Alfabeta - anno VIII - n. 91 - dicembre 1986

Laformadell'inventiva R. Boeri, M. Bonfantini, M. Ferraresi (a cura di) La formadell'inventiva Milano, Unicopli, 1986 pp. 250, lire 20.000 D alla scena originaria del grido di Archimede al sogno fecondo di Kekulé, l'aneddotica dell'invenzione intellettuale compendia una ricca batteria di episodi il cui denominatore comune è l'irrompere come all'insaputa del soggetto, in condizioni di tensione mentale allentata o poco vigile, fuori circuito rispetto al lavoro riflessivo. È una ricorrenza comprovata da confessioni di artisti e scienziati, che suggerisce provocanti analogie tra i modi di concepimento delle idee alle più svariate latitudini creative. Le variopinte e molteplici testimonianze dirette degli antefatti di certe scoperte scientifiche, alcuni dei quali meritano a buon diritto il titolo di canonici (si pensi alle deambulazioni di Helmholtz o all'omnibus di Poincaré), suscitano l'impressione di cogliere in flagrante un processo che la stessa moltiplicazione aneddotica finisce viceversa per rendere più misterioso. Ma l'attrazione del racconto, il bisogno di un récit sembra compensare l'incognita, anzi farsi più pressante a misura che lo specifico inventivo pare rivelarsi insondabile; l'interesse a questo genere di micropreistoria è spesso proporzionale alla presunta inconoscibilità del suo referente. Si tratterebbe viceversa di acuire lo sguardo teorico su tale specifico inventivo, ben sapendo che esso si fonda su una compartecipazione di funzioni e processi che interessano in egual misura i territori della scienza e dell'arte. Lo scenario che ne consegue, se non è affrontabile limitandosi ad una ricognizione psicologica o aneddotica, non è quindi nemmeno esauribile ricalibrando l'approccio in termini di logica della scoperta scientifica. L'urgenza di confrontare e di mettere alla prova strumenti genuinamente teorici su quello che si presenta come un tema crocevia per eccellenza trova un'intrigante espressione nel volume collettaneo La forma dell'inventiva, che raccoglie gli atti dell'omonimo convegno svoltosi a Milano il 1415 giugno 1985, atto di nascita del «club Psòmega», «società di studio e di interazione collaborativa fra scienziati, studiosi, filosofi e artisti sull'atto mentale e sull'inventiva». La cripticità della sigla allude ai nodi terminali del sapere (psi ed òmega essendo le ultime lettere dell'alfabeto greco), ovvero a quell'arcano - la forma dell'inventiva, appunto - che pure non può essere eluso da alcun modo della rete dei saperi, nel senso che non vi è punto del grafo che possa alla lunga precludersi un 'autori flessione sui modi in cui vi si produce innovazione concettuale. O forse, tenendo presente il Progetto freudiano, si potrebbe azzardare un 'interpretazione supplementare della neoformazione Psòmega: una questione psi, radicata nel funzionamento dello psichico, che tende irresistibilmente a sconfinare nell' òmega del reale (della prova di realtà), in una dimensione che è di costante interfaccia. Il che dà l'idea dell'ambiguità di un tema costantemente in bilico tra globalità e dispersione, formalizzazione e narrazione; tema ibrido e dunque sospetto, talora esorcizzato come terra di nessuno soffocata dalle partizioni disciplinari oppure mistificato in un elogio della creatività come mera Antinorma. Il club Psòmega autodefinisce invece il proprio assetto di ricerca come «transdisciplinare»: non solo espressione più elegante del consunto e pluridibattuto «interdisciplinare», ma evocante anche un 'interazione fatta di sconfinamenti e di incursioni trasversali in luogo di una sovrapposizione di linguaggi pretestuosamente ritenuti a sé stanti. Come in analogia al proprio oggetto, il volume presenta ad un tempo l'aspetto di una microenciclopedia e l'andatura di una prova generale. Lo si può leggere seguendo la sua ambizione fortemente centrata oppure la varietà di gesti e gusti teorici prodotGianfranco Gabella stian Wolff ricordata nell'intervento di Mario G. Losano. O si pensi ancora all'espressione settecentesca serendipity, che evoca