Mensile di informazione culturale Ed. • • C • I . 121001 _ooperat1va ntrapresa ~W////////////////////////////////////////////////////////A Via Capos1le, 2 • 20137 Milano ~ i Novembre 1986 Numero 90 / Anno 8 Lire 5.000 90 Spedizione in abbonamento postale ~ A M 11 i gruppo III/70 • Printed ~nItaly ~ aca an i ~ . . i ~ s1arriva ~ i d. ~ ~ pergra 1. ~ i i ~ ~ ~ 3k ~ ~ KACAL1 L,A• i ~ =~~ i ~ y.~~ ~ i fktdWÀidy i i ~ i/////////////////////////////////////////////////////////~ Degradaoccademic(oRoncagliDa,eMichelis) Dov'è finitalacritica? (GramignPao, rta,RaboniS,pinellaT, agliaferr0 TestoG: alliaen «900» (Ricercatori & Co.) Sullacomplessit(àFormentPi,olinO Lo statodelladifesa(VaccarSoa, ntosuosso) ImmaginGi:raffistoi nor(iCisternino) GalzignaF,errariVs,ineis, ._ Mascitelli,'llluminSagtui,anci ... <}:J,:·-··.·•.-·
Einaudi AlbertCoavallari LafugadiTolstoj Il momento della verità nella vita di Tolstoj: una ricostruzione che parte da un sapiente montaggio di documenti e testimonianze per arrivare all'intuizione poetica del romanzo. «Supercoralli», pp. v-91, L. l 2 000 SebastiaVnaossalli L'alcovealettrica Firenze 1913: il futurismo italiano processato per oltraggio al pudore. «Gli struzzi», pp. 211, L. 9000 HermanBnroch I sonnambuli. HuguenoaIulrealismo L'ultimo volume della trilogia di Broch: la feroce ascesa di uno spregiudicato affarista fra le rovine del mondo guglielmino. Con un saggio di Claudio Magris. «Supercoralli», pp. 352, L. 20000 RolAf .Steln Laclvllttàibetana Storia, cultura, religione della civiltà nata sul «tetto» del mondo. «Saggi», pp. xrx-306, L. 36000 Storida'ItaliaA.nnall IX.LaChieseaIlpotere polltlco A cura di G. Chittolini e G. Miccoli. Per la prima volta un quadro completo dei rapporti tra la Chiesa e la società civile dalle origini ai giorni nostri. «Biblioteca di cultura storica», pp. xxv-1042, L. 100000 PininCarpi Nelboscdoelmistero Poesie, cantilene e ballate per giocare, per andare a nanna, per inventare altre poesie. «Libri per ragazzi», pp. 112, L. 15 000 A giorni in libreria: MariRoigonSitern Amordeiconfine La guerra e la pace, gli uomini e gli animali, i boschi e le piante: la favola vera dell'Altipiano. «Supercoralli», pp. 212, L. 18 000 Successi: GiovanGniudici Salutz « ... fra i testi poetici piu emozionanti e perfetti di questi decenni» (Giovanni Raboni «Tuttolibri »). JeanLévi Il grandiemperatore eisuoaiutomi «Un romanzo appassionante, screziato, enigmatico» («Le Nouvel Observateur»). AntonFioaeti Intrappoclaotlopo «Un libro indiavolato e pieno di sorprese ... » (Carlo della Corte «Tuttolibri»). le immagin.di iquestonumero LI eterno tentativo di tradurre l'immaginario musicale in termini di scrittura per una sua ri-produzione è da sempre stata una delle questioni più tormentate della pratica in musica. In realtà la scrittura musicale, o il fissare in termini più o meno determinati il progetto compositivo, è una sorta di gioco al bersaglio che tende a dare termini di oggetto attraverso una con-formazione a ciò che oggetto non è, ossia l'insieme di spinte della più varia natura che porta una determinata sensibilità a proiettarsi e ad operare all'interno di una forma musicale. Ed è proprio su una vigorosa affermazione del dato progettuale Sommario Aurelio Roncaglia e Cesare G. De Michelis Il degrado accademico (II) pagina 3 Dov'è finita la critica letteraria? (Dialogo sui quotidiani e settimanali di G. Gramigna, A. Porta, G. Raboni, M. Spinella, A. Tagliaferri) pagine 4-5 Mario Galzigna Foucault senza discepoli (Ma la colpa è dei suoi seguaci, di M. Cacciari; Préface a Folie et déraison, lntroduction a Le réve et l'existence di L. Binswanger, Maladie mentale et personnalité, di M. Foucault) pagina 6 Aldo Tagliaferri Grotteschi beckettiani (Compagnia e Worstward Ho, La trilogia, di S. Beckell) pagina 7 Giuliano Gramigna Con testo a fronte pagina 8 Prove d'artista Loreno Sguanci pagina 9 Traduzione contemporanea: Inna Lisnjanskaja a cura di Nadia Caprioglio pagina 10 Da Zagabria a cura di Rada lvekovié e di Maurizio Ferraris pagina 11 Il Graffito sonoro come scrittura che la scrittura-Graffito pone se stessa come atto compositivo; una progettualità che Guaccero conformò, in uno dei suoi acuti interventi in piena kermesse grafico-gestuale degli enfants terribles del/'avanguardia musicale agli inizi degli anni '60, da Bussotti a Stockhausen a Kagel a Cardew e molti altri, come «... tecnica umanistica per eccellenza, che serve cioè ad affinare la sensibilità stessa del potere immaginativo, oltre che a fissare in forme più permanenti i prodotti e i progetti del potere immaginativo», offrendosi come luogo aureo della progettazione cosciente. L'atto del comporre musicale così si avvale di una indissolutezza di Da Bucarest a cura di Tatjana Nicolescu e di Maurizio Ferraris pagina 12 Cfr. pagine 13-17 Stefano Verdino Anceschi, com'è la poesia pagina 18 Testo: Gallian e «900» (Ricercatori & Co.) Claudia Salaris Francesco De Nicola pagine 19-22 Carlo Formenti La complessità non è un paradigma (Le radici della biologia, di M. Ageno; La qualità sociale, di G. Ruffolo; La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti; Opere 18891896, di H. Bergson) pagina 23 Gaspare Polizzi Slittamenti metodologici (La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti) pagine 24-25 Maurizio Ferraris L'ermeneutica della mente (L'enigma della mente, di S. Moravia) pagina 26 Paolo Vineis Rorty e Kuhn (Filosofia come scienza, come metafora e '(JOmepolitica e Habermas, Lyotard e il post-moderno, di R. Rorty; La metafora della scienza, di R. Boyd e T.S. Kuhn) pagina 27 Ernesto Mascitelli Ominizzazione e teologia pagina 29 principio che al tempo stesso supera i paradossi sintattici o stilistici di una qualsiasi ideologia musicale dominante ponendo se stesso come autonomo soggetto linguistico, radicalmente caratterizzato certamente, e dove l'incontro con i nuovi strumenti e le nuove tecnologie potenzia a viva forza la visione-creativa della realtà interiore del/'autore, oltre che dell'infinita suggestione di miriadi di segnali e messaggi che nutrono, oggi, l'immaginazione. Naturale appare quindi la graduale espansione della scrittura-Graffito verso l'attuale con-formazione di vero e proprio universo di segni da adottare nel comporre musicale che, di pari passo ali'originario Il max.i-processo di Palermo Intervista a A. Caruso e F. Musouo a cura di Salvo Vaccaro pagine 30-31 Le libertà civili in Inghilterra Intervista di Amedeo Santosuosso a Larry Gostin pagine 31-32 Maria Teresa Maiocchi Falsa simmetria del femminile pagine 33-35 Elena Pulcini Il sentimento d'amore (Il mito del sentimento, di E. Forni; Il tema delle passioni nella storia della filosofia, Convegno di Bolzano, 29-31 maggio 1986) pagina 35 Patrizia Vicinelli Polyphonix pagina 36 Augusto Illuminati Rapporti di classe (Klassenverhiiltnisse, di J.M. StraubD. Huillet; L'anima e la forma, di G. Lukacs; Saggi sulla storia, di L. Lowit; America, di F. Kafka) pagina 37 Lettere Stefano Zecchi pagina 37 Giornale dei giornali L'enigma di Reykjavik pagine 38-39 Indice della comunicazione Pubblicità Congresso pagina 38 Le immagini di questo numero Il Graffito sonoro come scrittura di Nicola Cisternino In copertina: Imago: Graffito per soli coro e orchestra da camera (1981), particolare impianto di carattere ideografico tipico della mia prima produzione, viene oggi adottata per comporre con strumenti tradizionali e sistemi digitali che ne permettono la piena eseguibilità come, ad esempio, l'arpa ottica del sistema XML 20 «Poliphemus» ideata dall'ingegnere Mauro Brescia con la quale una parte della produzione più attuale dei Graffiti viene convertita in suoni ed eseguita in tempo reale. Nicola Cisternino, 1986 Nota La riproduzione fotografica è stata realizzata da Stefano Bonifacio (VE) Errata Corrige Nel numero scorso, ottobre 1986, è stato annunciato in copertina il