11. maxi-proct1~ad,i Palermo 11 periodo dell'emergenza nei processi penali nasce come soluzione «perversa» in una strategia di risposta politico-giudiziaria al fenomeno della lotta armata in Italia. La sperimentazione, efficiente dal punto di vista delle esigenze accusatorie , è stata replicata in occasione dei grandi processi alla «criminalità organizzata». Il maxi-processo alla Mafia in corso a Palermo ne è una tappa rilevante in ordine sia alla specificità «palermitana» del procedimento giudiziario, sia alla permanenza o meno di tutti quegli assi portanti del- !' «emergenza» che si sono incuneati nel tessuto fisiologico dell'ordinamento processuale penale. «Alfabeta» prosegue la ricerca iniziata a gennaio (Cfr. Amedeo Santosuosso, Durante un processo alle BR, in «Alfabeta» n. 80, gennaio 1986) e intervista ora due penalisti palermitani impegnati nel maxi-processo in corso nell'aula-bunker di Palermo: l'Avv. Francesco Musotto e l'Avv. Aldo Caruso, che è anche osservatore per la Lega dei Diritti dell'Uomo dell'UNESCO. Il maxi-processo, sia in relazione a reati cd. «politici», sia a reati comuni di cd. «criminalità organizzata», ha una valenza non solo d'ordine quantitativo, ma anche qualitativo, per la complessità ed il fitto intreccio di molteplici figure e situazioni processuali. Come si presenta l'istituto della difesa a questa nuova condizione? Quale agibilità effettiva può avere in situazioni così vaste e complesse? Caruso Dietro una maschera di apparente neutralità, legata alla oggettiva descrizione di un fenomeno quantitativo, il maxi-processo nasconde in realtà una serie irrisolta di mutamenti qualitativi della sostanza stessa del processo penale che, nel modificare la corteccia esterna e, per così dire, organizzativa della macchina processuale, incidono a fondo come dispositivi finali, di funzionamento e di attuazione, di una profonda trasformazione dello stesso modello del processo, fermo restando il contenuto normativo all'interno del quale esso si muove. La fenomenologia che ne deriva appare senza dubbio inedita e non più compatibile con le strutture classiche del diritto penale, abituate a trattare una realtà processuale rigidamente ancorata al principio liberale della responsabilità individuale e che, per ciò stesso, si inscriveva agevolmente all'interno di un modello processuale dai contorni ben precisi e non suscettibili di dilatazioni oltre misura. Oggi si assiste, invece, ad una sorta di «esplosione» del processo penale, dove tutto diventa enorme, sovrabbondante, smisurato, eccessivo; le strutture rivoltate, esibite, dilatate, a vantaggio esclusivo di una conversione isterica di tutto l'apparato giudiziario in una gigantesca impresa, dove la posta in gioco non è più quella di «garantire un processo in qualche modo giusto», ma la dichiarata ostentazione della capacità statuale di celebrare il giudizio. All'interno di tale «Beaubourg» giudiziario, dove il rito processuale viene scandito e si consuma con assoluta indifferenza rispetto al fine ultimo, continuare a parlare di difesa e di diritti della difesa non può che apparire, quindi, come un tentativo nostalgico di recuperare un ruolo ed una funzione ormai in via di estinzione. Musotto La difesa, nei processi nei quali figurano imputate più di trenta persone sino ad arrivare a diverse centinaia come negli ultimi anni è invalso l'uso, viene massificata. Il disegno accusatorio globale appiattisce le posizioni individuali nell'ambito del reato associativo. Più numerosi sono gli imputati, più è difficile evidenziare le condotte individuali e le attività singolarmente poste in essere. Da qui la massificazione, l'impossibilità cioè di rendere valutabile singolarmente l'individuo, l'impossibilità di ottenere una trattazione contestuale e dell'accusa e della difesa. Imputati che vengono interrogati all'apertura del processo, vedono la trattazione della loro posizione da parte del P.M. dopo diversi mesi, e la loro difesa dopo altri mesi, con la conseguenza che il principio del contraddittorio delle parti, quel principio per cui contestualmente accusa e difesa devono svolgere le loro considerazioni e contestazioni, viene dilatato al massimo e si perde la possibilità di seguire il metodo con cui si forma il libero convincimento del giudice. La contestazione sempre più frequente di «reati organizzativi» privilegia il lato investigativo ed inferenziale nel processo, sia in fase istruttoria che in fase dibattimentale. Se in quest'ultima difesa ed accusa giocano parti simmetriche su uno stesso piano di uguaglianza formale, nella fase istruttoria il lavoro d'équipe consente una penetrazione ed una costruzione maggiore dell'ipotesi accusatoria. Come reagisce la difesa? Caruso La smisurata proliferazione dei reati -associativi nella prassi giudiziaria di questi ultimi anni, al te_mpostesso causa ed effetto della iperdilatazione dell'area del processo di cui parlavo prima, introduce un altro dato di ulteriore preoccupazione, questa volta sul terreno più