Alfabeta - anno VIII - n. 91 - dicembre 1986

Calvino, nell'elaborare lo stesso materiale per destinazioni formali diverse. Il testo, originariamente pubblicato con un altro titolo e qualche modifica su «FMR» nel 1982, è trasparentemente autobiografico. In questo ambito di problemi ci sono due cose da dire: la prima consiste nel rammarico che Calvino non abbia portata a termine l'autobiografia annunciata in alcune interviste, di cui la straordinaria prosa già citata, La poubelle agréée è l'unico assaggio che si è potuto gustare, trasmettendo alle papille gustative un sapore non dissimile da questo racconto; la seconda, invece, è d'ordine tecnico. Infatti, come si è già accennato, anche in Palomar Calvino aveva usato luoghi e persone di cristallina valenza autobiografica. Ma non è facile affermare che quell'opera fosse autobiografica come si può con questo racconto, perché lì c'era un distanziamento e una costruzione tutti interni ai meccanismi del personaggio che qui non c'è. L a poesia è usualmente definita come la radicale Alterità del Pensiero. Luogo comune diffuso quanto capzioso, nella sua stringenza apparente: non è forse materia della poesia il sentimento o l'emozione, che contrassegnano - a piacimento - l'aldilà o l'aldiqua, il sostrato o l'eccedenza, del Concetto? Immemore _diNovalis, questo topos si Lasciasfuggire lo stigma essenziale dell'atto poetico: il suo essere né mera estraneità, né mera sfumatura o zona d'ombra del concetto, ma piuttosto esperienza dell'aporia, del limite invalicabile che ingombra il cammino, o metodico incedere del pensiero (quale altro è infatti il significato di méthodos se non quello di via, di viatico al progredire fluente del conoscere?). È accaduto così che la poesia indicasse, in questo secolo, alla filosofia quei bordi, quegli ostacoli, quei terreni capaci di produrre attrito, senza i quali è impossibile, come sapeva Wittgenstein, dar luogo alle autentiche svolte del «pensare per argomentazioni», ivi compresa la stessa logica (che, poi, il modo in cui il pensiero filosofico esperisce l'aporia non possa essere confuso con alcuna sùggestione eclettica da «pensiero poetante», non contraddice affatto la funzione maieutica della poesia, ma ne costituisce al contrario il complemento essenziale). Ciò che colpisce già alla prima lettura delle poesie di Mario Fortunato è il loro attraversare, quasi in impercettibile rassegna, tutte le monadi della costellazione moderna: la costellazione dell'intimità, del «foro interiore» della coscienza (che, da Agostino in poi ha costituito le pareti familiari, e tuttavia non per questo meno inquietanti, della nostra «educazione sentimentale»). In essa ricorrono con naturale frequenza parolechiave come solitudine e silenzio, emozione e corpo, esistenza e linguaggio: e vi ricorrono nella piena consapevolezza della radice irrevocabilmente moderna, fisiologicamente erratica, del tempo interiore. La puissance destinale, che a questa radice inestricabilmente inerisce, ci condanna a riprodurre il fantasma dell'eternità attraverso infinite enumerazioni. «L'uomo intenerito ed esule che rammenta possibilità felici», nota magistralmente Borges in Storia dell'eternità, «le vede sub specie aeternitatis, assolutamente dimentico che l'avverarsi di una di esse Ecco che la voce narrante di Sotto il sole giaguaro non viene fornita d'un nome sovrapponendosi così più facilmente all'io dello scrittore. Il racconto lascia trasparire nella grana antropologica del tema che vi si svolge la notevole e benefica eterogeneità delle fonti di certe suggestioni calviniane. Un suo articolo fu dedicato al libro dell'antropologo Marvin Harris dal titolo che adesso risuona suggestivamente intonato a questi racconti, Cannibali e re. E il tema del cannibalismo ha il suo pendant in un'agghiacciante pagina di Palomar in cui si legge: «Se ogni materia fosse trasparente, il suolo che ci sostiene, l'involucro che fascia i nostri