nome di Ernesto Mascitelli mentre il sommario non prevedeva alcun contributo di tale Autore, che è invece presente in questo numero con l'articolo Ominizzazione e teologia. Inoltre mancano le didascalie delle seguenti fotografie di Paola Mattioli: a pagina 2 (Benedetta Barzini 1981) e a pagina 4 (Enrica Massei 1981), realizzate per il mensile «Grattacielo», in collaborazione con Miei Toniolo; la fotografia a pagina 6 (Alessandro Mendini 1982) è stata realizzata per il mensile «Linea Uomo Sport», in collaborazione con Miei Toniolo. Ci scusiamo con i lettori per l'errore e le omissioni. alfabeta mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Direzione e redazione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese Maria Corti, Gino Di Maggio Umberto Eco, Maurizio Ferraris Carlo Formenti, Francesco Leonetti Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Art director: Gianni Sassi Editing: Studio Asterisco - Luisa Cortese Grafico: Roberta Merlo Edizioni Intrapresa . Cooperativa di promozione culturale Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Pubbliche relazioni: Monica Palla Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.9.1981 Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4, 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: ·Rotografica, L----------------'-------------------'L----------------t viale Monte Grappa 2, Milano Comunicazione ai collaboratori pagine e prezzo; Occorre in fine tenere conto che il crite- Distribuzione: Messaggerie Periodici di «Alfabeta» e) gli articoli devono essere inviati in rio indispensabile del lavoro intelletLe collaborazioni devono presentare i triplice copia; il domicilio e il codice tuale per Alfabeta è l'esposizione degli Abbonamento annuo Lire 50.000 seguenti requisiti: fiscale sono indispensabili per i pezzi argomenti-e, negli scritti recensivi, dei estero Lire 65.000 (posta ordinaria) a) ogni articolo non dovrà superare le 6 commissionati e per quelli dei collabo- temi dei libri- in termini utili e evidenti Lire 80.000 (posta aerea) cartelle di 2000 battute; ogni eccezione ratori regolari. per il lettore giovane o di livello univer- Numeri arretrati Lire 8.000 •dovrà essere concordata con la direzio- La maggiore ampiezza degli articoli o sitario iniziale, di preparazione cultura- Inviare l'importo a: Intrapresa ne del giornale; in caso contrario sare- il loro carattere non recensivo sono le media e non specialista. Cooperativa di promozione culturale mo costretti a procedere a tagli; proposti dalla direzione per scelte di la- Manoscritti, disegni e fotografie non si via Caposile 2, 20137 Milano b) tutti gli articoli devono essere corre- voro e non per motivi prefe_renziali o restituiscono. Alfabeta respinge lettere Telefono (02) 592684 dati da precisi e dettagliati riferimenti personali. Tutti gli articoli inviati alla e pacchj inviati per corriere, salvo che Conto Corrente Postale 15431208 ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso redazione vengono esaminati, ma lari- non siano espressamente richiesti con dei libri occorre indicare: autore, tito- vista si compone prevalentemente di tale urgenza dalla direzione. lo, editore (con città e data), numero di collaborazioni su commissione. II Comitato direttivo Tutti i diritti di proprietà lelleraria e artistica riservati
Il degradoaccademicIol La rubrica aperta da Maria Corti sul n. 88 prosegue con gli interventi di Aurelio Roncaglia, or.dinario di filologia romanza nell'Università di Roma, e di Cesare G. De Michelis, ordinario di letteratura russa nella medesima Università. Il testo di Roncaglia è stralciato dall'Autore da una relazione più ampia let1.ain contesto accademi- ..... co a Roma. AurelioRoncaglia Il ... Un tempo, le commis- '' sion~ giu~icatr_ici?ei concorsi umvers1tan erano elette da tutti i docenti già in ruolo, senza riguardo a confini disciplinari. Tale sistema, in cui la metodologia scientifica prevaleva sui contenuti, responsabilizzava i giudici di fronte a tutti i colleghi, assumendo ch'essi dovessero rappresentare interessi non di settore. Ciò non evitava manovre intese a precostituire risultati favorevoli a questa o quella scuola, a questo o quel gruppo di potere; ma i danni d'eventuali prevaricazioni rimanevano circoscritti, anche perché i poteri della commissione erano limitati alla formazione d'una terna. I risultati erano in complesso più soddisfacenti di quelli che s'ottengono ora: dopo avere introdotto la procedura, d'ispirazione dadaista, d'un sorteggio tra gli eletti o d'un'elezione tra i sorteggiati (con cervellotica inversione di norma tra i concorsi per la prima e quelli per la seconda fascia di docenza); limitato il voto ai soli titolari della materia e di poche altre, dichiarate «affini» secondo criteri d'angusta settorialità o per scriteriati livellamenti numerici (atti a favorire la compensazione privata entro piccoli gruppi, piuttosto che l'integrazione di larghe competenze); ampliato i poteri della singola commissione alla designazione di tanti vincitori quanti sono i posti disponibili. Con questo sistema, il caso riduce le responsabilità, la settorializzazione facilita gl'intrallazzi dei clan e le lottizzazioni, l'eccessivo numero di cattedre distribuite in una sola volta e da una sola commissione favorisce i mediocri e blocca le leve successive... Il ... È accaduto per esem- '' pio, di recente, che una domanda d'informazioni tecniche, rivoltami da un collega membro d'una commissione della· quale non faccio parte, per un • • • I j , r , t ,l ' ' o I , ~ ~T • ~ I • i, T • r I j ' .. 1 ~ f' ,,_, I I Il • l lr r,. ~ •••• • ' • . " e. concorso al cui esito non sono interessato se non su un piano generale (come tutti siamo interessati a che il livello scientifico delle nostre Università non scada sotto il livello della decenza), mi abbia involontariamente lasciato capire che un altro membro della stessa commissione, per difendere ad ogni costo un candidato immeritevole, non aveva esitato ad insinuare o addirittura ad affermare cose di fatto non vere. Falso ideologico! Ma chi se ne accorgerà? Gli atti concorsuali (in questo caso non ancora pubblici) non verbalizzano sempre ogni battuta della discussione. Il loro controllo da parte dell'Amministrazione è puramente formale, non di merito; né potrebb'essere altrimenti. Il falso può essere avvistato solo da chi abbia pratica non superficiale di certe ricerche, in certi Istituti stranieri. La sua rilevanza ai fini del giudizio appare grave a me, in connessione ad altri elementi che possiedo; ma può non risultare evidente a chi non sia del mestiere. Anche se qualcuno andrà a frugare negli atti, dopo la loro pubblicazione, sarà difficile che scopra nelle loro pieghe la magagna. Ancor più difficile che, avendola scoperta, abbia animo di denunciarla (ciò che lo esporrebbe a venire considerato, quanto meno, un piantagrane vitando). Quasi inimmaginabile che un'eventuale denuncia possa azzerare le conseguenze d'una procedura ormai chiusa e passata in giudicato. Quel candidato avrà la cattedra che non merita: e tanto peggio per i suoi futuri allievi! Che io ne sia scandalizzato, non interesserà, suppongo, a nessuno (ma se a qualcuno interessasse, considererei mio dovere produrre senz'ambagi ogni documentazione in proposito) ... » Cesare G. De Michelis L, articolo di Maria Corti sui recenti concorsi universitari ( Degrado accademico) contiene numerose osservazioni più che condivisibili, e rappresenta nel complesso una denuncia sana e, ahimè, fondata. Certo, si potrebbe discutere la nettezza della contrapposizione su come andavano le cose «molti anni fa», e come vanno oggi: nel senso che oggi vanno certamente male, come dice la Corti (negli ultimi quindici anni, solo tre tornate concorsuali), ma la legge - la famosa 382/19809q r ♦ . 