propriamente logico-probatorio. Il singolare modulo accusatorio cui costantemente si fa ricorso in questi casi - e ciò, sia che si tratti di criminalità politica sia che si tratti di criminalità comune - determina una perversa spirale probatoria dove i soggetti chiamati a rispondere, per una sorta di attrazione magnetica, oppure per strani meccanismi di contagio, possono proliferare all'infinito, non esistendo in astratto alcun limite logico che possa garantire qualche margine di controllo razionale. Si parte normalmente da fatti specifici attribuiti a singole persone, ritenute autori materiali; da essi si risale, con un discutibile processo induttivo, alla individuazione di una certa struttura organizzativa; si stabilisce poi una serie più o meno determinata di comportamenti sintomatici attraverso i quali giustificare l'inserimento di tutti quei soggetti che hanno avuto, in qualche modo, rapporti con gli imputati «iniziali»; dall'inserimento così accertato nell'organizzazione illecita si ricava la loro responsabilità per i fattireato attribuiti all'organizzazione stessa. È q_uestolo schema praticamente ricorrente in tutti i processi politici ed in tutti i processi di criminalità organizzata. Sotto questo profilo, non c'è alcuna differenza, per esempio tra il processo «7 aprile» ed il maxi-processo alla mafia: al «teorema Calogero» corrisponde il «teorema Falcone». Alle evidenti anomalie logico-probatorie che indubbiamente stravolgono le dinamiche interne del processo penale, si sovrappongono le patologie del nostro sistema processuale, una sorta di ibrido tra sistema inquisitorio e sistema accusatorio, che finiscono col ridurre la fase dibattimentale ad una piatta accettazione acritica delle risultanze dell'istruzione scritta e segreta. In tale contesto, per concludere, le possibilità di reazione della difesa si vedono ulteriormente compresse e limitate in ambiti particolarmente ristretti, il tutto forse accentuato dalla scarsa coscienza che la classe forense ha di questi problemi spesso affrontati superficialmente e con strumenti inadeguati. Studi sulle funzioni lineari di un archetipo grafico, 1981 (particolare) Musotto Nella fase istruttoria è ormai invalsa l'abitudine di far agire contemporaneamente più magistrati. Ciò per una maggiore economia di tempo dovendosi trattare più posizioni comuni. Questo significa che l'imputato cui era destinato un giudice naturale ed uno accusatore oggi deve fronteggiare legioni di accusatori e di giudici. Il libero convincimento viene quindi formato in assemblee; i provvedimenti vengono stesi almeno a tre mani, spesso di più; le ordinanze di rinvio a giudizio, come le requisitorie, vengono firmate da intere procure ed interi uffici istruzioni. Il criterio della solitudine del giudice nelle decisioni è stato ribaltato a favore dell'imputato che sicuramente da solo, anche se gravato di reati associativi, deve affrontare l'istruttoria. Processo «politico» e processo «di criminalità organizzata»: dal punto di vista della difesa muta qualcosa nel proprio lavoro e nel riflesso di tale lavoro al di là delle aule giudiziarie? Carusl'> Dal punto di vista squisitamente tecnico, laddove fosse ancora possibile separare i due aspetti, non c'è alcuna differenza; anche perché la risposta dello Stato a queste due forme di «criminalità», in termini di repressione giudiziaria, è stata praticamente omologa. Aggiungo, anzi, che storicamente abbiamo assistito ad una sorta di perfezinnamento di quegli strumenti che furono per la prima volta sperimentati nei processi politici e che ora vengono tranquillamente utilizzati nei processi contro la criminalità organizzata. Pensiamo, per esempio, alla legislazione d'emergenza, all'uso del pentitismo, alle carceri di massima sicurezza ... Musotto Il processo politico non è tipico della realtà isolana, se per politico si intende il processo per terrorismo. In questi processi la caratteristica è quella della estremizzazione di un'idea politica; il movente, quindi, non è quello della criminalità comune. E sebbene il prodotto sia egualmente mostruoso è comunque da inserire in un quadro ideologico, anche se degenerato. Nella criminalità organizzata il movente, invece, è meno nobile. La coesistenza di maxi - processo e processo penale «ordinario» ha creato, tra l'altro, gravi malesseri nella classe degli avvocati difensori. Il malcontento è arrivato anche a lunghi scioperi che hanno paralizzato la giustizia (come a Napoli). Cosa ne pensate? Di cosa è sintomo questo malessere? Caruso Il maxi - processo rappresenta senza dubbio la sublimazione di un percorso storico-giuridico, tradizionalmente definito come «emergenza», che ha visto via via annullarsi il ruolo e la funzione del difensore, ormai definitivamente esautorato dalla scena processuale, spesso considerato come un inutile ostacolo alla affermazione della giustizia, se non proprio obiettivamente colluso con gli interessi del proprio •cliente. Tutto questo ha inevitabilmente determinato una profonda crisi