corpi, tutto apparirebbe non come un aleggiare di veli impalpabile ma come un inferno di stritolamenti e ingerimenti. Forse in questo momento un dio degli inferi situato al centro della terra col suo occhio che trapassa il granito sta guardandoci dal basso, seguendo il ciclo del vivere e del morire, le vittime che si disfano nei escludeva o prorogava le altre. Nella passione, il ricordo tende ali' intemporalità. Raduniamo le f elicità di un passato in una sola immagine; i tramonti diversamente rossi che guardo ogni sera, saranno nel ricordo un solo tramonto. Lo stesso accade con la previsione: le più incompatibili speranze possono convivere senza difficoltà. Detto in altre parole: lo stile del desiderio è l'eternità» (Tutte le opere, li, pp. 540-541). Dal canto suo, Octavio Paz assegna al tempo interiore la metafora spaziale del labirinto, facendo corrispondere l'immagine del «laberinto de la soledad» a quello che Toynbee definiva «the twofold motion of withdrawal-and-return» (Il labirinto della solitudine, p. 253). Eppure questa consapevolezza, e le coordinate che ne discendono, benché multiformemente rappresentata con un sapiente ricorso alle metafore geometriche, non forma di per sé l'oggetto del libro di Fortunato. Piuttosto, sembra disporsi tacitamente alle sue spalle, come luogo di origine e punto prospettico di un «già accaduto»: «Le mie parole sempre inseguono il termine I l'inizio mai I per questo raccontano I ciò che mai può essere stato», recita il testo collocato significativamente in chiusura della raccolta. Per quanto si sappia innervata fin nell'intimo dentro la «condizione moderna», questa poesia non ha a sua archè o tema-principale la caduta nel tempo cronometrico della successione, ma lo «stato di quiete» e di disperato silenzio che accompagna la situazione del dopo-caduta. Poesie senza tema, dunque: e, pertanto, a nulla intitolate, ma semplicemente numerate. L'«enumerazione», sul cui significato si ritornerà, serve primariamente a raccogliere la cifra di un dolore che succede alla caduta di ogni Tema possibile, e che grazie a questa caduta si è fatto sguardo disincantato (e, forse, sottilmente ironico) su ogni dispositivo o marchingegno «dialettico». È del tutto naturale che vengano qui alla mente le indimenticabili pagine dedicate da Heidegger alla Eròrtung - all'interrogazione sull'Ort, sul luogo della poesia - nel suo saggio su Trakl: il luogo originario drlla poesia non somiglia affatto (come voleva la vulgata romantica) a uno scrigno, ma piuttosto alla punta di una lancia. In questo luogo, tutti i poli della costellazione poetica tendono a conventri dei divoratori, finché al!a loro volta un altro ventre non li inghiotte» (p. 60). Un re in ascolto viene ripubblicato con molte pagine aggiunte. Si parla di ripubblicazione perché la sua prima comparsa fu su un paginone centrale di «Repubblica», nel 1984. In questo, come negli altri due racconti, le metafore di Calvino sono frequentemente costruite usando una terminologia musicale. Già ad apertura di libro i profumi intrecciano «da uno scaffale all'altro la loro rete di accordi consonanze dissonanze contrappunti modulazioni progressioni ... » e le narici diventano sorde in uno slittamento continuo da un senso all'altro. F u Massimo Mila, in un bell'articolo, a riscontrare in Palomar molti riferimenti alla musica ma qui si vogliono riportare alcune annotazioni di Luciano Berio: «La sua opera, nella pura molteplicità dei suoi livelli e dei suoi destinatari, mi appare come vergere, proprio come nella punta di una lancia. Ciò che riunisce non si limita a conservare - a tenere in equilibrio - ma «trapassa e permea di sé tutto». Non lo custodisce solamente, ma lo penetra della sua propria luce, «dandogli solo così la possibilità di dispiegarsi nel suo vero essere» (In cammino verso il linguaggio, p. 45). Cerchiamo di trarre un corollario da questa formula: la poesia moderna, quando è seriamente tale, non