1J ~ • I I ' I• l'i ... - ' ._ .1 • •' I, t o . ' 1 , ' ' • • •i I I ►'1 . \ ' • l l I prevede concorsi a ricorrenza biennale, e se ciò non avviene bisogna prendersela essenzialmente col Ministero. Ma in fondo sono dettagli; quello che invece non condivido, è la larvata (ma non troppo) polemica contro i Dottorati di ricerca. Siccome da più parti, in modo palese e più spesso sotterraneo, vengono frecciate contro questo istituto, che ritengo realmente innovativo e - in linea di massima - ben decollato, malgrado resistenze ministeriali e (se è lecito dirlo) anche «baronali», credo opportuno opporre qualche argomento a quelli avanzati dall'amica Corti. È già discutibile l'asserzione che i Dottorati siano stati creati «al posto» della libera docenza: essi nascono difatti a dieci anni dalla abolizione - giusta o sbagliata - di quell'istituto, e sono semmai intesi a rimpiazzare i vecchi corsi di perfezionamento. Anzi, a parer mio, il pericolo che corrono è che si creino situazioni tali da ridurli ad esserne la fotocopia sbiadita. Così come non vedo la diretta connessione con l'istituzione della struttura dipartimentale, che per certi versi (burocratici, amministrativi) ne ostacolano, piuttosto che favorirne, lo sviluppo. Queste sono ancora riserve marginali; ma Maria Corti fa un torto alla sua raffinata intelligenza, mettendo in relazione il «pericolo più grave» che correrebbero i Dottorati, con lo svolgimento dei concorsi a cattedra. Non solo, difatti, a causa dei quasi sette anni d'interruzione dei «vecchi» canali di reclutamento, l'età media dei dottorandi (come del resto anche quella dei vincitori dei concorsi liberi a posti di ricercatore) non è quella prospettata dal Legislatore, ma assai più elevata; soprattutto la Corti dimentica che chi ha fatto domanda per partecipare a questi concorsi, l'ha fatta nell'autunno del 1984, quando i Dottorati erano stati appena avviati per il primo ciclo: che ci siano casi di «giovani» che, protetti da un potente Maestro, tentano il «colpaccio», e che questo sia più agevole in maxi-concorsi che possono favorire comportamenti scorretti come quelli denunciati, può ben essere: ma perché farne una ennesima questione corporativa, dottorandi contro ricercatori e perfino (udite udite) associati? I primi titoli di Dottorato, affine o meno che risulti al Ph.D. anglosassone, saranno conferiti nella primavera prossima; aspettiamo ~ ~ I I ~ i un po' prima di decidere dell'influenza del nuovo titolo sul «mercato del lavoro» universitario. Chi ha detto che non potrebbe essere positiva, come e più della vecchia libera docenza? Magari, anche, facendo prevalere giovani con un serio tirocinio di ricerca, su più anziani associati e ricercatori, putacaso divenuti tali per benevoli giudizi idoneativi. Potrebbero anche risultare un'occasione perduta, alla verifica concorsuale dei titoli scientifici: ma, appunto, aspettiamo a vedere. lf accusa più grave mossa da Maria Corti, secondo me, è l'altra, che l'accesso ai corsi di dottorato possa avvenire per «lottizzazione». Questo, a dire il vero, non ha nessuna relazione diretta con gli attuali concorsi a cattedra; ma se fosse vero, anche solo come «tendenza», sarebbe comunque ben grave. Questa era l'accusa rivolta a Ruberti da un lettore de «la Repubb\ica», quest'estate (25 luglio 1986): quello dando per sicuro che «sono lottizzati in maniera sfacciata», la Corti denunciando che ciò «possa accadere, e in qualche luogo è accaduto»; e tra le due affermazioni corre comunque una bella differenza. Qui, l'esigenza di trasparenza non può fare a meno dal rjcorrere al caso personale: sono Coordinatore di un Dottorato (cinque sedi consorziate, nel primo ciclo - prima della leggina «agostana» del 1984 - sette: quattro posti nel primo ciclo, tre nel secondo, tre annunciati per il terzo appena indetto), e sono stato membro della Commissione per gli esami d'ammissione la prima volta. Bene: su sette posti complessivi assegnati, due sono andati a candidati laureati in sedi non consorziate, un terzo è stato ricoperto da un candidato proveniente da sede consorziata per rinuncia d;un vincitore, di sede non consorziata. Potrei continuare in dettaglio, ad esempio sulla distribuzione per curricula: quel che voglio dire è che se avessimo avuto intenzioni lottizzatrici, risultiamo i lottizzatori più imbranati d'Italia; ma forse non avevamo intenzioni simili, e forse molti altri non le hanno. Detto questo, va detto che anche nel nostro caso non sono mancati sussurri e mugugni per l'esito delle prove d'esame. Al di là di possibili (e legittimi) scontenti personali, credo che ci sia·un'altra I • I I t. I I ., l' I ragione, che però non ha nulla a che vedere con la lottizzazione: i candidati a un Dottorato non hanno solitamente una rilevante produzione scientifica (a proposito: quelli che si sono presentati ai concorsi a cattedra, ce l'avevano o no?), la tesi di laurea, e qualche articolo o recensione. Poi ci sono gli esami, scritti e orali: la mia esperienza, che sarà limitata quanto si vuole, mi dice che con gli strumenti di misurazione che offrono gli esami, si possono distinguere: 1) la o le poche personalità che emergono; 2) il gruppo dei «bravi»; 3) la massa di coloro che - magari con ottima preparazione scolastica, e talvolta anche senza, pur avendo 110e lode alla laurea - «ci hanno provato». L'implacabile limite della selezione - il «dentro» o «fuori» - passa per il secondo gruppo; e qui vorrei proprio vederla, la «asettica .difesa della graduatoria di merito» :(e non solo in un raggruppamento :come il nostro, che riunisce sette o otto discipline le più disparate). Al massimo, si può discutere dei criteri con cui una data commissione (estratta a sorte, ben s'intende) ha formulato quella data graduatoria di merito, dove spesso la distanza tra il vincitore e l'escluso è valutabile nell'ordine di uno, due punti, sui complessivi cento. I nsomma: prima di parlare di lottizzazione come pratica diffusa, o anche solo come tendenza, vorrei conoscere casi specifici in cui candidati del terzo gruppo sono stati preferiti a candidati del primo o del secondo. Se li conosciamo, denunciamoli tali casi (per parte mia sono impegnato a farlo): ma non per dare addosso al Dottorato, semmai per difenderlo. Non si tratta del gusto perverso per il pettegole2Zo (benché il pettegolezzo, come spiega Bachtin, sia un importante genere letterario); ma del non far prevalere a occhi chiusi il principio «pensa al peggio che l'indovinerai». Ragioni per pensar male, per· esser sospettosi («stare in campana», si dice a Roma), ce ne sono, e non pochi, come dice Maria Corti; ma ce ne sono anche per non buttar via il bambino con l'acqua sporca. Nei Concorsi a cattedra e, si parva licet, nei Dottorati di ricerca. l l~,1 \ ,Jil I ' ,11'\~ \ ,,1 4 , ~~ ~ ~1:· I ~ T 1 11• l l~lj I, l . fi .,; fl • • ~ ~. I ~4 lr·~ 1r1r~~,J~ ♦ I I • I ·, - ') • r-...,, .• I I • I I , t. .. '• >: I '' l ' l ,I ' . ' ~ r~~~f A l nf 1 • I l t • I I ~ t I ,,1 I I I I p I~. I 1)! Il '"·i I::~~!.l l .iii ' ,d I ~ 111r • , 't )I', t ~· : . · -:,li( · J~ I ! • •• • ,I• • - ~-~ .•··t'·i. 'if I I I \.11' • (~il I ì ' J.•· \ ~ ~ .i •j1,.,l • !~:••, '~ l 11, ~ k· ,.. T •·' .•.. -··· I Il (A.\ t I 1 1 I l r I • i' •• ' I i 11 I i I'' [ l e Il lt ì f •1• 1•. 4 ♦ ~I· •• t . .,., • 'J r .. 1, r.tL ., I it • ► t I - I • ... ,, r . --T - ♦ ... t • t I 4 ' . ;,. ◄> ~ • •♦ • ~ ' • ) \ ' " . \ .. . •• Choral: Graffito (1981)
