Alfabeta - anno VIII - n. 91 - dicembre 1986

M.E. D'Agostini, (a cura di) Canetti Roma, Bulzoni, 1985 pp. 219, lire 20.000 E. Canetti e T. W. Adorno Dialogo sulle masse, la paura e la morte «MicroMega», n. 2, 1986 pp. 193-212, lire 15.000 I n questi ultimi anni si sono moltiplicate le occasioni di ricerca, d'indagine sull'opera «a più voci» di Elias Canetti: un'opera che aspira ad essere un semplice frutto della potenza di metamorfosi che specifica l'intero vivente e di fronte a cui lo stesso autore sa «che la cosa più difficile è trovare un buco attraverso il quale tu possa scivolare via dalla tua stessa ' ra i tanti clichés che condizionano le convinzioni attuali circa le realtà storico-culturali della prima metà del secolo, risulta particolarmente vitale quello relativo agli «anni venti», definiti di volta in volta mitici, irripetibili o leggendari. Non sarebbe nemmeno il caso di segnalare questo dato di fatto se esso non contribuisse a introdurre una certa qual distorsione niente affatto secondaria nell'idea complessiva che ci si fa della cultura negli anni precedenti l'ascesa del nazismo. Ora, è ben vero che ad esem1 pio in Germania i «leggendari anni venti» coincidono quasi letteralmente con le date di fatto: proprio intorno al 1929-1930 ebbero infatti inizio i fenomeni che portarono ben presto all'involuzione economica e sociale del paese, nonché alla tragedia politica del febbraio 1933; e in quello scorcio di anni è ben difficile riscontrare qualche data, qualche avvenimento o fatto che abbia rilevanza culturale davvero storica. Ma è altrettanto vero che in Austria agli «anni venti» segue ancora un lungo periodo di grande vitalità che si è un po' perso di vista e su cui non si riflette abbastanza, oscurato com' esso è dalla luminosità che, a ragione certo, si sprigiona dal decennio precedente, anche viennese. Non è solo il fatto che l'Anschlu/3si verifichi nel 1938 che deve farci riflettere su questo, ma la realtà stessa della cultura austriaca, che ci dice - anche se tendiamo a dimenticarcene - che Vienna rimase, fin quasi all'ultimo centro vitalissimo di movimenti, incontri, avvenimenti d'arte, di scienza e di filosofia tali casomai da indurre ad aprire un nutrito capitolo sui (magari mitici?) «anni trenta» della capitale austriaca. Ebbene, sembra essere quasi stata questa l'intenzione involontaria, o maliziosa, o sotterranea di questo libro di Canetti, che col'utopiqbal,;lj Can - I opera. Tu vorresti essere nuovamente in un mondo libero e senza regole, che non sia stato violentato da te. Ogni ordiae è una tortura, ma l'ordine che stabiliamo noi stessi lo è più di tutto. Tu sai che non tutto può quadrare, ma non ti lasci distruggere la tua costruzione. Potresti tentare di minarla, ma allora tu stesso vi saresti dentro. Invece vuoi essere fuori, libero. Nelle vesti di un altro, tu potresti scriverci contro un attacco terribile. Ma tu non vuoi distruggerla. Vuoi solo trasformarti». Questo «appunto» canettiano del 1960, contenuto in La provincia dell'uomo, illumina tratti della figura e dell'universo tematico dell'autore di Auto da fé, individuandone l'estrema mobilità, dinamicità, che concorre a renderli .. sempre sorprendenti ed affascinanti. E del resto proprio questa «singolarità» del suo percorso di vita e della sua opera è ora al centro del crescente interesse nei confronti dello «scrittore» Canetti che si sta sviluppando soprattutto nei paesi di lingua tedesca, ma che offre preziose testimonianze anche in Italia. È recente infatti la pubblicazione di una raccolta di saggi, curata da M.E. D' Agostini, che affronta lo sfondo problematico su cui si disegna l'itinerario teorico di Canetti e che insiste sulla necessità di ampliare l'orizzonte del lavoro critico, al di là di ogni specialismo esasperato e improduttivo (che quando non riconosce la propria «settorialità» s'impedisce cioè la comprensione del carattere «aperto» e multiforme dell' «oggetto» d'analisi). Ed è proprio in apertura del volume, che si propone come un importante strumento di lavoro, che l'intervento di D' Agostini tenta di dimostrare la presenza in Canetti di una ferrea volontà d'indicare, nei «nostri tempi apocalittici», le qualità di trasformazione, di