Alfabeta - anno VIII - n. 91 - dicembre 1986

egradoaccademicloii La rubrica , che ha già ospitato interventi di Maria Corti (numero 88, settembre 1986), Aurelio Roncaglia e Cesare G. De Michelis (numero 90, novembre 1986), prosegue con scritti di Mario Vegetti, ordinario di Storia della filosofia antica nell'Università di Pavia, di Gian Carlo Alessio, professore di Filologia medioevale e umanistica ne~'Università di Cosenza, e di Giuseppe Petronio, professore emerito di Storia della letteratura italiana ne~'Università di Trieste. Degrado o restaurazione? Mario Vegetti Il grido d'allarme di Maria Corti (Degrado accademico) mi pare - da par suo - generoso e quindi apprezzabile; tuttavia per un verso eccessivo e per l'altro insufficiente. Vediamo rapidamente perché. Eccessivo. Perché, se è indubbio che nell'attuale tornata di concorsi molte legittime aspettative vanno frustrate, resta tuttavia il fatto che tali aspettative sono motivate. Il fatto, cioè, che l'Università italiana (unica, che io sappia, nel mondo occidentale), anziché ridurre il personale docente come avviene in modo più o meno drastico ovunque, lo assume, o almeno lo promuove, in quantità credo più elevata di quanto accadesse ai vecchi tempi dei concorsi annuali o biennali cui Maria Corti si riferisce. Perché, ancora, se è indubbio che alcuni (o molti) personaggi non meritevoli vincono i concorsi a cattedra, non si può propriamente parlare di degrado dell'istruzione universitaria in Italia. Nella grandissima maggioranza, questi personaggi sono già docenti universitari in qualità di professori associati; il successo nel concorso migliorerà certo la loro posizione di carriera, a scapito di altri; ma, dal punto di vista dell'insegnamento, le cose non cambiano molto, benché resti vero che un cattedratico ha più peso nella gestione dei fondi, dei meccanismi di cooptazione e così via. Perché, infine, mi pare ingenuo lo scandalo sul fatto che un sistema di cooptazione funzioni appunto come tale. Ingenua è intanto, epistemologicamente, la distinzione fra candidati «preparati» o «valorosi» e gli altri, soprattutto in campi dove non esiste una comunità scientifica coesa e omogenea. Sappiamo benissimo che un contributo scientificamente significativo all'interno di un campo di ricerca (di un «paradigma», tanto per intenderci), può risultare del tutto irrilevante e persino vacuo ed ozioso da altri punti di vista, in funzione di programmi di ricerca rivali. È normale dunque che le «scuole» scientificamente più influenti tendano a riprodursi e a rafforzarsi per cooptazione. Da questo punto di vista, io preferisco senz'altro il sistema elettorale sècco per la formazione delle commissioni, che almeno ne rende riconoscibile la fisionomia di scuola, dunque di politica culturale, piuttosto che quello in cui interviene il sorteggio, che non rende più de- · mocratiche le commissioni ma rischia di introdurvi personaggi scientificamente irriconoscibili, disomogenei, che possono rendere inevitabile il patteggiamento a livello personale piuttosto che l'accordo per «scuole». Ma, tornando al punto di vista più importante, temo che ogni lamentela sul fatto che non vincono i «migliori» significhi, in un modo o nell'altro, che non vincono coloro che sono culturalmente affini al proprio paradigma scientifico; sarebbe meglio dire proprio così, chiarendo la natura del conflitto scientifico in corso, la supremazia (magari l'arroganza) di alcune correnti su altre, piuttosto che supporre un improbabile azzeramento epistemologico che permetta di contrapporre in generale i «bravi» e gli «ignoranti» (non mi nascondo certo che a volte vincono i concorsi proprio gli ignoranti in assoluto, indipendentemente dalla loro affiliazione scientifica o di scuola: ma questi sono scandali veri e propri, che andrebbero isolati facendo, se non i nomi, almeno gli specifici cognomi). Su questo piano, l'allarme di Maria Corti mi pare tutto sommato eccessivo. L'università italiana assorbe, o soprattutto promuove, personale docente; questo, pur fra molta confusione, è selezionato per cooptazione dai gruppi «scientifici» dominanti, come è sempre accaduto, il soggetto della cooptazione essendo in Italia il personale accademico; altrove - e non so se sia un bene - hanno più influenza le autorità amministrative, dello Stato o dell'Università. Insufficiente. Ma, dicevo, questo allarme mi pare al tempo stesso insufficiente, perché non richiama l'attenzione su due ordini di considerazioni per le quali mi sembra legittimo parlare, più che di degrado, di atmosfera di restaurazione che avvolge come una cappa pesante questi concorsi. In primo luogo, c'è l'ovvio, preoccupante invecchiamento del personale universitario. Alle promozioni, per linee interne, di ricercatori e di associati fa riscontro la pressoché totale chiusura ai giovani studiosi, inferiori più o meno alla soglia dei 35 anni, che non sono mai entrati nell'Università e che, stando così le cose, mai ci entreranno (considero irrilevante l'esperienza monca e assurdamente limitata dei dottorati di ricerca). La chiusura dell'Università su se stessa ne sclerotizza le strutture di insegnamento e di ricerca, e soprattutto impedisce di mobilitare nuove energie intorno a «programmi di ricerca» innovativi; il confronto fra scuole rivali si estenua nel conflitto per le carriere e l'occupazione delle sedi piuttosto che allargarsi all'apporto dei giovani studiosi, che sono tradizionalmente il banco di prova del successo o del deperimento di un indirizzo scientifico. Restaurazione varrà dunque, in questo senso, soprattutto come invecchiamento e chiusura generazionale. Ma ho l'impressione che, anche all'interno dell'attuale personale universitario, si possa parlare di restaurazione in senso più stretto e politicamente preciso. Mi pare cioè che si stia profilando la tendenza - in linea del resto con l'evoluzione socio-culturale complessiva - ad una sorta di «resa dei conti» nei riguardi della sinistra universitaria, marxista e no, comunque critica, che viene ora punita per i momenti di egemonia, forse più apparente che reale, conquistata negli anni settanta. Si tratta - da parte dei gruppi universitari non necessariamente «di destra», ma legati comunque alla conservazione culturale e istituzionale - di colpire in certi casi personaggi che sono stati particolarmente esposti nel dibattito politico-culturale; di premiare per contro, e in ogni caso, i giovani di provato conformismo e di totale sordità verso le implicazioni extra-accademiche del lavoro scientifico; di presentare - soprattutto - un modello cogente a chi intenda far carriera, formato appunto da conformismo, timido ossequio all'istituzione, rifiuto della politicità della cultura. Formato, soprattutto, di paura. Forse, più che premiare i non meritevoli, la strategia di questi concorsi (certo più oggettiva che soggettivamente voluta) è proprio questa: far paura, intimare obbedienza intellettuale. Se questo è vero, qui si fa qualcosa di peggio che un degrado; qui, appunto, si restaura. Ragioni della «trista stravaganza» Gian Carlo Alessio Il «degrado accademico» stimola una chiosa: non fosse che per manifestare a·desione. Non sembra sia però necessario moltiplicare l'aneddotica: tutti abbiamo potuto contemplare, attoniti, la irresistibile ascesa di zampironi a rendimento (scientifico), a dir gentile, opinabile; così come tutti abbiamo tratto amari insegnamenti dalle vicende di bravissimi schiacciati dalla gramola delle lottizzazioni o, peggio, dalla difesa, concessa ad oltranza, di diritti acquisiti all'interno di scuole: non sono più, pare, i tempi di Abelardo. Occorre opportuno fors'anche palesare alcune ragioni della «trista stravaganza» e più a chi sta fuori; chi sta dentro la macchina universitaria se le trova così ficcate addosso coi chiodi dell'abitudine da non riuscire a meravigliarsene che quando ne fa carico ad altri: come la ragione che, quando è accecata dalla verità, non è più in grado di giudicarsi. La «stravaganza» pare essere sintomo di un male grave che ha radici nella sostanza stessa del rapporto interpersonale che introduce alla ricerca ed alla carriera ed è stato sensibilmente volto al peggio dagli acçadimenti