Dov'èfinita lacriticaI eraria? Dialogo sui quotidiani e settimanali di Giul ano Gramigna, Antonio Porta, Giovanni Raboni, Mario Spinella, Aldo Tagliaferri Antonio Porta G iovanni Raboni ha riacceso una polemica sempre serpeggiante con uno scritto uscito sull' «Europeo» (agosto 1986) intitolato Non po' di coraggio signori critici in cui soprattutto sollecita risposte. In questa situazione che cosa si può fare? Ci sono due direzioni nello scritto di Raboni: una denuncia di tipo strutturale, cioè gli effetti dell'atteggiamento di fondo di quotidiani e settimanali che sembrano poco interessati all'emissione di giudizi; d'altra parte, pure in una situazione precaria ci sono delle responsabilità individuali, ci sono critici che rinunciano volontariamente a fare il loro lavoro e si adeguano, all'atteggiamento di fondo, mentre altri, che si adeguano un po' meno, qualcosa riescono a far filtrare. È evidente che se la critica letteraria è costretta a far filtrare, c'è una griglia strutturale che rende difficile il lavoro. Questa discussione avviene nella sede di una Agenzia letteraria, che appunto rappresenta autori; allora, mi pare che una domanda possa essere: «Che cosa si aspetta in realtà un autore dalla critica?» Un autore italiano che pubblica un libro, di prosa o di poesia, si aspetta di essere appoggiato a tal punto dall'ufficio stampa delle case editrici da non prevedere ostacoli critici sul suo càmmino oppure pensa che la critica possa aiutarlo anche a capire la sua opera, o a prendere certe direzioni piuttosto che altre, dunque a capire i suoi errori quando la critica è ben motivata? Si ha l'impressione che gli autori si aspettino delle reazioni acritiche, cioè si aspettino, una volta che riescono a pubblicare un libro, pres- • 1 .... ,; ,. • I I ,l I '. . . , . , T " • • f' . . - I 1.1 l Il I ·• L . . so un editore grande o medio, che gli sia aperta la strada del trionfo. A me pare una distorsione che porta ad un'altra distorsione, cioè alla ricerca dell'appoggio di mass media acritici come la televisione. È più importante che la TV dica che un libro è bellissimo piuttosto che l'opinione di un critico letterario; il che è buffo da parte di certi autori che dovrebbero essere semplicemente indifferenti al fatto che dei lettori si lascino convincere da Pippo Baudo a leggere il loro libro. Mi chiedo: è per quel pubblico che scrivevano? Se fosse così dimostrerebbero una sostanziale debolezza di intenti. L a seconda considerazione viene da alcune affermazioni di Enzo Golino, appunto citato da Giovanni Raboni: «La critica è finita, la critica è soltanto un 'appendice dell'ufficio stampa delle case editrici, fa parte del balletto dell'industria culturale. Vi fate ancora domande sulla critica? È solo questo». Mi chiedo che cosa si aspettano le case editrici dalla critica: solo un'adesione incondizionata al loro operato? Mi sembrerebbe miope per una casa editrice che dovrebbe accettare la scommessa sulle sue scelte e aspettarsi anche delle opposizioni senza che succedano delle tragedie, come invece pare che succedano. Il che dimostra che le case editrici lavorano molto più nella direzione del mercato, e nel senso basso del termine, che non in direzione culturale. Infatti Alberto Arbasino che è intervenuto su questo tema ha detto che le critiche negative suonano stridule. Effettivamente in un coro di consensi un .dissidente sembra solo uno stonato, cioè stridulo. Ma un altro personaggio entra 'I' • • t, ~ I -- . l ,e - - ; f 1 - '9' . -' I ~ ... > J' .,"'=: - - t' I 71 t ••• .! -- I ... ••· f in campo, che forse è il più importante di tutti: il lettore. Il lettore di giornali e di riviste che cosa si aspetta da chi parla di libri sui quotidiani? Io sono convinto che si aspetta dei giudizi perché il lettore è abbastanza preparato per sapere tutto quello che abbiamo detto prima: cioè sa benissimo che c'è il lancio, che c'è la pubblicità, però si dice: i mass media hanno fatto il loro mestiere, la casa editrice ha fatto il suo e a questo punto vorrei sapere se c'è qualcuno che mi dice la verità o perlomeno mi dica quello che pensa. E invece il lettore viene deluso. La critica letteraria «inesistente» incide negativamente sulla stampa stessa, cioè sulla diffusione. La stampa, è ovvio, è basata sulla scrittura, quindi dovrebbe fare della critica letteraria una sua forza. Giovanni Raboni V olevo fare una premessa, per fare chiarezza: qui stiamo parlando di un certo tipo di critica, non stiamo impostando il problema della critica in generale o della metodologia critica, ma ci riferiamo alla critica come servizio, da intendersi come critica militante. Credo che siate d'accordo con me con questa definizione, mi pare sia accettabile; e vediamo se è giusto definirla critica militante, cioè che si svolge su giornali non specializzati, su giornali di informazione e su quotidiani, su settimanali di attualità ecc. e che quindi dovrebbe avere la funzione di informare il lettore. Detto questo, volevo collegare al discorso che ho tentato di iniziare in quell'articolo su !'«Europeo», il discorso che si è fatto sullt stroncature. Il mettere l'accento sulla utilità o meno delle • ◄ ' 1 1 f-' l.i.,.., •_ ,_ - ' 1 ,. • >- ... .. ~ I ~ .. - .. -~ ' 1 f. , . ,........ 4 . .. ;:f .,. ---•...-.+I+! +-t --f- 0-♦ . -r :H . .,. .... ... • • , ~ ~. t • o • ". ,f. . • • . ~ - stroncature mi sembra un altro modo di mistificare, come se solo così si potesse opporsi al conformismo e alle direttive degli uffici stampa delle case editrici. Non è così. Quello che manca secondo me non è soltanto il giudizio negativo quando occorre o quando il critico lo pensa, mancano anche i giudizi positivi, cioè manca qualsiasi tipo di giudizio. C'è un tenersi sulle generali, a parte tutte le eccezioni del caso, c'è un parafrasare quello che l'editore intende, prol?onendo i libri in un certo modo. E il modo in cui più pericolosamente ci si adegua alle informazioni che l'editore dà nel valutare l'importanza del libro a seconda della collana, della tiratura, del lancio pubblicitario. Questi sono i dati da cui partire: un certo tipo di lancio e di tiratura equivale a un articolo in terza pagina ecc. Una collana diversa, una tiratura diversa, un editore diverso equivalgono a una recensione dopo otto mesi in un'altra pagina. È proprio una gerarchia prestabilita. Più che l'organi'.?zazione e il coro di consensi è questo che l'editore impone: la gerarchia. A quel punto il giudizio negativo finisce per essere quasi secondario perché probabilmente il critico non vuole davvero esser capito, perché non sempre il lettore capisce quel tipo di linguaggio, e perché poi alla fine funziona di più la collocazione del messaggio stesso. Un articolo in terza pagina del «Corriere» è un messaggio che sicuramente prevale sul contenuto. In questo senso il discorso sulla stroncatura, o meno, è un aspetto secondario; mettere l'accento su questo aspetto della critica mi sembra un modo di eludere il punto. Prima di vedere cosa dire e come dirlo (anche questo è fondamentale), c'è la neces- ~ TJ.~ 1 T • ,t ,◄ .t Il Il if J,i i - - -~ 'l -· lii I •• - ,. - - .. . - Meditando 1111 Regno: modulo Graffito per quartetto ct·archi ( 1981) sità di una libertà rispetto a queste gerarchie. Sulla terza pagina del «Corriere» dovrebbero, ogni tanto ma anche con una certa frequenza, uscire recensioni anche di piccoli editori se il libro è considerato importante. Ecco, queste attese vanno disattese: questo è una delle strategie più importanti da proporre. Che cosa si aspetta un autore dalla critica è una domanda affascinante che più ancora si lega al discorso delle stroncature: servono agli autori, imparano qualcosa? Su questo ho qualche dubbio. Almeno in un primo approccio all'argomento penso che protagonista dovrebbe essere il lettore. Giuliano Gramigna I o arriverò a dare qualche risposta, ma prima desidero attaccarmi agli ami o alle esche che mi ha gettato Raboni perché mi hanno subito mobilitato. Innanzitutto una piccola osservazione sul fatto che certi libri hanno in terza pagina l'elzeviro, che sarebbe il massimo delle speranze critiche secondo i criteri gerarchici. Si può dire che la destinazione alla terza pagina o all'elzeviro avviene prima che il libro sia stato letto. Ci sono dei libri che per la loro felice nascita o per il Gotha presunto della letteratura e dei loro autori, non possono che andare in elzeviri in terza pagina e avranno sempre un elzeviro in terza pagina qualsiasi cosa accada. Queste cose le posso dire perché le ho vissute dall'interno; quindi è vero che la critica è già handicappata, soggiogata a questo fatto. Non si può scrivere un elzeviro di stroncatura, non è concepibile, non rientra nell'immagine del giornale. Quindi il li- • ~ . - "'tc::s .s O() c::s Cl.. \Q ~ ..... ~ .... ..(:) E ~ ;:,. e s::: C) °' s::: ~ ~ ..(:) ~ - c::s
