• Ricoeur,. unafilosofiadell'intrigo Gli scritti pubblicati qui di seguito (di P.A. Rovatti, F. Rella, M. Ferraris, M. Vegetti e F. Papi) prendono spunto dalla traduzione italiana del I volume di Temps et récit di Paul Ricoeur (P. Ricoeur, Tempo e racconto, voi. I, trad. di G. Grampa, Milano, Jaca Book, 1986, pp. 340, lire 32.000). Ricoeur ha 73 anni ed è uno dei massimi filosofi viventi: legato alla fenomenologia e ali'ermeneutica, in Temps et récit (tre voli., 1983-1985) ha proseguito la ricerca iniziata con La metafora viva (1975), un libro che ha suscitato grande interesse anche nel dibattito italiano: dal problema della metafora e della sua importanza decisiva per la filosofia è passato a quello contiguo, non meno rilevante e certo più intrigante, della narrazione. Questa sua ultima, monumentale ricerca è destinata a sollevare molte discussioni e polemiche nella scena filosofica italiana, già da anni particolarmente sensibile a simili tematiche di frontiera. «Alfabeta» segnala ai suoi lettori questo fatto culturale con la formula dell'intervento breve a più voci. Raccontare l'invisibile Pier Aldo Rovatti Nei tre volumi di Tempo e racconto ( di cui la prima parte è ora uscita in italiano) Paul Ricoeur dà parola a un'impresa teoretica fuori dai canoni cui ormai siamo abituati: un'opera progettata, costruita, massiva che tenta di far sistema attorno a un nucleo problematico e che alla fine esperimenta - non senza pathos - l'impossibilità di venirne a capo. Il nucleo problematico è racchiuso nella domanda: si può descrivere l'esperienza temporale? L'ipotesi di Ricoeur è: no, si può solo tentare di «raccontarla». Domanda e risposta ci introducono in una singolare peripezia di pensiero che è la trama o l'intrigo (con personaggi e situazioni tra loro intrecciate) attraverso cui è «costruito» questo libro di filosofia. I personaggi sono Aristotele, Agostino, Husserl e Heidegger. Le situazioni fondamentali sono i due grandi universi del discorso narrativo: la «finzione» letteraria e la narrazione storica. L'intreccio cerca di stringere quella «x» che è il tempo: finzione e storia, spinte ai loro limiti interni, dovrebbero rivelare la loro complementarietà e insieme il segreto racchiuso in quell'atto quotidiano e vitale che è il raccontare; e nel far questo dovrebbero indicarci l'unico - forse - passaggio tra il nostro dire (visibi- ~ le) e l'essenza del nostro fare: il -S tempo (invisibile). ~ c.., La costruzione, il progetto degi scritto nella fondamentale parte .......introduttiva, è già fin dall'inizio un ~ circolo: un circolo ermeneutico, 1 nel senso di Heidegger (perché il -~ racconto è una rifigurazione del- "l:::S l'esperienza la quale ha già in sé ....... °' una struttura pre-narrativa, è fatta i:: di storie che chiedono di essere ~ raccontate); ma anche un circolo l necessariamente vizioso, che por- ~ ta propriodove il camminoeracominciato per manifestare, nel medesimo tempo, il fallimento e l'importanza dell'impresa. Dopo mille pagine, l'intrigo del problema è ancora là: le lunghe·digressioni ne hanno solo rimandato la ricomparsa? In ogni caso, la trama ben costruita sembra alla fine spezzarsi come un involucro e far segno a un altro libro ancora da scrivere. Seguiamo, per convincercene,. lo svolgimento della trama. Aristotele ci dà l'idea del racconto come intrigo (il racconto tragico come mimesi dell'agire); Agostino ci sprofonda nelle aporie della esperienza temporale (il tempo dell'anima inconciliabile con il tempo del mondo, il presente e l'eternità), la fenomenologia (di Husserl e di Heidegger) raccoglie e consegna a noi questo paradosso. Prima digressione (che copre la seconda parte del voi. I): il racconto storico e le sue interne (travagliate e dissolutrici) vicende. Seconda digressione (che copre il voi. II intite nell'ultima pagina Ricoeur - che io abbia voluto con tutte queste analisi reimpadronirmi di un qualche «senso» o dar sign.o. ria a una qualche idea di soggetto; volevo solo mostrare come il «mistero del tempo» ci costringa a pensare «in un altro modo», e volevo