può rinunciare alla linea - è condannata a trafiggere. L 'antitesi astratta tra tempo lineare e tempo ciclico non è certo mantenuta. Non per questo, tuttavia, è necessario soggiacere alle tentazioni - proprie di tanta arte e scrittura postmoderna - a riscoprire le taumaturgiche virtù pagane del cerchio; né è obbligatorio cedere alle bellettristiche inclinazioni di una dialettica postcristiana incline a proporre turbinosi e barocchi incroci dei due tempi. Tradotte in espressione poetica, le formule edificanti della dialettica si risolvono nell'illustrazione innocua dei dissidi solitari Lasciati allo scoperto dalla caduta dell'immagine cumulativa e costruttiva del tempo forgiata dai Moderni. Contro queste tentazioni opposte, infrangendo la loro pendolare idolatria, la poesia di Fortunato ci sembra reclamare, con ferma discrezione, l'intimità della differenza. Ciò che in essa «ha luogo» - la sua Eròrtung (ma in un senso che tende inesorabilmente a discostarsi, ci sembra, da quello heideggeriano) - è una cattura della differenza nell'orbita dell'intimità. Originale, singolare anzi, la sua maniera di adunare gli opposti (lo e Mondo) nella «casa del corpo» o (ancora Heidegger) nella «semplicità del dolore dell'intimità»"':Nello spazio così «assolto» - e perciò reso irrelato e irriducibilmente individuale - del corpo troviamo in tensione, ma anche in inestricabile legame, entrambi i momenti: loquacità dell'esistere (con l'ipertrofia, tutta metaforica, delle sue espressioni o parvenze «rappresentazionali») e silenzio dell'evento costituito dal/' esistenza - da questo assoluto singolare che è L'esserci determinato. A partire di qui si producono Le proiezioni dell'arco microcosmico su quello macrocosmico. E, com'è inevitabile, le analogie ricorrono seguendo la cadenza discontinua di un'identità che precipita, come in una mitica aritmoun intreccio luminoso di frammenti che, pur nella loro trasparenza, sembrano far parte di una materia musicale complessa e in continua trasformazione. La traiettoria labirintica del suo percorso narrativo aveva conquistato dei tratti sempre più musicali: penso alle ellissi debussiane di Se una notte... , ai rapporti ternari delle Variazioni Golderg in Palomar». Verrebbe quasi voglia di azzardare che, se una cornice Calvino avesse elaborata per quest'opera, essa avrebbe avuto come spina dorsale il «senso» della musica. D'altronde è nota la sua collaborazione con Luciano Berio con cui aveva elaborato il libretto per l'azione musicale che porta l'omonimo titolo di questo racconto. In questo terzo testo quindi un re riceve degli ordini da una voce di cui non si sa nulla: è facile sospettare però che in alcuni momenti sia lo stesso re a parlare producendosi in una sorta di monologo fantastico. E tutto attorno l'ordito dei suoni fa presagire lo spasofia astrale, nell'abisso dei suoi significati. La «casa del corpo» non può rappresentarsi che come ellisse, orbita della rivoluzione del giorno intorno agli occhi, moto iterativo di «ritorno alla meta» (poesia 8). Nella rappresentazione, il suo posto è in tutto e per tutto immanente a quell'universo unanime del «dicibile», borgesianamente timbrabile come apoteosi dell'assimilazione e dello scambio. Ma, al tempo stesso, qui la rappresentazione esperisce il limite inerente al proprio cerchio come fisiologica inabilità a perimetrare le emozioni: «non so più quali siano i miei lineamenti I né l'esatto perimetro delle emozioni» (poesia 31). L'emozione si configura infatti, rispetto al circolo di ogni autoidentificazione protocollare, nella forma di un'inquietudine geologica del corpo: «Il corpo è l'asse della terra I la sua ascissa infuocata I che muta accoglie il sonno e la veglia I la sua rotazione è una linea spezzata I una lenta vertigine I un solco scavato e occulto I Su questo albeggia il pensiero I e inciampa I In se stesso tramonta» (poesia 21). Nei versi di Fortunato si percepisce così, oltre alla