bro destinato ali' elzeviro di terza pagina avrà un certo giudizio e questo è in un certo modo già determinato. Sono anni che a intervalli regolari si parla della questione della stroncatura, al grido: ah che peccato questa letteratura, questa critica muore perché non ha stroncature! Io anche qui ho i miei dubbi profondi e non solo perché è già stato detto che stroncatura non è lo stesso che serio giudizio negativo e soprattutto non è lo stesso che giudizio anche negativo, ma fatto sui testi, motivato e secondo un certo criterio di procedura. Generalmente la strada delle stroncature, tanto desiderata, è solo il gesto becero dello schiacciare i piedi, del dare una gomitata nello stomaco, del capovolgere delle gerarchie, magari inattendibili, allo scopo di stabilire altre gerarchie; quindi anche la stroncatura in questo senso fa parte di una società non della scrittura, ma dello spettacolo. È il corrispondente inverso di Pippo Baudo, l'esatto opposto. Non mi unirei mai alle grida di rimpianto, anche perché se ci sono molte cose da rimproverare ai critici italiani, non sarà certo la deficienza di stroncature l'addebito più grave. Riprendo un'altra cosa che aveva detto Raboni, perché in fondo risponde a una delle domande. Raboni ha detto: parliamo della critica «militante», non invischiamoci nella critica che propone strategie o metodologie e sistemi. Ora quello che Raboni mette fuori della porta deve rientrare per forza dalla finestra; cioè l'insignificanza, che è vera, di molte delle critiche, delle scritture, così presuntamente critiche delle recensioni di libri che si leggono, è data dal fatto che chi le scrive è assolutamente o quasi totalmente sprovveduto di un sistema, di una metodologia, di una tecnica per leggere, per rendersi conto che il libro non è un'informazione che viene portata al lettore, come ci si informa degli ultimi vestiti delle sfilate di Armani o come ci si informa degli eventi di cronaca, ma è un lavoro che deve esser fatto su un oggetto di parola, sul linguaggio. Quindi se il critico (anche se fa solo le sue trenta righine in fondo alla pagina) non ha almeno un'idea di come è per lui il processo critico, il processo di ingresso e di confronto con un linguaggio, sarà perfettamente inutile leggere le pagine letterarie di un giornale; esse resteranno quelle che sono cioè superficiali, che rispondono alle attese, o non rispondono alle attese, delle case editrici. Volevo correggermi perché mi sono sbagliato nel fare un esempio. Quando dicevo un'informazione come le sfilate di moda, ho sbagliato perché una delle richieste che i direttori delle pagine culturali fanno ai critici è di scrivere più semplice, più chiaro, «perché siete complicati, la gente vuole scrittura semplicissima, esemplificata al massimo». Il che non è vero, perché una pagina letteraria di un quotidiano si dirige non a tutti i lettori, ma a quelli che hanno un interesse per la letteratura o per i libri, non dico che siano tutti laureati in semiologia o in strutturalilr) smo ma hanno degli interessi par- <::i ticolari. D'altra parte la conlraddi- -~ zione è evidente. Se leggiamo le c::t. pagine dei quotidiani sulla moda, ~ lo facciamo sempre con grande di- -. vertimento, con grande interesse, ~ perché vi si trova un linguaggio -e:, E ( quelle scritte bene naturalmente) Il) 5 anche se quelle cose io non le capii::: sco completamente. I termini tee- ~ nici nelle sfilate di moda, quando i:! li usa la mia amica e collega Adria- ~ na Mulasano, che è una compe- l tente, sono rigurgitanti di termi- ~ nologie strettamente, rigorosamente tecniche sui tessuti, sulle tecniche di lavorazione, i disegni ecc. Io non capisco tutto ma leggo con uno straordinario piacere perché mi accorgo che è un linguaggio. Non è dunque vera questa famosa diffida fatta a chi scrive, agli infelici che scrivono di libri sui giornali, per cui bisogna semplificare al massimo, non dire possibilmente nulla se non quello che si presume che il lettore si aspetti. Però il lettore qualche cosa s1 aspetta. Mario Spinella V orrei fare un'osservazione preliminare: intorno a questo tavolo sono largamente prevalenti critici che sono anche scrittori. È un fatto che mi sembra meriti una certa considerazione. Direi che una delle modificazioni rispetto a 40 o 50 anni fa è proprio questa: allora era molto più diffusa una separazione netta tra il critico e lo scrittore; a parte occasionalmente qualche critico che scriveva, il critico era critico: De Benedetti era critico, Pancrazi era critico, per non fare che due nomi tra i tanti possibili. Oggi invece è molto frequente questa natura mista, non dico che sia né male né bene, è soltanto una constatazione di un certo mutamento. Questo, secondo me, rende particolarmente pertinenti alcune domande che ha fatto Porta, per esempio la domanda: che cosa uno scrittore si aspetta dalla critica. lo come scrittore che cosa mi aspetto dalla critica? Lo dico con molta franchezza senza nessuna intenzione apologetica. Mi aspetto quello che Porta poneva come secondo interesse: che mi aiuti a capire che cosa sto facendo, mi corregga, mi emendi, se possibile sottolinei quanto di positivo ci può essere nel mio fare e contribuisca a far sì che possibilmente nel libro successivo, se vi sarà e quando_ ci sarà, io tenga conto di quanto mi è stato fatto osservare. Questa mi sembra una funzione importante e soggettiva per uno scrittore, anche se sono d'accordo con quanto è stato rilevato, che l'oggetto fondamentale del discorso critico di questo tipo militante è il lettore, al quale bisogna soprattutto guardare. Con quale intento? Non mi pento di fare uso di una formula forse banale e controcorrente: io direi etico e pedagogico. Etico appunto perché credo che il primo dovere del critico sia quello di cercare di sforzarsi, con tutti i limiti che una posizione di questo genere è consapevole di avere, di evitare, di sfuggire come la peste le sollecitazioni di tipo spettacolare, commerciale, editoriale. Se il critico usa questa modalità e se ha dei lettori che lo seguono, in un medio termine i lettori se ne accorgono e rispettano il critico. Pedagogico, perché il critico deve aiutare a selezionare le letture e possibilmente a scegliere quelle letture che il critico, a ragione o a torto, evidentemente, ritiene qualitativamente tali da elevare il livello intellettuale, culturale, morale, vitale dei suoi lettori. Ecco quindi che la problematica del critico deve essere quella di muoversi lungo un asse di questo genere; con un'altra struttura etica a monte che è quella cui or ora alludeva Giuliano Gramigna; cioè il critico non si può improvvisare critico, direi al limite che è più facile improvvisarsi scrittori che critici. So quanta fatica costi diventare scrittori ma a volte ci sono scrittori che quasi per una forza nativa e ingenua ottengono dei risultati. Il critico se non ha una sua metodologia, se non ha una sua preparazione o formazione ricca e continuamente aggiornata non può fare il suo lavoro, è un dilettante. Poi se un critico è un bravo scrittore è un'altra cosa. Il critico deve avere una cultura teorica. Non a caso, se mi è lecito esprimere un giudizio, trovo che oggi il miglior critico militante italiano è proprio Giuliano Gramigna, proprio per lo sfondo che dietro ad ogni suo articolo anche un lettore di minima cultura avverte. Conoscenza e della semiologia e della storia della letteratura e della psicoanalisi, cioè di quegli strumenti critici