Reagan di accettare il rischio di un "vertice al buio" è stata la mossa di un giocatore di poker, e il presidente si è trovato "incastrato" in una situazione che non aveva previsto. Ma una mossa da giocatore di poker è stata anche la decisione di Gorbaciov di puntare tutto su una carta sola, la questione dello scudo spaziale, e il leader sovietico si è trovato a sua volta "incastrato". Si tratta adesso di riannodare le fila del dialogo iniziato a Reykjavik in una chiave diversa, trasformando quella che era stata una partita di poker in una partita di scacchi. Al poker si decide di colpo con la messa sul tavolo delle carte di ciascun giocatore. Negli scacchi nessuna mossa è di per sé definitiva, ma serve da base per una serie di mosse successive. Questa è la fase che si è iniziata adesso ... ». Metafore a parte, non è difficile convenire con Stille che «negli annali della diplomazia il summit di Reykjavik rimarrà un episodio tra i più singolari: in tutte le sue fasi, il prevertice, il vertice e il postvertice, esso sembra aver violato le regole tradizionali del gioco». La violazione delle «regole tradizionali del gioco» spiega in buona parte i vari segni di disagio (in qualche caso, le vere e proprie cantonate) che i media hanno palesato in questa non secondaria occasione. Con le «regole» storicamente consolidatesi nella serie di summit USA-URSS sono saltati anche i criteri di interpretazione (o se preferite: i pregiudizi) con i quali i media sapevano, a priori, come raccontare e spiegare gli eventi. Reagan e Gorbacev hanno cambiato le regole del gioco, non si sa più bene a che gioco stiano giocando, ed è teoricamente possibile che loro stessi non sappiano bene quale sia il gioco e stiano cercando a tentoni di stabilire nuove regole. Il punto che ci interessa qui è capire perché giornali anche solitamente bene informati e molto autorevoli (facciamo per tutti il nome dell'Economist, il cui editoriale uscito alla vigilia del summit azzardava previsioni risultate largamente sbagliate) non abbiano subodorato che le vecchie regole non erano più affidabili. La cosa è tanto più strana quanto più erano abbondanti, prima del vertice, i segni che il gioco stava cambiando. Tanto per cominciare, l'incontro di Reykjavik è stato annunciato con pochissimi giorni di preavviso, e con l'etichetta - del tutto inconsueta - di «prevertice», cui avrebbe dovuto far seguito il vero e proprio vertice, previsto a Washington. Anche formalmente, dunque, Reykjavik non e_ra un numero in più nella serie dei vertici che lo avevano preceduto, ma un unicum, un evento fuori schema. Se a ciò si aggiungono la novità dell'argomento principale del contenzioso (le «guerre stellari») e le caratteristiche ormai note delle politiche dei due protagonisti, non si può certo affermare che mancassero gli elementi per una revisione delle aspettative e degli schemi interpretativi. Si potrebbe osservare che queste considerazioni sono fatte con il senno di poi. L'obiezione può essere facilmente respinta. Innanzitutto, anche dopo la conclusione i:::i del vertice si è insistito ad applicas::: -~ re i vecchi canoni interpretativi. c:i... Molti si sono azzardati a prevedere uri riacutizzarsi della tensione e della guerra propagandistica; la previsione è andata in buona parte delusa, come riconosce Stille nel suo articolo del 20 ottobre: «nel postvertice si assiste a uno sviluppo che contraddice anch'esso un'altra delle regole del passato, ~ quella cioè che un '·fallimento" l produce inevitabilmente una fase ~ di "tensione"». La «stranezza» dei termini del «fallimento» di Reykjavik, e dunque la discutibilità del criterio con cui si poteva parlare di «fallimento» o meno, era del resto immediatamente palese. Senza attendere le rampogne ufficiali di Shultz, le vecchie volpi di Le Monde avevano sentito un odore strano; Etrange ... è il titolo dell'editoriale del numero datato 14 ottobre (in effetti del 13): «Curioso "fallimento" quello che Reagan e Gorbacev hanno annunciato in bell'armonia a Reykjavik. In altre circostanze e con altre motivazioni, i due protagonisti avrebbero potuto, al contrario, presentare