mutamento, che l'umanità possiede e che legittimano il messaggio di speranza e di amore per la vita che emerge da tutta l'opera canettiana e in particolare dagli scritti dell'autobiografia, di cui si deve ricordare l'ultimo, splendido: Il gioco degli occhi, del 1985. D' Agostini riconosce anche con precisione come Canetti tenti di far nascere nell'uomo lo sconcerto e la «disperazione» di fronte alla prospettiva della catastrofe, anGliannitrentadiVienna munque - sia ben chiaro - resta quello che dichiara di essere, e cioè una fetta di autobiografia, e sia pure tra le più esaltanti che capiti di leggere, di un giovane scrittore che per quasi tutti quegli anni visse tra i protagonisti della cultura viennese. Di Canetti avevo letto soltanto, anni fa, l'Auto da fé: mi aveva inizialmente stuzzicato, coinvolto, ma col passare delle pagine e dei giorni l'interesse scemava: confesso, mi perdonino i canettiani, che non arrivai alla fine, pur riconoscendo pienamente le non poche novità di contenuto e di scrittura del libro, cui molti autori di oggi - il Grass del Tamburo di latta per primo - mi pare debbano moltissimo. Avevo così chiuso con Canetti quando per una pura combinazione, indotto soprattutto dal desiderio di scoprire qualche lato nuovo della personalità di Hermann Scherchen che anch'io avevo conosciuto, mi posi a leggere questo Gioco degli occhi. Posso dire che di rado un testo mi ha prodotto una folgorazione così acuta, mi ha colpito con maggior forza. Questa «storia di una vita» è un pezzo di viva storia della cultura, una galleria di straordinari personaggi, un succedersi di situazioni e di stati d'animo che si scolpisce nella mente del lettore con un'intensità e una plasticità che oserei definire uniche. Inutile sottolineare che la figura che più straordinariamente risalta nel quadro d'assieme è quella di lui, il narratore: è l'immagine di un giovane (Canetti stava tra i 26 e i 32 anni d'età, e come scrittore doveva ancora praticamente comparire sulla ribalta) quasi esaltato, capace solo di odi o entusiasmi estremi, irruente e generoso, acutissimo nel notare quello che accade intorno a lui, convinto fino m fondo delle cose che fa - proprio in quegli anni portava a termine il manoscritto dell'Auto da fé, che Giacomo Manzoni faceva conoscere mediante letture nella cerchia intellettuale viennese, insieme alla Commedia della vanità scritta nel più puro vernacolo di Vienna -, con una dote straordinaria di percezione e di descrizione dei caratteri salienti, fisici, psicologici, intellettuali, delle persone con cui veniva a contatto. li più impressionante di questi ritratti è quello del Dr. Sonne, il personaggio che «parlava come Musi! scriveva», e che si crederebbe quasi inventato tanta è la sua superiorità intellettuale, la sua perspicacia e rettitudine morale, la sua cultura, la sua sensibilità artistica, la sua chiarezza e infallibilità di giudizio, la sua intuizione politico-sociale. Da lui sembra irradiarsi, proprio come dal sole da cui prende il nome, un calore di sapienza, di umana comprensione che ne fanno un personaggio affascinante oltre che centralissimo, quasi fosse - eforse davvero lo fu - il nume tutelare, l'ancoraggio più solido e la guida più illuminante per il Canetti di quegli anni. Viceversa c'è una figura che incombe per la sua pressoché totale assenza, ovvero per la sua «presenza negativa», a sua volta così caratterizzando in modo singolare questo libro: quella di Kart Kraus, un'assenza che l'autore del resto spiega con assoluta chiarezza: « La delusione per la sua condotta dopo gli avvenimenti del febbraio 1934 era stata enorme. Si era pronunciato a favore del cancelliere Dollfuss, aveva accettato la guerra civile per le strade di Vienna e avallato il peggio. Tutti, veramente tutti, l'avevano abbandonato. Ormai Kart Kraus teneva soltanto piccole serate clandestine di cui non si sapeva nulla, non si voleva saper nulla: in nessun caso si sarebbe cercato di esservi ammessi. Era come se la persona Kart Kraus non esistesse più f. .. /: lui, come persona, era soppresso in me come in molti altri, cancellato, non più presente, in nessun modo e in nessun luogo. Era proprio come se Kart Kraus, davanti al suo