ben precisi, ben definiti che entrano poi in gioco nel testo che di volta in volta Gramigna ci presenta. Mi sembra un fattore non secondario IO quanto propno una preparazione di questo genere può dare una continuità al discorso critico, sottrarlo all'impressionismo della prima lettura con lo sguardo rapido, alle sollecitazioni dall 'esterno e può dare la sicurezza, ovviamente sempre attraversata dal dubbio che sempre un intellettuale non può non avere. La questione della stroncatura è secondo me minore, cioè i giudizi critici negativi di un'opera non variano la funzione critica, ma hanno un loro valore sia verso l'editoria che nei risvolti dei lettori interessati. Faccio due esempi personali. Quando è stato pubblicato per la prima volta un romanzo assai montato prima della sua uscita, Horcynus Orca, ne ho fatto una lettura critica assai negativa per il settimanale cui collaboro «Rinascita». Debbo dire che nell'ambiente della casa editrice che aveva pubblicato il libro ho avvertito un gelo che solo il tempo ha superato, ma la prima reazione è stata di considerarmi colui che aveva tradito lo sforzo che la casa editrice aveva fatto! Questo per quanto riguarda il rapporto critico-editore. Ma più mi ha intrigato il riscontro nei lettori. Ho avuto e continuo ad avere ammirazione per l'o- . pera di Elsa Morante, prima dello spartiacque de La Storia. Quando è uscita La Storia e successivamente quando è uscita Aracoeli, ho espresso giudizi fortemente negativi e li ho scritti. Ebbene, siccome mi capita di avere incontri con il pubblico popolare, questo giudizio negativo mi è stato rinfacciato molto, soprattutto per La Storia. Debbo dire che quello che mi è stato detto dal pubblico sulla mia critica non ha mutato un giudizio che mantengo, però un po' mi ha turbato perché evidentemente mi ha fatto capire i miei torti, cioè la mia incapacità di motivare in maniera sufficiente per un pubblico non specializzato, popolare, un giudizio che non corrisponde a un giudizio spontaneo del lettore che purtroppo risente di montature di tipo esteriore anche editoriale. Credo che un interrogativo di questo genere il critico deve saperlo tenere presente per stringere il più possibile i nodi che lo possono impegnare nei confronti di un lettore nell'analisi di un'informazione critica. Per quanto riguarda l'ultima questione, chiedere ai critici le loro credenziali vuol dire in sostanza· interrogarli criticamente sul loro metodo, chiedere che cosa vuol dire selezionare, scegliere. Se tutto sta sullo stesso piano la critica è inutile, ed è eticamente negativa. Aldo Tagliaferri e ~reo di riunire i pun_tiche mi mteressano maggiormente prendendo spunto dall'articolo di Alberto Arbasino che Porta ha citato e che ricordo molto bene soprattutto perché nella parte iniziale mi vedeva largamente d'accordo. In sostanza Arbasino, esprimendo un punto di vista che mi pare non solamente suo ma di tanti, lamentava una caduta della critica letteraria più recente nella burocratizzazione. E con la solita verve parlava di una cFitica diventata soprattutto un modo per formarsi delle clientele; parlava anche di esercizi di galateo universitario. Io sono largamente d'accordo nell'accogliere queste formulazioni come esatte, rispondenti alla situazione quale essa veramente è. Quando Arbasino parlava dello stridore credo volesse associare la critica all'idea di stroncatura, che in un clima di contrapposizioni di gruppo, accademiche, di schieramenti letterari ecc. anche la stroncatura diventa uno stridore proprio perché sembra la manifestazione di oscuri mandanti, come dice lui. E allora ha ragione, proprio perché la stroncatura non è la soluzione del problema, anche se può essere salutare. Ma il punto non è questo. Si direbbe che si possa partire dalla descrizione appena data come da una fotografia della famiglia italiana quale essa è. Allora le cose non sono rosee, esattamente perché non sì vede facilmente una via di uscita da questo tipo di costrizione che non nasce dalla letteratura, che la letteratura e la critica letteraria subiscono, ma che nasce altrove. Debbo dire che la critica letteraria soffre di un male che non è semplicemente suo ma che ha radici nella società, nella nostra politica, e nell'ideologia italiana, m fondo. Quindi il discorso si fa molto complicato perché non esiste un formulario, che io sappia, di consigli per un buon critico e per una buona critica: agisce la sensibilità delle persone diverse. Già le persone sedute intorno a questo tavolo scrivono e giudicano partendo da formazioni diverse e da sensibilità molto personali, come è necessario che sia e tuttavia ci sono dei pericoli che a quanto pare molti denunciano. I pericoli sono soprattutto quello della burocratizzazione e di una rinuncia all'uso di questo mettere in crisi, che è uno dei significati di critica. Si tratta dunque di un conformarsi, d'un partecipare a ragioni di gruppo, di giornale, settari, che eludono la questione del giudizio specifico. Io sono d'accordo con Spinella quando sostiene che il compito del critico è anche quello di chiarire: se non si chiarisce il limite specifico del testo non si assolve a questo compito, lo si elude. Naturalmente sappiamo tutti che non possiamo mettere sullo stesso piano il lavoro di un teorico della letteratura perfettamente a suo agio sulla lunga distanza con la terminologia che è strettamente necessaria (se non si vuole ricominciare ogni volta dalla genesi) per esprimere certi punti di vista su questioni molto problematiche e vitali; e d'aJtra parte la situazione della critica giornalistica, che ha i suoi spazi e i suoi limiti, non esclude assolutamente che il critico, in grado di fare un buon articolo giornalistico, non abbia un retroterra teorico; al contrario, è proprio la formazione teorica robusta, auspicata da alcuni di voi che permette poi, anche se con una certa insufficienza di motivazioni, di esprimere un giudizio. Voi sapete che sostanzialmente si crea un rapporto fiduciario fra il lettore e il critico. Certi critici sono seguiti più di altri, non per il profilo, per la cultura che hanno, ma perché sono riusciti a costruire questo rapporto con un certo pubblico che segue un certo discorso a un certo livello. I livelli sono tanti, non c'è motivo di insistere né su un abbassamento né su un innalzamento brusco delle questioni teoriche. Certamente non si possono affrontare le questioni teoriche in un elzeviro di un quotidiano. Altrettanto certamente chi ha una buona formazione teorica riesce a far un migliore uso degli spazi che gli sono concessi. Io credo che la critica letteraria oggi si possa giovare, se lo vuole, di due punti di forza: uno è la possibilità di esprimere un libero giudizio; intendo dire che mi sembra vitale in queste circostanze che il critico si esprima con libertà di giudizio, e quando dico libertà intendo proprio sottolineare il fatto che oggi l'industria culturale, che sta puntando molto più su esiti quantitativi che qualitativi, ha tutto l'interesse di rafforzare il clima conformistico. Ahimè, questo accade, e sono pochi a quanto pare a resistere a questa seduzione che mira alla creazione delle clientele, a mantenere dei buoni rapporti e poi casomai a perpetuare il «degrado accademico», perché anche questo avviene nelle pagine culturali dei nostri giornali. C'è una specie di odio oggi per la teoria, questa mi pare la verità più amara da mandar giù, e questo odio nasce da un sospetto nei confronti dell'intellettuale, nasce proprio dal sospetto che la sua funzione sia di mettere in crisi dei valori presunti, di smuovere il paesaggio delle idee immobili, che invece il mondo istituzionale italiano vuole conservare a tutti i costi. Ora la letteratura si gioverebbe certamente di un 'assistenza critica, quella cioè che possono fornire soprattutto i giornali, se facesse anche più largo uso di riferimenti ad altre discipline. La mia vecchia idea è che un critico letterario non deve avere soltanto interessi letterari, ma deve essere aperto agli interessi nei confronti delle scienze umane, in generale, della semiologia, della linguistica, dell'antropologia e della psicoanalisi. Oggi la convergenza dei momenti di crisi di queste scienze porta ad una coerenza di visione e di coscienza, non ad una dispersione .