Alfabeta - anno VIII - n. 91 - dicembre 1986

Kokkos,a, ~tnografo Q uesto quarantenne dagli occhi chiari e _dallagentile~za tanto accattivante cammina a piccoli passi come se non volesse lasciare tracce, parla a bassa voce e si interrompe al minimo segnale altrui come se non volesse invadere lo spazio, sorride sempre, quando non è colto invece da una malinconia assoluta e avvolgente che gli vela lo sguardo. Definisce il proprio lavoro «l'ombra di una persona, o l'illusione di un'ombra» e si dichiara contento di operare dietro le quinte sfuggendo alle leggi dell'immagine pubblica. È considerato uno tra i migliori scenografi contemporanei per il teatro e l'opera lirica; sue erano le scene e i costumi di Pelléas et Mélisande, l'opera di Débussy rappresentata alla Scala di Milano il giugno scorso come pure le scene, le luci e i costumi de Il Trionfo dell'amore andato in scena al Piccolo di Milano nel novembre 1985. Dopo aver ottenuto il premio della critica per il migliore spettacolo straniero presente sulle scene francesi della scorsa stagione, la pièce di Marivaux è tornata ora in Italia per una breve tournée, a Roma e a Modena . Ci è sembrata questa una buona occasio~e per presentare lo scenografo, greco di origine e parigino di elezione, che alle spalle ha un cospicuo numero di sceneggiature e una lunga collaborazione con Vitez e con Lassalle. Fa attualmente parte dello staff del teatro nazionale di Chaillot a Parigi e si accinge a presentare, in gennaio, la sua prima regia, confrontandosi per l'occasione con un testo non semplice, La principessa bianca di Rilke. È uomo di due culture, sarebbe forse meglio dire di due nature. La prima mediterranea, l'infanzia e l'adolescenza ad Atene, i misteri eleusini, l'amore per una certa pittura italiana, per Piero della Francesca ad esempio. La seconda nordica, un'educazione culturale di impronta mitteleuropea, la ricerca dell'essenziale, l'amore per Fiissli e Herzog, la luce dei cieli di Vermeer; una razionalità senza sbavature come la durezza delle luci che usa di preferenza nei suoi spettacoli e una umanità che comprende in tutti i sensi le sfaccettature interiori. Si è formato al Centre dramatique de l'Est di Strasburgo, ma il suo amore per le scene risale a molto tempo prima. Da piccolo andava spesso al cinema. Gli piaceva e gli piace tuttora alla follia, dice Kokkos sorridendo. Tutte le sere o quasi era là, nei cinema all'aperto. Dietro lo schermo, il cielo di Atene, le luci che si smorzavano piano, tempi e colori del tramonto mediterraneo. Sulla tela passavano i grandi miti:_ Ivanhoe, Robin Hood, Vertigo, i film di John Ford. Grande paura e grande impressione gli fece La Bella e la Bestia di Cocteau, il primo film che ricorda di aver visto. A dodici anni la decisione su cosa (:! -5 fare da grande. Lo scenografo si ~ dice Ifokkos, che disegnava già gli scenari di vecchie pièces trovate in ~ ........ casa. È da quel tempo che frequenta da onnivoro impunito, Dostoevskij e Melville, Flaubert e Butor, e poi Fassbinder e Paolo Gnoli e Segai. Alla rinfusa, certo, perché dall'inveterata abitudine di acco- ~ stare mondi diversi ha tratto un l motivo di arricchimento in più e ~ un metodo di lavoro. È dall'impatto di culture eterogenee, dall'incontro-scontro tra intensità di espressione e di linguaggi diversi che nascono per lui le intuizioni e le idee. In un 'intervista di qualche anno fa Kokkos dichiara: «La scenografia è per me come Moby Dick. A teatro mi trovo di fronte ad un corpo primordiale, ad una matrice fatta di elementi diversi che è mio compito catturare e trasformare come l'olio e lo spermaceti, o l'osso della balena. Costruisco la scena con tutti gli elementi di cui dispongo e che mi circondano - la vita, il corpo, la luce, lo spazio, la letteratura, la pittura ... ma alla fine la rincorsa si inverte; il teatro diventa la balena bianca. Di Moby Dick mi interessano gli intrecci, i passaggi che ci spostano senza sosta dalla morte alla vita e viceversa». Un esempio. Quando ha lavorato al testo di Remagen di Anna Seghers, ha ricopiato a mano tutto il testo. «Volevo percorrerlo dall'interno per trovare ciò che la parola era incaricata di dire, !lla anche per indagare i risvolti e scoprire ciò che la parola suggeriva senza dire.» Successivamente ha lavorato sul manoscritto segnando ciò che visualizzava. Ma una parte importante nell'ideazione