione, ed è netta la tendenza al costituirsi di un mercato sempre più internazionalizzato. Qualsiasi mercato ha, naturalmente, bisogno di un quadro di regole. Bisogna però stabilire se si crede che il mercato «crescerà» per conto suo e che quindi si tratta solo di mettergli dei limiti; ovvero se si crede che, in questo campo, il mercato sia una pianticella asfittica, un mercato per modo di dire, e che perciò si tratta di promuoverlo, prima ancora che di limitarlo. Se si sceglie la seconda alternativa (e ci sono ormai molti argomenti per farlo), allora bisogna ripensare a tutta la filosofia della regulation, puntando da una parte a trarre vantaggio da tutti i meccanismi di autoregolazione del mercato, e dall'altra a concentrare la regulation sugli aspetti decisivi, in modo da renderla più semplice e più incisiva, meno burocratica. Bisogna anche, e forse soprattutto, considerare il rischio che, partendo dal presupposto che «il mercato c'è già», si faccia della regulation stessa uno strumento per «ingessare» situazioni preesistenti di monopolio e oligopolio, pubblico o privato che sia. Se dobbiamo avere un sistema basato sulla competizione, occorre che la competizione ci sia sul serio, e non per modo di dire. Possono risultarne forme nuove di mercato, in un quadro di regole che guardi al futuro e non solo a «incorniciare» i rapporti prevalenti nel passato. Crediamo che, in genere, l'attuale mercato radiotelevisivo, anche in Italia, dove ufficialmente vige la più scatenata e selvaggia deregulation, sia un mercato caricaturale. Non solo, in Italia la quasi totalità del ciclo economico della produzione e della distribuzione dei servizi radiotelevisivi si svolge: a) in regime di oligopolio; b) attraverso meccanismi finanziari di natura «parafiscale» e non attraversola venditadirettadi servizi al consumatore. Infatti, le reti pubbliche si avvalgono di un canone pagato da tutti gli urenti, indipendentemente da quel che consumano effettivamente. Le reti private offrono gratuitamente i propri programmi radiotelevisivi: qualcuno pagherà per essi, prima o poi, da una parte o dall'altra (la questione è teoricamente controversa) ma certamente in un altro mercato, indipendentemente dal consumo dei programmi stessi. I servizi di rilevazione della audience servono appunto a ristabilire «in vitro», a posteriori, una relazione fittizia fra domanda e offerta di servizi radiotelevisivi. Si tratta di una relazione fittizia poiché surroga effettive relazioni fra venditori e compratori di servizi in un mercato reale. Si pensi, ad esempio, che nella simulazione di mercato si vota «per testa» (anche se si cerca di pesare laboriosamente ogni «testa» con complessi parametri statistici di reddito, di propensione ai consumi, ecc.); nel mercato reale, si vota attraverso la moneta, secondo una relazione precisa che si esprime in un prezzo. Quando si parla di «mercato radiotelevisivo», si rischia oggi di parlare di una pura metafora, di uno strano ippogrifo di comodo. Se si accetta che nel sistema radiotelevisivo il mercato giochi un ruolo, piccolo o grande che sia, occorre stabilire: a) una relazione diretta fra domanda e offerta di programmi e servizi; b) la massima apertura a nuovi offerenti di programmi e servizi, con il minimo possibile di intermediazione oligopolistica. Il primo requisito può essere soddisfatto promuovendo tutte le forme di pay-television, e in particolare quelle «interattive», dove è possibile decidere di volta in volta qual è il programma che si vuole fruire. Ciò, in buona sostanza, riporta al problema dello sviluppo della TV via cavo su basi tecniche e normative conseguenti. Il secondo requisito può essere soddisfatto abbandonando la politica della «licenza» che assicura a tempo indefinito e gratuitamente una fetta di oligopolio dell'offerta a questo e a quello. Il recente «rapporto Peacock» (di cui si è parlato qualche mese fa in queste pagine) ha proposto all'imbarazzato governo «liberista» della signora Tatcher di assegnare le licenze ai broadcasters privati in base ad un'asta aperta. Si può fare di più in questa direzione. Si può pensare a un regime di asta che si riapre periodicamente, secondo i suggerimenti dell'economista ungherese Tibor Liska, per il quale la proprietà pubblica di un bene può costituire la premessa di un mercato più avanzato di quello capitalistico attuale, poiché è possibile tenere continuamente aperta la gara fra i competitori interessati al suo uso. Su questa strada, si possono concepire modelli di mercato dei servizi radiotelevisivi molto aperti, molto «spinti», con caratteristiche paradossalmente simili a quelle che furono proposte, fin dagli anni sessanta, per ristrutturare i monopoli pubblici in direzione di un'offerta «dal basso» di servizi e programmi. In questo quadro, la stessa regulation assolverebbe compiti del tutto nuovi, tra cui quello di fissare i parametri che i competitori dovrebbero comunque impegnarsi a rispettare, e quello di garantire che la competizione si svolga su basi leali, e rimanga apertaa tutti i produttorie distributoridi messaggi, grandi o piccoli che siano. il Mulino Frederic V. Grunfeld Profeti senza onore L'Intelligenza ebraica nella cultura tedesca del Novecento Tra fin de siècle e anni Trenta, la popolata enciclopedia di una grande civiltà dispersa dal nazismo Peter Collier Mosaici proustiani Venezia nella «Recherche» Città dell'arte e della memoria, Venezia nel cuore della «Recherche» come fonte ed emblema della concezione proustiana dell'arte Michel Vovelle Le metamorfosi della festa Provenza/1750-1820 Nell'evoluzione della festa fra ancien régime e rivoluzione, il sintomo di quel terremoto nei comportamenti e nelle mentalità che apre la via all'età moderna Francesco Remotti Antenati e antagonisti Consensi e dissensi in antropologia culturale In un dialogo serrato con i padri fondatori e i contemporanei, un viaggio alla ricerca dell'identità dell'antropologia , A. Arcomanno, Pedagogia, educazione e istruzione nell'Italia unita (1860-1877) pp. 280, L. 30.000 L. Terreni, La prosa di Paul Celan pp. 173, L. 15.000 E. Fiandra, Stifter e i suoi lettori. . Storia critica del « Witiko» pp. 80, L. 15.000 M. Argentieri, L'asse cinematografico Roma Berlino pp. 130, L. 15.000 F. Liberatori - G.B. De Cesare, Nozioni di storia della lingua e di grammatica storica spagnola pp. 189, L. 20.000 C. Bordoni, Il romanzo senza qualità. Sociologia del nuovo rosa pp. 184, L. 17.000 R. Runcini, Lineamenti di sociologia della letteratura pp·. 115, L. 8.000 C. Bordoni, Il piacere della lettura pp. 120, L. 15.000

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