una valenza di casualità e fortunata controfinalità, e che ha riscosso una certa fortuna specie dal secondo dopoguerra ad oggi. Per altri versi se invenio, come rileva Musatti, «sembrerebbe contenere un accenno alla subitaneità», inventare ne è il frequentativo e comporta quindi di per sé un 'idea di iterazione e di processo. La sostanza della questione, come osserva Giorgio Prodi, esorbita perciò dai limiti di una problematica d'eccezione per concernere la comune «fisiologia del pensare». In tal senso non sussiste inventiva in quanto contrapposta ad una presunta, ma solo ipotetica routine tautologica; e di converso essa non equivale a una sorta di deriva nell'inaudito, ma riflette il la fattispecie all'intervento di Sini, per il quale la sola invenzione realmente «radicale» sarebbe l'ascolto di quanto al senso comune appare più remoto dall'invenzione, ossia le radici originarie della donazione di senso. Eppure proprio l'ermeneutica ha contribuito ad indebolire la centralità dell'ipoteca epistemologica, oggi frammentata nei mille rivoli della letteratura sulla «filosofia della scoperta». Che la si intenda invece come folgorazione inesplicabile o come pallida controfigura della ratio calcolante dell'Occidente, variano i fattori ma il prodotto teorico non cambia: l'inventiva rimane inattaccabile all'analisi. Il problema è semmai di accertare quale sorta di inferenza occorra a qualificare l'inventiva in quanto facoltà, e a render conto dello spostamento di senso che in essa si esprime. Il ricorso ad uno Massimo iosa Ghini, Sillavengo, in «alter alter», gennaio 1984 ta dal ventaglio dei ventotto interventi. P roviamo a tracciare una parziale, tentativa cartografia delle posizioni emerse. La coppia concettuale più diffusa nelle raffigurazioni e nelle interpretazioni dell'atto inventivo comprende i poli dell'estemporaneità intuitiva e del lavorio riflessivo, sua condizione necessaria ma non sufficiente, che la precede e/o la elabora successivamente. Diade che emerge con chiarezza, ad esempio, nell'amabile resoconto di Musatti circa la sua «scopertina» del fenomeno di eguagliamento cromatico. Logica e Zen, per dirla con l'aforistica sobrietà di Bruno Munari, che ci offre una persuasiva dimostrazione: anche la più seriale delle apparecchiature, la fotocopiatrice, può generare originali e non copie, se si provvede a muovere il foglio durante il tempo di esposizione. Un'operazione rigidamente esecutiva può così trasformarsi, al limite, in una performance d'arte. Il fattore di discontinuità intuitiva ha cqnosciuto storicamente infinite formulazioni, dall'érmaion o dono di Hermes dell'immaginario greco alla lux inexpectata di Chripiù generale meccanismo strategico di fronteggiamento della novità che per qualche rispetto è propria di ogni contesto cognitivo in quanto situazione di linguaggio. L'emergere di ciò cui attribuiamo il valore di invenzione, si potrebbe aggiungere, non è dissociabile né dalle peripezie della sua gestazione né da quelle della sua ricezione: ed entrambe sono lorde di linguaggio, dense di vettori persuasivi e discorsuali. La componente quasi «divinatoria» dell'atto inventivo viene così a perdere il prestigit> dell'unicità (se non ineffabilità), per integrarsi nel processo collettivo di autocostituzione del senso. L'inventiva è la norma, appunto. Ma ciò impone certo di rivedere, tra l'altro, l'ormai obsoleta suddivisione tra scienze della natura e scienze umane, riconsiderando la dimensione strategica dell'argomentazione che vi è all'opera. Non meno infecondo dell'interdetta popperiano ad una disamina razionale dell'atto inventivo, che si voleva relegato nelle contingenze di un 'inoffensiva «psicologia della scoperta», appare d'altro canto l'arroccamento dell'enneneutica su una posizione di diagnosi epocale: il riferimento è neldei più potenti modelli formulati in tale direzione è operato da Massimo A. Bonfantini e da quanti nel libro si richiamano alla figura peirceana dell'abduzione o retrodu-. zione, com'è noto ripresa sul calco dell'apagogè aristotelica. Si ha qui a che fare con una forma di