•Ma è sintomatico che oggi si vada a chiedere a critici che non s1 occupano di queste scienze, per esempio che cosa pensino di Lacan, con ovvi risultati che vanno dal ridicolo al mostruoso. Giovanni Raboni V orrei chiarire quello che ho detto all'inizio: non è che la critica militante sia diversa dalla cntica IO generale: è una questione non di chi la fa, ma di sedi diverse. Non si può essere buoni critici militanti se non si è buoni critici in generale, se non si hanno buone basi strumentali o tecniche o teoriche; però è importante mettere l'accento sulla sede che qualifica la critica militante oppure no. E certo molto difficile uscire dalla descrizione di una situazione sicuramente negativa - la rete delle clientele, le convenienze, le complicità ecc. - che sembrano praticamente impedire qualsiasi libertà di critica. Quello che diceva Enzo Golino: la critica è ormai solo questa cosa, è una debole, flebile amplificazione della strategia editoriale, è ben vero, però non si può stare al gioco, altrimenti. è inutile che parliamo, è inutile che ne scriviamo, è inutile che ci poniamo come possibili propositori di un modo di fare critica. Mi viene in mente Jacovitti che disegnava un maiale e scriveva: Sono un maiale per colpa della società. È vero, siamo forse tutti dei critici impediti per colpa di tutte queste cose, però c'è un margine di responsabilità; si tratta proprio di trovare il modo di forzare questa piccola apertura, questa piccola crepa che forse ancora si offre alla nostra responsabilità individuale.
Foucauslt~ga discepoli M. Cacciari Ma la colpa è dei suoi seguaci in «L'Espresso», n. 37 Anno XXXII, 21 Settembre 1986 M. Foucault Préface a Folie et déraison Paris, Plon, 1961 M. Foucault Introduction a L. Binswanger Le reve et l'existence Bruges, Desclée de Brouwer, 1954 M. Foucault Maladie mentale et personnalité Paris, PUF, 1954 «Le forme originali di pensiero si introducono da sole; la loro storia è la sola forma di esegesi che sopportano ed il loro destino la sola forma di critica.» M. Foucault, lntroduction a L. Binswanger, Le reve et l'existence Bruges, Desclée de Brouwer, 1954. H a ragione Maurice Blanchot: l'invettiva, il partito preso, oppure l'elogio, la celebrazione, sono due rituali, opposti e in fondo complementari, assolutamente inutili a chi voglia comprendere profondamente l'opera di Miche) Foucault. 1 Due rituali che in genere hanno bisogno, entrambi, di una semplificazione abusiva di ciò che è mobile, problematico, complesso. Il dibattito dedicato a Foucault, a poco più di due anni dalla sua morte, registra, accanto ai lucidi ed acuti interventi di Blanchot e di Deleuze, 2 anche dei buoni esempi di quelle che vorrei definire le strategie della semplificazione teorica. Un certo uso dei media offre a tali strategie un supporto formidabile: la fisiologica ristrettezza degli spazi e la necessità di rivolgersi anche ad un pubblico di non specialisti possono infatti diventare un comodo pretesto per chi preferisce abbandonare il gusto delle distinzioni, il piacere delle sfumature ed il rispetto della complessità. 3 Tra le semplificazioni abusive di maggior rilievo, ci limiteremo a ricordare quelle che spiegano il pensiero di Foucault con la presenza inavvertita di un presupposto teoretico fondante e con il funzionamento decisivo di un metodo filosofico generale ed unitario. Positività e limite Vorrei cominciare dalla prima semplificazione: quella che assegna alla genealogia di Foucault il presupposto non esplorato o rimosso della filosofia come sapere dell'origine. Questo procedimento critico, anche se suffragato da analisi serie ed accurate,4 semplifica il pensiero di Foucault, se non altro perché lo riduce a coordinate teoriche che gli sono estranee. Se origine è, come è stato detto, quella apertura di senso che instaura la molteplicità dei significati; se origine è dunque dialettica di senso e significato, esposizione di un significato originario, di un principio, che è sia inizio che fondamento, va subito detto che Foucault non solo non ignora questa problematica, ma la colloca tra i grandi temi della filosofia, che hanno prodotto un rafforzamento delle procedure di esclusione e di limitazione caratteristiche del «discorso» occidentale. Tre temi, in particolare, vengono citati: il tema del soggetto fondatore, il tema della mediazione universale e, per l'appunto, il tema dell'esperienza originaria. 5 Temi che sembrano rafforzare quelle_ procedure proprio attraverso il loro «diniego»: il discorso vero finisce infatti per misconoscere il desiderio ed il potere che lo attraversano, soprattutto nella misura in cui la sua essenza viene definita da un rinvio costitutivo o alla mediazione univerle, come assenza d'opera (Préface, pp. III-VII). Le partizioni originarie di cui parla Foucault sono eterogenee al tempo storico, ma comunque inafferrabili ed incomprensibili fuori da esso. Tra il limite instauratore di storicità e le positività dispiegate, descrivibili nelle loro specifiche scansioni spazio-temporali, esiste uno strettissimo legame, di prossimità e di distanza, di coappartenenza e di disgiunzione. In realtà, non di un limite si tratta, non di un'uo E !i.... L'educazione estetica a cura di Lucia Pizzo Russo (].) Un serrato confronto interdisciplinare ro c. rn un annoso problema di scottante attualità Cesare Brandi e o N "O (].) Segno e Immagine L'attesa riedizione di un classico della cultura contemporanea ro (.) +-' (].) .e sono anche in libreria Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime +-' Cl) (].) ro Baum garten, Riflessioni sul testo poetico Russo, Orwell: 1984 sale, o all'esperienza originaria, oppure al soggetto fondatore di significati. È invece nel primo Foucault che troviamo una declinazione particolare del motivo dell'origine, concepita come strappo, come limite, come partizione, non come principio e come fondamento incondizionato. Penso innanzitutto alla Préface di Folie et déraison (Paris, Plon, 1961), che scompare nella succèssiva edizione dell'opera da parte di Gallimard. «Si potrebbe fare - affermava Foucault - una storia dei limiti, di questi gesti oscuri, necessariamente dimenticati appena compiuti, attraverso i quali una cultura respinge qualcosa che sarà per essa l'Esterno.» Continuava, subito dopo: «Questo vuoto scavato, questo spazio bianco con cui essa si isola», la connota, la designa, proprio alla stessa maniera in cui la caratterizzano i suoi valori. Se una cultura riceve e mantiene i suoi valori nella continuità della storia, è invece «in questa regione di cui vogliamo parlare» che essa «esercita le sue scelte essenziali», attraverso le partizioni che assegnano un «volto» alla sua «positività». Secondo Foucault, «interrogare una cultura sulle sue esperienze-limite, significa rivolgerle delle questioni ai confini della storia, sopra una lacerazione che è come la nascita stessa della sua storia. Allora si trovano confrontate, in una tensione sempre sul punto di sciogliersi, la continuità temporale di un'analisi dialettica e la messa in luce, alle porte del tempo, di una struttura tragica». Partizioni originarie, dunque, esperienze-limite, gesti irrevocabili di espulsione e di esclusione: mosse decisive, che hanno per 9ggetto, di volta in volta, il tragico, l'Oriente, il sogno, il desiderio ed infine la follia, concepita, nella sua forma più generanica part1Zione ongmaria, ma di una pluralità di limiti e di partizioni, relativa alla varietà dei campi discorsivi e delle positività