di questi ultimi quindici anni. Nei quali si è andata sempre più offuscando l'immagine dell'Università come sede di ricerca scientifica e sono divenuti sempre più accentuati i suoi aspetti di grande stabilimento per la sistemazione e la carriera dei docenti (e non). Nella Università italiana la mela della conoscenza è stata suddivisa in 10.000 insegnamenti, su cui si affollano circa 30.000 docenti, distribuiti in ben 49 sedi, più o meno appetibili, a sentire il competente Ministro. Tanto alacre attività di moltiplicazione è stata condotta prescindendo in gran parte da necessità reali e dal valore oggettivo dei postulanti ed ha favorito, assieme al generale scadimento del livello scientifico, il diffondersi (non dico il generalizzarsi) del docente di massa: soggetto alieno il più delle volte dal piacere della ricerca personale ma, in molti casi, impegnatissimo a programmare quella-degli altri, a far mirabolare colleghi e discepoli con qualche trasvolo nel nuovo mondo (i rapporti internazionali), impeccabile nel fiutare latiboli di osti da specializzare in succulenze congressuali; però saldamente ancorato, anzi identificato, con le ragioni non scientifiche di principati, comitati, baronie, confraternite, congreghe di potere accademico, e quindi di fatto insensibile ad ogni aspetto della vita accademica che non riguardi la riproduzione dei posti e la spartizione di prebende. Siffatto docente ha oculatamente rinunciato, sin dalla sua infanzia Gabriella Giandelli, Fuel, in «Reporter», 25 febbraio 1986 accademica, alla libertas philosophandi, che Spinoza riteneva imprescindibile per l'intellettuale, alla libertà cioè di sottoporre ogni cosa al vaglio critico della ragione, sostituendola con una presunzione di razionalità individualistica che sorregge la messa in opera di paralizzanti microconflittualità interne nell'aggredire i problemi correnti della vita accademica. Al depositario di un dogma (trascrivo da un sermonario della fine del settimo decennio del XX secolo), fissato dalle mire espansionistiche di scuole - cui qualche volta soggiacciono interessi politici o partitici - non si potrà chiedere di adempiere all'obbligo intellettuale e morale di giudicare responsabilmente e in proprio sui destini dell'organismo - l'Università - che lo accoglie e definisce. Tali destini si identificano con quelli del gruppo cui egli partecipa e va da sé che perpetuarne gli interessi significa ricevere un potere di riflesso, la garnnzia di cogestirlo, la speranza di amministrarlo in proprio e con le stesse modalità in futuro. Viceversa, l'opposizione al dogma produce isolamento, interruzione dell'Informazione emessa dal centro, talora il rifiuto dell'avallo, coram populo, della valentia scientifica, vera o supposta. Ed il giudizio, si sa, complice la microspecializzazione, tende sempre più a formarsi per sentito dire. Necessaria dunque la sua funzionalità acritica al sistema, la sua organicità al potere, di solito incarnato dal caposcuola: il grande progettatore, il macroantropo: che non sempre significa grand'uomo. A questi, capataces e peones, viene delegata (delegata: summum ius!) la facoltà di giudicare del futuro della ricerca e dell'Università come universo etico-culturale: e la Maria Corti poi s'aspetta che ci si voglia rassegnare a valutare il candidato di un concorso per quel che ha scritto; o che ciascuno s'industri a riprodurre, se gli riesce, qualche cosa meglio di sé: poiché Joseph Bédier era pur sempre allievo di Gaston Paris. Vero è che c'è chi ci assicura essere ormai conclusa l'era dell'homo dolens e che, nel giro di due o tre generazioni si affaccerà la specie dell'homo gaudens, le cui azioni saranno dirette dal puro piacere, non deviate su altri fini quali il potere che, sempre ci assicurano, è solo una forma di difesa, quindi di isolamento e di improduttività. E dunque la soluzione definitiva dei problemi dell'università italiana sembra non doversi attendere molto. Mentre s'aspetta, qualcosa si potrebbe pur provare a fare anche se dubito che una istituzione

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==