il loro incontro come un grandissimo successo ... Mai da una ventina d'anni in qua i Due Grandi erano giunti così vicino a concludere accordi di una tale portata». Anche prima del vertice islandese, in alcuni dei maggiori giornali di caratura internazionale non erano mancate precise premonizioni di eventi nuovi e di~egole inconsuete di gioco. Potremmo ad esempio citare l'articolo del Financial Times del 3 ottobre, Sudden death may lie in wait at Reykjavik. Il titolo è di complessa traduzione: letteralmente significa «Una morte improvvisa può essere in agguato a Reykjavik»; ma «sudden death» ha anche altri significati; ad esempio, nel gergo sportivo vuol dire «bella, spareggio». L'articolo prende in esame con sottigliezza i diversi scenari del summit; tuttavia non nasconde la sua preferenza per lo scenario che ispira del resto il titolo e che sarà poi verificato, abbastanza fedelmente, dagli eventi, almeno secondo l'interpretazione dominata dalla figura retorica della «trappola». La «morte improvvisa», secondo l'articolo, a Reykjavik attende innanzitutto Reagan. Gorbacev infatti «potrebbe decidere di giocare il summit come un fallimento e revocare il vertice di Washington ... Anche se non è questa la sua intenzione, la collocazione temporale dell'evento, tre settimane prima delle elezioni USA, garantisce che un fiasco pubblico potrebbe avere il massimo impatto politico in America. Reagan deve essere consapevole di essere stato spinto dalla manovra di Gorbacev in una posizione delicata, ed anche pericolosa ... se Gorbacev decide di alzare la posta e di cambiare le regole del gioco in una Sudden Death». Noi non sappiamo se questa previsione-interpretazione sia esatta; ma sappiamo che ha saputo sicuramente prospettare alcuni degli eventi che si sono verificati, e soprattutto ha saputo intravvedere alcune caratteristiche delle «nuove regole». Non è detto, naturalmente, che Reagan sia andato a Reykjavik come una lepre va verso la trappola; non si può neppure escludere che, entro certi limiti, la «trappola» sia stata messa con una certa intesa fra i due, ai danni delle rispettive opposizioni interne. In ogni caso, lo schema del Financial Times ha funzionato meglio dello schema tradizionale dei più, che si attendevano da Reykjavik qualche buon accordo limitato (per esempio sugli euromissili) e un rinvio del resto del contenzioso all'incontro di Washington. Torniamo all'editoriale del Wall Street Journal citato all'inizio, a proposito di sport e di tifosi. Chi segue con attenzione gli editoriali di quel giornale, sicuramente uno dei più influenti degli Stati Uniti, e altrettanto sicuramente una delle voci più rappresentative del reaganismo DOC (non di quello immaginario, stile «Quelli della notte», che ha largo corso in Italia) non si è stupito troppo nel leggere proposizioni di questo genere: «Ciò che la riunione di Reykjavik ha realmente dimostrato è, come hanno capito i tifosi di foot-ball, quale farsa sia divenuto il "processo di controllo degli armamenti" ( ... ) Dopo Reykjavik, il presidente Reagan ha una splendida opportunità per liberarsi di questa saga farsesca. È giunto il tempo per l'Amministrazione di allontanarsi dal tavolo dei negoziati e fare ciò che occorre fare per promuovere la sicurezza nazionale del!' America. Il presidente dovrebbe ricorrere al periodo di sei mesi previsto dal trattato ABM del 1972 (è il trattato che regola gli armamenti antimissili NdR) per la recessione dal trattato stesso, e procedere con il primo spiegamento dei primi passi dello SOi» (SOi, com'è noto, è la sigla dell'Iniziativa di Difesa Strategica, pi(Lnota come «guerre stellari» o «scudo spaziale»). Conclusione: «Se il presidente se ne sta a fare il morto nell'acqua dietro Reykjavik, lo SDI sarà sotA l l~ • i .Y. ) T I BETA: Monolito quarto (1986), particolare toposto a ricerca fino a morirne e sarà buttato via dal negoziato. Se invece prende l'iniziativa, egli può liberare la gente da una mitologia fuorviante, fare dello SDI una difesa anziché un programma di ricerca e aiutare ciascuno a ricordare che l'ultimo scopo non è il controllo degli armamenti ma