suggestione della nuova poesia italiana (come è stato, del resto, già autorevolmente osservato), l'eco di una disposlZlone d'animo omologa (omologa più che affine: non credo si tratti di filiazione diretta) all'ultima poesia di Luzi: vedi l'insistere, delicatissimo e mai narcisisticamente ossessivo, sul/'esistenza come cifrario: «Se si isola un verbo I si scopre a un tratto I la sua radice di cosa I e la sua muta solitudine I vagare nell'assorta ragione I priva di salvacondotto I come un oggetto smarrito I provvisto soltanto di suono ... » (poesia 2). E come non riandare, dinanzi al «quieti si aduneranno i verbi» della poesia 5, all'«ancora tramortita I pattuglia delle parole» di Per il battesimo dei nostri frammenti? E tuttavia... • E tuttavia dal/'«ordine sferico della memoria» (poesia 48), che in Fortunato sembra scaturire come per magia bianca dal blocco spazio-temporale del corpo, la cifra stessa finisce per sfumare nell'indecifrabilità del ricordo (cfr. poesia 19), che non lascia margine e luogo ad alcuna pulsione redentrice, ma solo ad un laico ancoraggio del desiderio alla dimensione me/atemporale del/'eternità: nella «meridiana dei pensieri» (poesia 32) Soggetto e Ogzio del palazzo e dell'esterno: la paura e insieme il desiderio di un cambiamento evocano figure evoci in cui il re sente tutta la sua precarietà. La narrazione è svolta in una seconda persona molto simile alla cornice di Se una notte... ma l'impressione è che Calvino, nello scrivere Un re in ascolto, si sia ricordato di un suo racconto degli anni sessanta, Il conte di Montecristo, e ne abbia voluto fare una specie di postilla: Edmond Dantès che abbiamo lasciato con i suoi tentativi mentali di trovare una via d'uscita dal castello d'If è o no questo re che, nelle ultime battute del racconto, vediamo finalmente uscito dal suo palazzo-fortezza ascoltare la città risvegliarsi? Sarà proprio Dantès? In ogni caso ricorderà, con Calvino, che la via d'uscita non è «che il passaggio da un labirinto all'altro». L'attrito dell'intelligenza con l'esterno e con se stessi per stabilire temporanee indicazioni di movimento è continuo. getto precipitano nel loro scambio simbolico originario. E in questa transazione di significati, il primo dei due termini viene restituito alla violenza ontologica del suo etimo: hypo-keimenon, sub-jectum, nuda parametricità soggiacente. Una volta conseguita la consapevolezza dell'assoggettamento; una volta attinta la propria radice etimologico-destinale; una volta abbandonata, dunque, la prometeica pretesa di essere null'altro che un oggetto deputato al dominio di altri oggetti - una volta compiute queste operazioni, il soggetto rifluisce nel suo carattere «essenziale» di supporto del corpo, unità di misura delle sue quotidiane rotazioni, spazio logico-sintattico della sua «presenza»: «quotidiana bianca mathesis I formule incognite fisse I silenzio I nel giorno numerico» (poesia 33). Sta forse qui - potremmo allora concludere con Borges - il segreto di «quel piacere speciale che ci procurano le enumerazioni». Se «lo stile del desiderio è l'eternità», perché escludere che proprio «l'insinuazione dell'eterno», dell'immediata et lucida fruitio rerum infinitarum, possa essere la vera causa di quel piacere? Mario Fortunato La casa del corpo Roma, Edizioni della Libreria Shakespeare and Company, 1986 pp. 70, lire 9.000 Martin Heidegger Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl in In cammino verso il linguaggio a cura di Alberto Caracciolo Milano, Mursia, 1979 pp. 45-81, lire 15.000 Mario Luzi Per il battesimo dei nostri frammenti Milano, Garzanti, 1985 pp. 222, lire 26.000 Jorge Luis Borges Tutte le opere a cura di Domenico Porzio, 2 voli. Milano, Mondadori, 1984-85 voi. I, pp. 1301, lire 42.000 voi. II, pp. 1471, lire 42.000 Octavio Paz Il labirinto della solitudine Milano, Il Saggiatore, 1982 pp. 262, lire 15.000

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