di identità, cortocircuitando l'ibrido sistema di relazione tra Magistratura ed Avvocatura, peraltro da sempre fondato su equivoche «intese collaborazioniste», difficilmente compatibili con un modello processuale come il nostro. Ma, al di là di quello che appare in superficie, c'è un ulteriore aspetto latente del problema che mette in crisi tutto il sistema; la rottura dei rapporti tra magistrati ed avvocati det~rmina, come inevitabile effetto riflesso, la pericolosa chiusura di un di,iframma processuale assolutamente necessario per il «regolare» funzionamento della macchina giudiziaria: scompare dalla scena processuale la figura dell'avvocato-cuscinetto, filtro di mediazrone del rapporto tra imputato e giudice, con tutte le dovute conseguenze. La perdita della capacità di rappresentanza determina la delegittimazione del difensore da parte dell'imputato, il quale non si sente più «naturalmente» tutelato ed adeguatamente difeso. Al maxi-processo di Palermo si sono già sentite le prime avvisaglie di tale fenomeno, che ha registrato punte particolarmente alte di tensione diretta tra detenuti e giudici e che, non a caso, sono rientrate quando i difensori hanno in qualche modo preso l'iniziativa. Musotto Anche sul piano strettamente professionale i processi, che per durata impegnano molti mesi, ed a volte anni, impediscono inoltre di poter seguire con la dovuta attenzione le cause ordinarie, perché obbligano ed impegnano ad una costante presenza in aule spesso distaccate dai palazzi di giustizia. Quali sono le reali possibilità di difesa di fronte alle confessioni di un cd. «pentito»? Che possibilità di incidere ha il difensore nel gioco di confessioni e ritrattazioni, gioco in «codice extra-processuale» tra «pentito», magistratura in- . quirente e organi dello stato? Cosa diventa il dibattimento incentrato sulle confessioni del «pentito»? Caruso La domanda investe e riguarda diversi e delicati problemi, di difficile sistematizzazione, soprattutto attraverso risposte necessariamente sintetiche come quelle di un'intervista. Visto dall'angolazione difensiva, il fenomeno del pentitismo solleva due questioni essenziali: da una parte, la cd. gestione del pentito e, dall'altra, la valenza logico-probatoria delle sue propalazioni accusatorie. Volendo prescindere dalle implicazioni di natura politico-giudiziaria che la prima questione necessariamente si trascina appresso, limitandosi cioè ad affrontarla sotto il profilo squisitamente tecnico-giuridico, la gestione del pentito rimanda alla problematica relativa alla formazione ed alla acquisizione della prova nel nostro ordinamento processuale. Sotto questo aspetto, avuto riguardo alle norme che governano il regime della prova nella fase istruttoria, ci vuole poco a comprendere la assoluta impossibilità della difesa ad esercitare il benché minimo controllo, con particolare riferimento all'oscuro sottobosco dove maturano motivazioni, premi, patteggiamenti vari. Spesso i pentiti vengono interrogati al chiuso delle caserme, senza la presenza del difensore (quasi sempre d'ufficio), in una gestione per così dire clandestina delle loro dichiarazioni, completamente sottratta ad ogni forma di controllo esterno. La verifica dibattimentale si rivela poi più illusoria che effettiva, risolvendosi sostanzialmente in una conferma, quasi sempre acritica e «protetta» delle dichiarazioni rese in istruttoria. La difesa segna quindi il passo, registrando notevoli difficoltà nello smontaggio del «blocco istruttorio» confezionato per il dibattimento, e scontando anche l'incapacità culturale di una aggressione critica, sotto il profilo logico-probatorio, del materiale offerto dalle dichiarazioni dei pentiti. Il discorso rimanda adesso al tema più generale dell'attendibilità della chiamata di correo, e più in particolare della valenza di un simile mezzo di prova, la cui principale caratteristica è quella di risolversi, dal punto di vista strutturale, in una circolarità tutta interna al fatto da accertare, utilizzando, in un singolare gioco di specchi, come elemento di verifica esterno, la stessa fonte dalla quale prende le mosse. La drammatica attualità del fenomeno, ormai diventato una pericolosa scorciatoia probatoria, ripropone in ultima analisi quella indiscutibile correlazione esistente tra il grado di civiltà giuridico-culturale in un determinato ordinamento sociale e la storia del processo penale. e::, <") Musotto Le dichiarazioni dei c:::s i.: coimputati confessi sono sempre -~ esistite, un tempo si chiamavano ~ chiamate in correità. La differenza ~ allo stato attuale delle cose è che -. mentre prima la chiamata in cor- ~ ~ reità era considerata un semplice E ~ indizio a carico del prevenuto, e ;:,. C) doveva essere corredato da certi i.: obiettivi riscontri istruttori, oggi i ~ processi spesso si basano solo sulle ~ dichiarazioni dei coimputati e i ri- ~ scontri sono a volte inadeguati. ~ ~ Ma l'allarme più grosso è suscitato ~
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