inferenza plausibile che, al suo livello più alto, si configura come pensiero dell'assente possibile, ove cioè viene escogitata ex novo proprio la legge mediante cui il caso può essere inferito dalla situazione o esito problematico. Identificando l'atto del congetturare o indovinare un'interpretazione possibile, l'abduzione si propone come marchingegno chiave della detezione (su cui si sofferma anche l'intervento di Giulio Giorello), nonché come prototipo dominante delle procedure tipiche di risoluzione dei problemi. Il suo scenario naturale non è peraltro la cornice asettica del problem-solving, ma l'intensità drammatica e dialogica dell'interazione linguistica. U n differente appello all'inferenza sembra invece privilegiato da Eco, che tende ad attrarre l'inventiva sul modello della generazione per «combinatoria dal medesimo». Vasta è la suggestione di questa tradizione lulloleibniziana al duplice livello delle teoriche (l'ideale di un'Arithmetica universalis) e delle prove di inventiva (fino ai lipogrammi dell'Oulipo ). Qualora tuttavia questo paradigma venga concepito in senso esaustivo, pare lecito interrogarsi sulla plausibilità di un'opzione deduttivista onde sarebbe comunque postulabile, a fronte di una performance inventiva data, una rigorosa catena inferenziale più o meno nascosta (e al limite inaccessibile solo per eccesso di complessità). Di qui il pur gustoso apologo di Barbieri sul «calcolatore di Gatwick», in apparenza capace di uno spunto privo di antecedenti precostituiti (dunque, intuitivamente, inventivo) ma frutto in realtà di una memoria-archivio sepolta, dunque ottenuto via concatenazione deduttiva occulta. Resta da chiedersi, in altri termini, se questa incidenza del pregresso vada davvero intesa in chiave algebrico-combinatoria anziché nel tessuto storico di una trasformazione che occorre nel pieno della lingua, e che l'inventiva promuove nel suo stesso costituirsi a norma del processo conoscente. Sullo sfondo, il macroproblema del nesso tra intelligenza artificiale ed umana (cfr. M.A. Bonfantini, La mente umana non è un computer, «se», n. 37, luglio-agosto 1986, p. 42). In proposito resta da chiedersi, tra le altre cose, se la differenza non passi anche attraverso una memoria che viene di continuo reinvestita, riscritta, «tradita» (nel duplice senso di trasmessa e fraintesa). Una memoria, insomma, che non funziona per richiamo del medesimo ma come scena dell'alterità (e solo grazie a ciò come laboratorio dell'alterità possibile): zona calda dei recessi mitici e biopsichici che ci rende (im)memori di un imo fetale, prenatale, di un flusso immaginale di preconcezioni che non cessa di agire, come suggerito dall'intervento di Mancia. A conclusione di questo primo, forzatamente provvisorio sondaggio su quello che si annuncia come «primo degli Annali» di una vasta ricerca in progress, sia lecita un'osservazione alla globalità dell'impresa. Una questione ulteriore che fa da corona al varo dell'avventura di Psòmega sembra essere il fatto che non è stata ancora «pertinentizzata la buona forma» (Eco) dell'approccio all'inventiva. Il problema, come si vede, è di secondo grado: non concerne cos'è e come funziona l'inventiva (la sua forma), ma il luogo da assegnare ai discorsi che la concernono (il suo statuto). Se la transdisciplinarietà è a questo riguardo un'acquisizione irrinunciabile, vi è una disciplina, o quasi-disciplina, che sembra riassumere questo statufo nomade e atipico, vale a dire l'euristica. Filone non privilegia- \Q to, vicolo cieco sulla carta dei sa- ~ peri che vanta una storia mossa, -S tutta da scrivere, oscillante dalla g'. matematica alla logica della sto- ~ riografia. Scenario sempre sfuggi- ......., to all'istituzionalizzazione, con- ~ dannato a una sorta di dissemina- E zione operativa. Tra i molti e cruciali compiti con cui il «cl11bPsò- "' \..) ~ ........ mega» va misurandosi, rientra an- °' che quello di vegliare con impazienza e rigore su questo scacco ~ che non cessa di alimentare i no- l stri interrogativi. t:i

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