mostrare ciò proprio facendo vedere come «la pertinenza della risposta del racconto alle aporie del tempo diminuisca di stadio in stadio». Ma perché il fallimento dell'impresa (che Ricoeur stesso sembra avvertire come inevitabile) ne evidenzia anche l'importanza? Il problema è di sapere se riusciamo a dare un senso a un'affermazione come questa: il tempo non si può raccontare, si può solo raccontare. Anche il finale della Metafora viva del 1975 (e Ricoeur avverte subito: sono due opere «gemelle») faceva oscillare il «come se» dal registro del linguaggio metaforico al registro dell'essere. La mia ipotesi sta in piedi - sembrava di legnon è forse possibile leggere tutto Tempo e racconto cercando di individuare, in questo stesso libro, l'intrigo di due registri, o trame, o racconti? Tale che, per intravvedere il secondo, occorre (proprio come diceva Ricoeur a proposito della referenza della metafora) «sospendere» la pertinenza del primo? Se ogni libro di filosofia è un racconto (nel caso scelga di dirigersi verso quella esperienza che non tollera «descrizione»), ogni racconto filosofico deve essere illusorio per potere, nelle pieghe, alludere a un'altra paradossale, ma decisiva narrazione. In questa prospettiva acquistano anche rilevanza alcune osservazioni di Ricoeur (sempre nella conclusione) a proposito della poesia. Tra questo raccontare indebolito e la poesia l'incrocio è inevitabile. Ricoeur sì accorge di aver forse dato l'impressione di voler parlare di prosa, separata, considerata semanticamente più Ò lA5~ARI:. LTROlvCl~A .ANT MO FE.Rl1lDA . 1 E: 51 PULISCA t11TO,DHICI Filippo Scozzari, Capitan Dulciora, in «Cannibale»», n. 15, 1979 tolato La configurazione nel racconto di finzione): la narrazione letteraria e i suoi percorsi, con tre esempi di analisi (Mrs. Dalloway di Virginia Woolf, La montagna incantata di Mann e La Recherche di Proust). Ma poi (voi. III: Il tempo raccontato) Ricoeur torna alla filosofia e alle aporie del tempo in Husserl e in Heidegger, e quindi intraprende il tentativo di intrecciare il racconto storico e il racconto di finzione: entrambi, in modi diversi, immaginano, entrambi si riferiscono a un «passato». La traccia dello storico e il «come se fosse avvenuto» del narratore possono forse incrociarsi e alludere a quella esperienza che non si lascia dire, né del tutto reale, né del tutto irreale, che è il tempo, infinito e mortale. Giunto a questo esito, Ricoeur tuttavia non può fare a meno di interrogarsi ancora una volta, e questa volta ancor più radicalmente, sul tempo e sul racconto. Vi sarete accorti - sembra dire - che nelle pieghe di tutto il mio faticoso lavorio è andata insinuandosi un'aporia ancor più profonda: una specie di arcaica magia si è mostrata attorno all'esperienza del tempo che adesso merita il nome di «imperscrutabile». Come se la capacità di «rifigurazione» assegnata al racconto, il suo essere la «sintesi dell'eterogeneo» ovvero la capacità di tenere assieme dimensioni discordanti, rivelasse un sottofondo destinato a portarci in altri territori. Non crediate - avvergere - solo se riusciamo a metaforizzare l'essere stesso! Qui, similmente, sembra che possiamo usare il racconto come un passeggero solo se il racconto perde via via la sua pertinenza. Ma cosa può significare «impertinenza»? Impertinente potrebbe essere quella narrazione, mai completamente dichiarata e resa visibile, che accompagna e svia ogni trama e ogni storia progettata. Come se il raccontare fosse sempre duplice e sdoppiato; e mancasse il suo scopo (filosofico) quando pretende di cancellare la propria ombra, o anche di impossessarsene negando da se stesso, narratologicamente, l'esperienza limite che sta nascostamente «raccontando». Mi chiedo, come controprova: Lorenzo Maltolti, Doctor Nefasto, in «alter alter», gennaio 1983 produttiva rispetto alla poesia. La praxis (cioè l'agire nel tempo, l'orizzonte del racconto) e il pathos (il patire lirico o tragico) non sono invece disgiungibili, come la trama avrebbe richiesto. Il tempo raccontato, indicandoci il paradosso