della scenografia l'ha avuta una fotografia di Cartier-Bresson, che riprendeva una soleggiata piazza italiana disertata per la calura. Alla fine - dice Kokkos - del manoscritto non si poteva più leggere una pagina, mentre le immagini che gli si erano addensate nella mente gli davano l'impressione di un albero da frutto da scuotere per raccogliere solo l'essenziale. «Davanti ad un nuovo testo aspetto che le reazioni emergano da sole, senza forzature interpretative, in una specie di fluidità acquatica.» Nel caso di Remagen è nata una scenografia spoglia, giocata solo sui volumi creati da due muretti, uno posto di sbieco e il secondo laterale, entrambi bianchi, nonché sull'incidenza delle luci crude. Kokkos non ama teorizzare il proprio lavoro, preferisce parlare a posteriori delle sue realizzazioni. Parte sempre dagli stessi interrogativi. Come scrivere le emozioni, i pensieri, le immagini che un testo teatrale o un'opera in musica cercano di suscitare? Come costruire un sistema narrativo - la scenografia è una scrittura in tre dimensioni - afferma Kokkos, che sia copia e insieme interpretazione del testo scritto e declamato? Come lasciare allo spettatore il tempo e lo spazio per una sua lettura personale? Quale opzione è la migliore tra il falso dichiarato e il vero simulato? Le risposte di Kokkos stanno nelle sceneggiature, nelle soluzioni diverse che adotta secondo gli spettacoli, le necessità e le imposizioni economiche, secondo gli spostamenti dello spettacolo medesimo. L'aspetto teorico si confronta ogni giorno con i problemi del luogo e della situazione specifica. Sono tuttavia le domande che egli si pone a costituire, per la loro costanza e per le puntuali soluzioni, l'assetto della sua pratica. Il modo di procedere rivela già una grande parte del suo pensiero. Alla maquette, il modello in scala ridotta impiegato da gran parte degli scenografi contemporanei, Kokkos predilige il disegno, che gli lascia maggiore libertà. Il suo è in primo luogo un rapporto preferenziale con il testo. Egli traduce costantemente in immagini secondo un'operazione che noi tutti facciamo quando leggiamo, chi più chi meno. Alla visualizzazione disordinata del lettore ordinario, lo scenografo sostituisce una visualizzazione progressiva. Annota via via in uno schizzo, in un disegno, un atteggiamento del personaggio, masse di scena, volumi possibili, giochi di luce, particolari di costumi e di oggetti. All'inizio del lavoro nulla di ciò che disegna è funzionale alla scenografia vera e propria. I disegni sono le parti di un discorso, sono le parole e le frasi, la sintassi via via più complessa di un sistema narrativo che trova l'ultima formulazione in teac'è da qualche parte nel mondo qualcuno che sta preparando questo spazio e questo tempo. È il segno di un'altra vita, di un altro mondo.» L o spazio e il tempo. Ecco due concetti e insieme due elementi che con il corpo degli attori e con la luce sono alla base di un'alchimia e di un equilibrio da inventare ogni volta. Kokkos sembra riprendere e sviluppare una celebre affermazione di Adolphe Appia, lo scenografo svizzero dei primi anni del Novecento che rivoluzionò la fissità delle scene: «La scenografia è la composizione di un quadro nel tempo». Partendo Tanino Liberatore, in «Vanity», gennaio 1985 tro. «L'immagine teatrale nasce direttamente dalla scena, rare sono le volte in cui l'immagine precede e si impone.» In questo senso Kokkos è un uomo di teatro fino al midollo. Ha ben poco in comune, per non dire niente, con lo scenografo-pittore che ha imperato per anni nei teatri occidentali. Come il regista e gli attori, considera la rappresentazione il momento vitale di un progetto individuale e collettivo allo stesso tempo. Per lui la scena teatrale non solo non è immobile ma acquista vita solamente quando è dimensionata dalla presenza degli attori, dai loro gesti, dalle luci e dalle voci. La vita di una scenografia è breve, dura quanto lo spettacolo o poco più. Finite le rappresentazioni, le scene sono distrutte, rimangono solo le fotografie, i disegni, i modellini, i discorsi. L'effimero, che potrebbe risultare spiacevole, affascina invece lo scenografo greco. «L'effimero del mio lavoro ha un senso profondo per me, è quasi una forma di filosofia. In questo stesso momento da questo punto Kokkos elabora la problematica del rapporto tra il tempo della rappresentazione