pubblico riunito, avesse tenuto uno dei suoi più grandiosi discorsi contro se stesso e così si fosse annientato. In quegli ultimi due anni della sua vita veniva ancora nominato nelle conversazioni, sia pure con una certa riluttanza, ma già come se si parlasse di un defunto». Fra questi due poli del volume scorre un caleidoscopio di personaggi che balzano vivi dalla pagina contribuendo a rendere palpabile la temperie culturale della Vienna di quegli anni. Ecco Hermann Broch, il grande amico di Canetti, «un uccello grande e bellissimo ma con le ali mozze», ecco Anna, la nipote di Mahler da cui prende titolo il libro («da quel momento i suoi occhi non mi lasciarono più f. ../: un'immensità senza fondo che non mi aspettavo. Anna era fatta solo di occhi, tutto il resto che si vedeva di lei era illusione / .. .f. È impossibile ammettere qualcosa di così mostruoso: occhi più vasti della persona cui appartengono»); e ancora Hermann Scherchen, il direttore d' orchestra, frenetico, travolgente, imprevedibile, Fritz Wotruba, solido e possente come le pietre che scolpiva, il viscido e borioso Werfel, Alban Berg, verso cui Canetti dimostra un'ammirazione sconfinata, Beer-Hofmann che è di casa - riverito come il grande patriarca delle lettere austriache - nei saloni del magnate viennese della stampa Benedikt, Zemlinsky, che compariva regolarmente sul tram n. 38, «una testa da uccello, tutta nera, con un naso triangolare assai sporgente, senza alcuna traccia del mento ... », e tanti e tanti altri ancora che bisogna lasciare al lettore il gusto di scoprire e di godersi: citando solo, per ultimo, il raggelante incontro con Musi/, in una Marcello lori, Lover in «alter alter», luglio /983 nunciata dalle tante distruzioni, perché ci si possa infine nuovamente muovere, contro coloro che ribadiscono le pseudo-ragioni di un presente «apocalittico», verso la speranza. E quest'ultima è fondata materialmente sul «principio della molteplicità» che costituisce l'esperienza stessa di ciò che vive e quindi anche dell'essere umano. «L'uomo può primeggiare in uno o più campi d'azione e, secondo il 'principio della molteplicità', la sua importanza come uomo nella società non si fonda sul primato. Ogni settore della sua personalità è ugualmente importante [... ]. Il poeta, come l'uomo, deve potersi e sapersi trasformare in tanti altri uomini, quelli che sono latenti in lui, diversi da lui. Raggiunta la massima grandezza deve essere delle solite letture, che tronca il dialogo con Canetti non appena questi gli rivela, entusiasta, di aver ricevuto una lettera di lodi da Thomas Mann sul suo Auto da fé appena stampato (1935). Un altro incontro, di tutt'altro genere, che dev'essere assolutamente ricordato è quello con Biichner e soprattutto col Wozzeck (Canetti usa ancora la grafia delle prime edizioni), descritto in pagine incandescenti, folli di entusiasmo e di frenesia, che in apertura di libro trascinano subito il lettore nel vortice fittissimo della narrazione. Se si pensa che tutte queste intuizioni, queste folgorazioni, questi incontri destinati a lasciare segni incancellabili sulla psicologia e sull'intelligenza del giovane scrittore, sono immersi in un quotidiano vibrante, quanto mai plastico, pieno di pennellate vivissime sulla Vienna di quegli anni, i suoi questi sì leggendari caffè, le sue strade, Ìe sue piazze, il quartiere di Grinzing sede classica della bohème viennese, un quotidiano attraversato da incontri anche fugaci con personaggi di secondo piano o addirittura anonimi cui l'immediatezza sensitiva di Canetti presta vivezza non minore che a quelli di maggiore spicco intellettuale, ebbene, da qualunque punto di vista si consideri questo libro, esso costituisce la migliore testimonianza di quanto dicevo all'inizio circa la Vienna degli «anni trenta» e la sua vitalità artistica e culturale. Più in generale esso può essere davvero preso come l'introduzione più viva, più immediata e più affascinante - anche se più personalizzata - alla comprensione e alla riflessione su quel periodo oggi quasi dimenticato. Elias Canetti Il gioco degli occhi Tr. di Gilberto Forti Milano, Adelphi, 1985 pp. 383, lire 25.000

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