storicamente operanti. Il solerte esegeta, dunque, soprattutto se animato da intenzioni critiche, non può trascurare, come è accaduto quasi sempre, il testo della Préface; né può dimenticare la sua strett~ relazione, solo apparentemente contraddittoria, con il rifiuto, da parte di Foucault, di una metafisica dell'origine, concepita come significato ultimo dei discorsi e degli avvenimenti: come luogo di risoluzione della loro specificità spazio-temporàle e della rete di relazioni materiali, di potere, a cui appartengono. Fin dalle sue prime prove, Foucault dimostrò attenzione per le esperienzelimite e, insieme, per saperi positivi già connotati da un certo grado di scientificità. Nell'anno del suo esordio, infatti, pubblicò un lavoro - da lui stesso, più tardi, misconosciuto - sull'epistemologia della psichiatria (Maladie mentale et personnalité, Paris, PUF, 1954), e, contemporaneamente, diede alle stampe una lunga introduzione a Le r~e et l'existence di Binswanger (Bruges, Desclée de Brouwer, 1954).6 Il sogno fondatore Nel primo Foucault, lo studio di un sapere positivo, l'analisi delle sue scansioni temporali, delle sue discontinuità e dei suoi effetti pratico-politici, 7 si accompagna ad una sorta di ontologia d<>ll'immaginario, sviluppata a partire da una riflessione filosofica sul sogno, che prende le distanze sia dall'ermeneutica freudiana che dall'eidetica fenomenologica husserliana. L'analisi fenomenologica riduce il sogno ad una controfigura dell'esperienza vissuta. L'analisi freudiana, da parte sua, riduce il linguaggio del sogno alle sue funzioni semantiche, ancorandolo alla tirannia della significazione. «Lascia in ombra la sua struttura morfologica e sintattica. La distanza tra il significato e l'immagine non è mai colmata, nell'interpretazione analitica, che con un'eccedenza di senso; l'immagine nella sua pienezza è determinata attraverso una surdeterminazione. La dimensione propriamente immaginaria dell'espressione significativa è interamente omessa.» (pp. 19-20) Ed è a tale dimensione, alle sue leggi, alle sue strutture specifiche che Foucault presta particolare attenzione. Il sogno non è mera parola, che «sembra cancellarsi nel suo significato»; è anzitutto un linguaggio, che «esiste con il rigore delle sue regole sintattiche e con la solidità delle sue figure morfologiche» (p. 21). Cifra di un'esperienza originaria, esso fornisce un fondamento antropologico all'espressione tragica, epica e lirica, cioè alle tre «direzioni essenziali dell'esistenza» (p. 99). Le immagini oniriche della luce e dell'oscurità, della vicinanza e della lontananza, dell'ascesa e della caduta rappresentano così gli a priori costitutivi dell'espressione lirica, epica e tragica. In questa prospettiva, il sogno «hon è una modalità dell'immaginazione; ne è una condizione prima di possibilità» (p. 106): alba della storicità, fondamento dell'esperienza, matrice originaria delle pratiche discorsive. Il sogno è ìdios kòsmos, mondo proprio, come voleva Eraclito: manifestazione dell'anima nella sua interiorità e nella sua solitudine, profilo aurorale della responsabilità, «movimento originario della libertà», intesa come «nascita del mondo nel movimento stesso dell'esistenza» (p. 64). Nella Préface del 1961, come nella lntroduction del 1954, Foucault modula dunque il tema dell'origine, situandolo all'interno di un «passaggio dall'antropologia all'ontologia»: un passaggio, un «movimento di riflessione concreta», che porta l'analisi nella direzione di una comprensione radicale della «temporalità» e della «storicità dell'esistenza» (pp. 104-105). Una rifle_ssione teorica approfondita sui rapporti tra Foucault ed il tema dell'origine non può prescindere da questi testi: solo una loro attenta rilettura rende possibile un confronto tra la genealogia e l'ermeneutica heideggeriana, evitando comode scorciatoie o troppo facili appiattimenti. Un'esplorazione di questi orizzonti speculativi non deve necessariamente passare attraverso il filtro del dibattito teorico: può essere compiuta anche a partire dalla problematizzazione di alcuni campi di ricerca storica, particolarmente esposti, se così si può dire, al rischio dell'interrogazione filosofica. Una ricerca storica sulla malinconia, ad esempio, scopre la presenza di costellazioni psichiche straordinariamente stabili, che sopravvivono anche al mutamento del quadro teorico e dei modelli interpretativi. Da Areteo di Cappadocia a Kraepelin, da Freud alla psichiatria fenomenologica del nostro secolo, emerge costantemente la descrizione di un quadro clinico caratterizzato dall'alternanza di malinconia e mania, di depressione e di eccitamento: al punto da farci sospettare l'esistenza di una vera e propria costante antropologica della civiltà occidentale. Viene in mente, a questo proposito, l'assenza d'opera, cara a Blanchot e ripresa da Foucault nella sua Préface del 1961: ripresa e riarticolata come una delle partizioni originarie, che inaugurano e rendono possibili le positività di cui è intessuta la nostra cultura. È per me impensabile un approfondimento di tale problematica fuori da un preciso sviluppo della ricerca, in una direzione che sia insieme storica ed epistemologica. Ed è stata questa, a ben guardare, la cifra inconfondibile dello stile di lavoro inaugurato da Foucault: una caparbia interrogazione filosofica della storia; una postura teorica mobile, che si sposta con lo spostarsi del campo d'indagine. Uno stile-passione Trasformare questa posizione teorica, sempre mobile e provvisoria, in assetto epistemologico costante o, addirittura, in metodo generale, che tratta i territori specifici della ricerca storica come dei semplici campi di applicazione di una filosofia già compiuta: è questa la seconda semplificazione abusiva del pensiero di Foucault; un vero e proprio misconoscimento del suo specifico stile di lavoro, dè1 suo modo atipico di essere insieme filosofo e storico o, se si preferisce, di non essere univocamente né filosofo né storico. Per definire l'amico scomparso, Gilles Deleuze ha proposto due diversi termini, quasi a voler sottolineare l'originalità e le scansioni interne di un itinerario: un nuovo archivista, un nuovo cartografo. A questo vorremmo aggiungere qualche considerazione conclusiva sullo stile, sul linguaggio di Miche! Foucault. Altrove l'ho definito uno stile-passione:8 indicatore estetico di una passione della mente, che varia con il variare dei campi d'indagine. Non è una tecnica retorica, un espediente argomentativo, che colma i vuoti e le indecisioni della teoria, come hanno sostenuto alcuni. È qualcosa di più, e di diverso. È Foucault stesso a dircelo, già nella Préface del 1961: il linguaggio non deve tradire gli oggetti ed i soggetti dell'indagine; deve dare loro spazio e parola. Deve essere «senza sostegno»; deve entrare in gioco, «consentire lo scambio» ed «andare, con un movimento continuo, sino in fondo» (p. X). Deve, appunto. C'è qui - nella scelta di un linguaggio mobile, spesso scandito da movenze drammatiche e da grandi intensità liriche - una componente che è insieme volontaristica, passionale e teorica. Foucault vuole sottrarre il suo linguaggio alla tirannia di un'epistème, al dominio di una griglia interpretativa definita e stabile. Cerca un linguaggio che stringa 'O da yicino le cose di cui parla, che i::s .s faccia corpo con esse, che ne mimi ~ la configurazione, che ne riprenda ~ i colori. Si sforza di farlo uscire ~ dalla sua dimensione classica di -. ~ -e E: ~ ::,. C) .:: strumento della rappresentazione, assegnandogli spesso una densità enigmatica, una polivalenza voluta e ricca di implicazioni teoriche. In questo senso, si può forse dire ~ che lo stile di Foucault è romanti- .:: co. Esso è comunque la superficie ~ visibile di un lavoro su di sé, di l carattere etico e passionale, e di ~
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