teatrale e la rappresentazione di un tempo fittizio, che è poi la temporalità dei personaggi e del testo. Sottolinea particolarmente, e molte delle sue attenzioni vanno a questo elemento, l'importanza della percezione che uno spettatore può avere del passare del tempo teatrale come se fosse un tempo reale. Traspone, in un certo senso, la tematica del vero e del falso teatrale al tempo. Un falso vero tempo, ecco ciò che Kokkos persegue. «Lo spettacolo è un passaggio da un inizio a una fine, da una nascita a una morte», dice citando Wenders, come uno a cui guardare per poter dotare un testo di una durata fittizia. Gli elementi più importanti di cui dispone sono le luci e alcuni oggetti che possono essere investiti di una carica simbolica. È il caso, per esempio del Principe travestito, dove un albero sfacciatamente falso ironizza da un lato sulla semplicità dell'idea di natura del teatro di Marivaux, ma serve contemporaneamente a segnalare il passare delle ore: un gioco di proiezione delle luci lo trasforma in una specie di meridiana. Le soluzioni per dotare uno spettacolo di una sua temporalità possono essere diversissime tra loro, e tuttavia diventano un po' la sua firma. Per lo più riusciti i giochi tra luci e spazi rendono bene quello che Kokkos chiama «il tempo di un'emozione». Direttamente connessi con il tempo sono l'uso e l'idea di spazio teatrale. Anche in questo caso Kokkos gioca più sul rapporto di due opposti che sulla loro alternanza sulla scena. È un sostenitore della «dissolvenza incrociata» e degli effetti nuovi che possono sortire dalla compresenza di due elementi, come dal momento del passaggio temporale da una scena all'altra. Uno spazio vuoto e uno pieno accostati sono certamente più dirompenti che proposti singolarmente. O un décor nel Pélleas et Mélisande libera nello spettatore il desiderio di cercare un senso, lo rende partecipe di ciò che si sta rappresentando. Nel Trionfo del- /' amore Kokkos presenta un còté giardino e un còté loggia che si spartiscono ugualmente il palcoscenico. Sono gli attori che passando dall'uno all'altro suggeriscono le opposizioni e i contrasti, ma anche i rapporti tra i due elementi. Sta a noi spettatori completare la nostra percezione nominando il giardino e la casa, chiamando il primo istinto, la seconda cultura. Sta sempre a noi veder~ nella voluta compresenza dei due spazi, nella loro uguale spartizione il conflitto e la connivenza tra i due mondi che Kokkos coglie come parte essenziale del discorso di Marivaux. Lo scenografo non dichiara a chiare lettere, suggerisce solo, preferendo lasciare allo spettatore l'ultima connessione e l'ultima lettura possibili. Quanto a lui si limita ad affermare: «Credo nella forza esplosiva della discrezione». Alcuni tra i lavori più interessanti di Yannis Kokkos 1978: Remagen dal testo di Anna Seghers, regia di Jacques Lassalle, Festival di Avignone. 1979: Le lacrime amare di Petra von Kant di Fassbinder, regia di Dominique Quéhec, Amiens e Chaillot; Caterina von Heilbronn di Kleist, regia di Eric Rohmer, Festival d'autunno di Parigi., . 1980: A la renverse di Miche! Vinaver, regia di Jacques Lassalle, Chaillot. 1981: La locandiera di Goldoni, regia di Jacques Lassalle, Comédie française. 1982: Faust di Goethe; Britannicus di Racine; Tombeau pour 500.000 soldats dal testo di Pierre Guyotat, regia di Antoine Vitez, Chaillot; Lohengrin di Wagner, regia di Jacques Lassalle, Opéra di Parigi. 1983: Amleto di Shakespeare; Le prince travesti di Marivaux, Regia di A. Vitez, Chaillot. 1984: Così fan tutte di Mozart, regia di Guy Contance, Opéra de Lyon; Il Gabbiano, di Cecov, regia di A. Vitez, Chaillot; Il tartufo di Molière, regia di J. Lassalle, Théatre de la Ville, Parigi, (con G. Depardieu); L'Echarpe rouge di Alain Badiou, regia di A. Vitez, opera di Georges Aperghis, Opéra di Lyon; Macbeth di Verdi, regia di A. Vitez, Opéra di Parigi. 1985: Hernani di Hugo, regia di A. Vitez, Chaillot; Ubu roi di Jarry, regia di A. Vitez, Chaillot; Il trionfo dell'amore di Marivaux, regia di A. Vitez, Piccolo di Milano. 1986: Pelléas et Mélisande di Débussy,. regia di A. Vitez, Teatro alla Scala; Elettra di Strauss, regia di Sedan, Opéra di Ginevra. 1987 (in preparazione): La Princesse bianche di Rilke, regia di Yannis Kokkos, sceneggiatura di Nicolas Sire.

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