Daniel Grotta Vita di J.R.R. Tolkien tr. it. Francesco Saba Sardi Milano, Rusconi, 1983 pp. 228, lire 18.000 Humphrey Carpenter Gli Inklings. Clive S. Lewis, John R.R. Tolkien, Charles Williams & Co. tr. it. Maria Elena Ruggerini Milano, Jaca Book, 1985 pp. 320, lire 19.500 Ruth S. Noel La Mitologia di Tolkien. I miti antichi nel mondo fantastico della Terra di Mezzo tr. it. Pier Francesco Paolini Milano, Rusconi, 1984 pp. 205, lire 20.000 Ritratto d'autore Della vasta bibliografia cntico-biografica su John Ronald Reuel Tolkien, che ormai anche nel nostro paese tende ad occupare un sempre più esteso - ideale - scaffale della nostra biblioteca privata di appassionati cultori dello LibriperTolkien studioso inglese, l'opera di Daniel Grotta risulta esser senz'altro la più interessante e stimolante dal punto di vista cognitivo per la comprensione dell'intero corpus, del macrotesto, tolkieniano. In essa l'equilibrio dell'universo familiare, dello studioso, e del credente cristiano (cattolico romano) trovano coagulo, organizzazione, in un livello testuale che coniuga analisi scientifica e divulgazione attraverso l'uso di un linguaggio e la proposizione di un taglio che sa passare con spregiudicatezza e senza tentennamenti dal réportage di carattere pubblicistico al grande biografismo inglese di stampo classico; dove la citazione epistolare o di testi paraletterari minori inediti è dosata con saggia parsimonia e non corre il rischio di divenire l'unico pretesto dell'acquisto del volume. Tale oculata scelta nella stesura del testo critico-biografico evita a Grotta di cadere nel biografismo tout-court, magari di stampo sensazionalistico, che si accontenta della semplice notizia e che aggira Antonio Fabozzi, Gianni Mammoliti il necessario lavoro di scavo e analisi critica comparata fra i diversi elementi, testuali ed extratestuali, dello scrittore-testo e del testo-scrittore; precludendo così in definitiva l'informazione. Diverso, addirittura sul versante opposto, il discorso portato avanti da Humphrey Carpenter, che ricostruisce l'identità dè1 circolo letterario degli Inklings di cui Tolkien - insieme a Clive S. Lewis e Charles Williams - fu uno degli esponenti di rilievo. Qui l'uso dei diari, delle trascrizioni di incontri e delle discussioni, degli epistolari, funziona come cemento dell'indagine storico-ideologica della genesi, della formazione, e dell'esaurimento dell'esperienza degli Inklings. Diverso il fine, diverso il metodo espositivo ed analitico. In esso si disegnano con evidenza e forza quei tratti di Tolkien che il precedente saggio aveva anch'esso sottolineato: il filologo ed il linguista, il mitologo e il credente. Il quadro che i due saggi forniscono dello scrittore inglese, seppur diversamente articolato, è completo, organico, euristicamente soddisfacente. Non si può invece dire lo stesso del libro di Ruth S. Noel. Testo che pecca di unidimensionalità, non legando la figura del creatore di miti e di linguista (tema dominante del saggio) a quella dell 'uomo, dei suoi sentimenti religiosi e sociali. L'analisi è puntuale, precisa, parcellizzata fino all'inverosimile (i temi, i luoghi, gli esseri viventi, le cose): i miti antichi pagani e cristiani presenti nel modello Terra di Mezzo vengono messi a confronto fra loro. Il risultato però è che si perdono di vista i nodi centrali, l'insieme del discorso macrotestuale, le diadi oppositive focali della costruzione: i personaggi principali (e le loro funzioni) sbiadiscono, i significati e i significanti forti scompaiono, annegando nel vasto mare dell'analisi dell'enciclopedia della subcreazione tolkieniana. Luce ed Ombra, Tempo Mitico e Tempo Storico, la figura del Pontifex (dove regalità terrena e celeste sincreticamente. coabitano), il Re nascosto, le principali simbologie alchemico-mistiche e i loro corrispettivi narrativi (cfr. A. Fabozzi, G. Mammoliti, «Anelli», Alfabeta n. 54, 1983), perdono quello spessore di elementi fondanti che invece i primi due saggi in qualche modo evidenziano. Ma cerchiamo ora di analizzare la proficua messe di informazioni, che quest'ultima produzione saggistica ci ha così articolatamente fornito, a testimonianza dell'interazione fra lo scrittore e la sua opera. Il filologo e il linguista Tolkien più volte dichiarò a Lewis, a proposito della primissima parte del corso di Lingua e Letteratura Inglese di Oxford, che «( ... ) il linguaggio è la cosa più importante nella scuola (... ) il linguaggio è l'unica cosa che conta (... )» (H. Carpenter, pp. 39-40) Quest'interesse preminente per la lingua porterà lo scrittore inglese ad affermarsi come uno dei maggiori filologi e linguisti del nostro secolo. Due saranno i suoi In vecchiaiaip, oetie i danzatori L a poesia di Sereni ha bisogno, per essere gustata nella sua interezza, di un cervello acuto in una psiche discreta e anche di un'età fisiologicamente matura, predisposta ai sottotoni e alle rocciose certezze espresse di solito da quei poeti che scrivono poco, ma da subito riescono a mettere a fuoco un tono e un personaggio. Ora l'iniziativa di Mondadori di raccogliere in volume tutte le poesie di Sereni in versione definitiva, comprese le traduzioni del Musicante di Saint-Merry elimina ogni residuo dubbio: sul versante della poesia riflessiva, intesa come parco uso dell'intelligenza del cuore, Sereni non ha rivali. Forse il vero successore di Montale, e non solo per motivi generazionali, è proprio lui, il poeta degli Strumenti umani e di Un posto di vacanza, senz'altro il più bel poemetto scritto nel Secondo Novecento nella nostra lingua. È noto come l'ombra di Montale si sia per anni allungata a nutrire, ma in parte anche a occultare il tentativo di novità di coloro che cresciuti in seno all'ermetismo, sulla soglia degli Anni Quaranta, vollero irrobustire la loro ispirazione misurandosi con un verso capace di restare tale pur nell'ambito della poesia-prosa di impianto novecentesco. Solo così la riflessione e l'etica potevano trovare l'ossatura logica e sintattica di cui il pensiero in poesia ha bisogno senza smentire le esigenze della versificazione. Se probabilmente il più vivace assillo dei poeti della Quarta Generazione, come tutte le generazioni accomunate più dalla volontà di differenziarsi dal recente passato che dalle opere sempre solitarie e incomunicabili, fu la resa dei conti con Montale, più libera fu la formazione di Sereni, Caproni o Bertolucci. L' «esile mito:> di Sereni, per esempio, già assoluto e indiscutibile sin dai tempi di Frontiera anche nei confronti dei debiti montaliani ha semflre cercato nella non perentorietà la sua forza, la stessa che, nel ventre della lingua materna, anima l'embrione di una ispirazione che non ha altro da fare che crescere, distendersi, assolvere alla sua missione conoscitiva con l'umiltà e il silenzioso senso delle responsabilità che ogni assoluzione comporta. E la poesia di Sereni, sempre più nel corso degli anni Settanta amante della sordina piuttosto che del pedale, del fortuito e non del programma, della poetica del «lavoro in corso» e non del perfezionismo variantistico, quasi inavvertitamente si trovò a pronunciare accenti che oggi suonano quasi come un mandato testamentario, se non addirittura come una profezia che, speriamo, possa aiutarci a uscire dall'attuale impasse del secolo che muore, disgustato di sé, ma ancora incapace di liberarsi dai ceppi dell'autocontemplazione. Il Non c'è indizio più chia- '' ro di prossima ve~gogna:I uno osservante se mentre si scrive I e poi scrivente di questo suo osservarsi. I Sempre l'ho detto e qualche volta scritto: I segno, mi domandavo, che la riserva è quasi a secco, I che non resta, o non c'era, proprio altro?» Proprio Sereni, commentando l'ultima scheletrica poetica di quello che possiamo considerare il Quinto Tempo della poesia di Giorgio Caproni che, come si sa, comincia col Muro della terra e continua col Franco Cacciatore e ora con Ii Conte di Kevenhiiller, ebbe modo di notare come, in vecchiaia, i poeti della sua generazione preferivano difendersi dalla progressiva emarginazione sociale della poesia riducendo emblematicamente l'ampiezza timbrica della voce fino quasi ad arrivare ai limiti della codificazione del silenzio. Chi ha avuto la fortuna di ammirare le ultime apparizioni in scena del grande Merce Cunningham intento, nella sua gloriosa vecchiezza, a tracciare nell'aria il Biancamaria Frabotta puro segno della danza ovvero l'estrema allegoria di quella che era stata l'esuberanza coreografica di un tempo disporrà di un buon termine di paragone per capire il senso del Conte di Kevenhiiller, o almeno della sua più convincente sezione che porta appunto questo titolo. Solo che Caproni, da più di venti anni ormai intrigato da quella che Calvino definì la sua ontologia