dell'eternità e della morte, non sembra poter fare a meno di quello che Heidegger chiamava il «pensiero poetante». Il potere della finzione Franco Rella Ricoeur, uno dei massimi filosofi viventi, è autore di tre opere che non appartengono soltanto alla storia pensiero, ma anche alla storia personale mia e della mia generazione. Mi riferisco a De l'interprétation. Essai sur Freud del 1965, (tradotto in Italia da Il Saggiatore nel 1967), a La métaphore vive del 1975, (tradotto dalla Jaca Book nel 1981) e a Temps et récit, concluso nel 1985 (il primo tomo tradotto dalla Jaca Book nel 1986). È mia convinzione che il tema dell'identità, non più come dato, ma come risultato di «una sequenza di rettifiche e correzioni di una serie di racconti», che è alla base del Saggio su Freud; che il tema dello statuto tensionale della costellazione metaforica; e infine il tema dell'intrigo narrativo abbiano contribuito a mutare radicalmente il modo stesso in cui pensiamo alla filosofia: o più generaimente il modo stesso del pensare. Le mille fitte pagine di Tempo e racconto si aprono con la nozione di «intrigo» narrativo, «in virtù del quale dei fini, delle cause, dei casi sono raccolti nell'unità temporale di un'azione completa». In questo senso, il racconto, in quanto «sintesi dell'eterogeneo» è assimilabile alla metafora, come già aveva capito Vico, in quanto nei due casi «del nuovo- del non ancora detto, dell'inedito - sorge dentro il linguaggio». Nel caso del racconto si tratta di una complessa rifigurazione dell'esperienza in cui vengono approssimati casi lontani, e, come nell'andirivieni sinuoso di un fiume, le cose si intrecciano, spariscono, ritornano, offrendo i «tratti di un'esperienza temporale» diversa da quella chiusa all'interno delle aporie della riflessione filosofica sul tempo. Infatti, come dice Ricoeur, «il tempo diventa umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo; e viceversa il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell'esperienza temporale». La filosofia come insegnano le trattazioni del tempo in Agostino, in Aristotele, in Husserl e in Heidegger, rimane prigioniera di aporie, legate alla prospettiva fenomenologica e alla prospettiva cosmologica, che finiscono per occultarsi reciprocamente. Ricoeur dunque passa all'analisi della narrazione propriamente storica (e della sua epistemologia) fino a giungere alla definizione del «terzo tempo» degli storici: il tempo del calendario, della sequenza delle generazioni, il tempo della traccia. Ma nella narrazione storica, «proprio per la preoccupazione di quest'ultima di legare il tempo storico al tempo cosmico», l'esplorazione «delle risorse del tempo fenomenologico» rimane come inibita. Ed è infatti nella narrazione di finzione che la rifigurazione del tempo in esperienza umana giunge più a fondo. Infatti, «la finzione non si limita a . esplorare successivamente gli aspetti della concordanza discorde legati alla costituzione orizzontale del flusso temporale, e poi le varietà di discordanze discordi legate alla gerarchizzazione dei livelli di temporalizzazione, e infine le esperienze-limite che segnano i confini del tempo e dell'eternità. La finzione ha in più il potere di esplorare un'altra frontiera, quella dei confini fra la fabula e il mito». E se con Aristotele, per esempio nella nozione di intrigo della Poetica, «il mormorio della parola mitica continuava a risuonare sotto il logos della filosofia», la finzione narrativa dà a questa emergenza mitica «un'eco più sonora», che la fa irrompere decisamente sulla scena del pensiero. Il racconto «è il guardiano del tempo», in quanto la temporalità «non si lascia dire nel discorso diretto della fenomenologia» ma richiede la mediazione narrativa. Più specificatamente la narrazione interviene nell'aporia in cui tempo psichico e tempo cosmico tendono a coprirsi e a occultarsi a vicenda, producendo il nuovo dell'identità narrativa. Come dice giustamente Ricoeur, «senza il soccorso della narrazione il problema dell'identi-
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