la sicurezza nazionale». Nel periodo che precedette Reykjavik, il Wall Street Journal e l'ala «dura» del reaganismo sottoposero lo stesso Reagan a un duro bombardamento di critiche, fino all'esplicita accusa di voler gettare lo SDI nel calderone di qualche accordo di disarmo illusorio. Quando si parla di nuove regole bisognerebbe tener conto di queste tendenze, tutt'altro che trascurabili negli Stati Uniti. Da un punto di vista «europeo» si tratta di tendenze poco meno che guerrafondaie; agli occhi eu~opei, le trattative per il disarmo sono l'alfa e l'omega della diplomazia mondiale; agli occhi di una larga parte degli americani, il controllo degli armamenti non è lo «scopo ultimo». Con aria un po' stranita, la nostra stampa ha dovuto pr.endere atto che, dopo Reykjavik, un sondaggio promosso dalle maggiori reti televisive e dai maggiori giornali USA rivelava che più del 70% degli americani approvava la condotta di Reagan a Reykjavik e le sue scelte sullo scudo stellare. Questa serqua di «stranezze» potrebbe spiegare la netta impressione che, dopo pochi giorni, l'interesse dei media per gli eventi inusitati di Reykjavik e del dopo Reykjavik abbia subito un calo notevole, abbastanza difficile da comprendere, se si considera che - per fare un esempio - non accade tutti i giorni che i comandanti militari della NATO critichino pubblicamente l'Amministrazione· USA, accusandola di «svendere» (o poco meno) l'equilibrio strategico in Europa. Il fatto è che anche il vecchio schema basato sulla contrapposizione tra «falchi» e «colombe» rischia di diventare rapidamente inservibile. A una settimana dal primo editoriale sui tifosi di foot-ball e sulla necessità di lasciare i summit ai cultori di mitologia, The Wall Street Journal pubblicava (20 ottobre) un altro editoriale, ArmsControl Unchained, in cui si legge: «Ronald Reagan ha riscritto le regole del gioco del controllo degli armamenti e chiunque voglia partecipare seriamente a questo processo dovrà giocare d'ora in poi secondo esse. Sulla base dei recenti avvenimenti, è possibile identificare le linee-guida del nuovo processo di controllo degli armamenti. Primo, il MAO è morto (MAO sta per Mutuai Assured Destruction o Mutua Distruzione Assicurata NdR). La distruzione reciproca assicurata, o bilancia del terrore, è la base teorica degli accordi sugli armamenti, come il SALT II, che richiedono livelli nucleari sofisticatamente "bilanciati" fra le due parti così che ciascuna possa sopprimere i centri abitati dell'altra. "Lo SDI - ha detto il presidente Reagan lunedì scorso - è la polizza assicurativa dell'America". Il presidente Reagan ha sostituito la sicura distruzione con la sopravvivenza assicurata. In secondo luogo, Reagan sta lasciando cadere i minuziosi conteggi a favore di riduzioni dei missili di ordine assoluto ... ». Lasciamo perdere la palese contraddizione fra la retorica dell'editoriale di lunedì 13 e la retorica di lunedì 20 ottobre. Ciò che importa notare è che, secondo la logica «guerrafondaia» del Wall Street Journal, di Reagan e delle «guerre stellari», i missili nucleari dovrebbero sparire dalla faccia della terra, o quasi. Secondo le dichiarazioni delle due parti, a Reykjavik Reagan e Gorbacev sono andati molto vicini a questo obiettivo. Fumo negli occhi, public relations game, come direbbe il Wall Street Journal? Può darsi. Reykjavik ha conservato il suo enigma. Gli osservatori, cioè tutti i cittadini informati del pianeta, sono autorizzati a credere che le «nuove regole» stanno portando, dietro una cortina retorica, a una rotta di collisione fra i blocchi e a una esiziale rincorsa alle armi spaziali; ovvero che, al prossimo summit, Reagan e Gorbacev riscriveranno la carta della pace e della guerra sulle basi della «sopravvivenza assicurata». In un caso o ne li'altro, il geroglifico di Reykjavik è stato tracciato in una nuova lingua, con regole e significati diversi dal passato. I media dovranno adattarsi a decifrarla, per mantenere un minimo di comprensibilità agli eventi e un minimo di comunicazione univoca con i propri utenti.
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