negativa, preferisce al novecentismo dell'astrazione la vera e propria allegoria di una Caccia metafisica significativamente bandita il 14 luglio 1792 anno in cui a Vienna risuonavano le note del Flauto Magico e a Parigi si affilava sempre più la lama del Terrore. E anche per la partitura su cui inventa la musica di questa ultima operetta, pur non eludendo gli ormai classici silenzi di Cage è piuttosto debitrice, per stringatezza e austerità dei quartetti beethoveniani, che della amplitudine delle grandi opere di Mozart o dello stesso Webern che aveva suggerito l'impianto del Franco Cacciatore. Pur non modificando il bersaglio della sua acidula e ossessiva allegria; l'«6noma» che «non lascia orma», la «pura grammatica» su cui vengono ridimensionati gli ex protagonisti della lirica romantica, Io e Dio, Caproni sembra quadi voler trascendere le premesse nichilistiche del suo messaggio, quelle, per intenderci, che tanto hanno colpito un lettore come Giorgio Agamben. E riportare la sua poesia sulla terra dove la vocazione autodistruttiva degli ultimi eventi, «la frana della ragione», la Storia come «testimonianza morta» che vale ormai quanto una fantasia minano alle radici non solo la sopravvivenza della poesia, ma quella stessa della umanità. Come si vede dunque, pur fra tante diversità, non dissimile è l'approdo «etico» di Sereni e di Caproni, la loro speranza di finalizzare la metafisica del/'odierna invivibilità della poesia a una nuova vivibilità dell'esistenza. I nesauribile invece sembra ancora la riserva metalinguistica di un poeta che con pieno diritto appartiene alla Quarta Generazione, anche se da tempo ne ha superato i puri ambiti storiografici. Voglio parlare di Andrea Zanzotto che intitola addirittura Idioma il suo ultimo libro di poesie come sempre avvolto attorno a un doppio cuore centrale: l'idioma come linguaggio alto e alato, in decollo ve;so il sublime e il linguaggio altro, idiozia, «gesto ingessato I che accumula I sere sforbiciate via verso il nulla». Idioma, terzo dopo Il Galateo in bosco e Fosfeni appartiene a una trilogia che, a detta dello stesso autore, è una pseudotrilogia: momenti non cronologici di uno stesso lavoro, che rinviano l'uno all'altro a partire da uno qualunque di essi. Si potrebbe quasi dire, e la metafora è la stessa tecnica compositiva di Zanzotto a suggerirla, tre punte di una stella la cui luce si irradia dal centro per prolungarsi però al di là dei limiti fisici del suo contorno. Se poi si considera Idioma nella sua singolarità, come in realtà è quasi obbligatorio fare, allora ci si accorge che Zanzotto nei due libri precedenti era arrivato a una tale incandescenza, così multiformi e imprendibili erano le forme in cui si incarnavano i nuclei più caoticamente scoperti e palpitanti delle sue divagazioni da non poter far altro ora che rilassarsi e abbandonarsi ai sentimenti. Uso questo termine a ragion veduta perché, nonostante il titolo asetticamente programmatico di Idioma Zanzotto, che ha assaporato in passato la libido degli eccessi manieristici, semplifica la fitta rete del suo tessuto significante e la espone al più fresco vento della presa • diretta. Dà così spazio alle sue più autentiche vene, da quella pedagogico civile, a quella elegiaca (vedi le bellissime epistole a Montale e a Pasolini e la tenue malinconia alla Villon diffusa un po' ovunque), . . fino al canto dolcemente. affettuoso di cui aureola il fantasma di quella che un tempo aveva dato vita alla sua differita epopea popolare. Ed è così che il nostro più sofisticato poeta si libra, pur nel tormento che gli è proprio al di sopra di ogni «falso sospetto I su cose e parvenze», non si lasciapiù intimidire da quell'elemento di nera esaltazione che aveva tenuto al fondo del «tanto latte dei sentimenti» e sostituisce ali'ansia della decalcomania una più «gentile monomania». L'effusività sentimentale e leopardiana che Zanzotto aveva delegato, da Filò in poi, quasi esclusivamente al dialetto ora trabocca, pur in un maggior amore per l'ordine e gli argini e ammorbidisce, contenendone la coazione metaletteraria, la stessa pronuncia in lingua. 1l risultato è struggente e non solo per i tanti rimandi testuali che, come mine vaganti nel corpo spesso della poesia suonano ora come inevitabili congedi, ma anche per la nuova semplicità (così io leggo il suo inno alla Zauberkraft o «forza magica» di hegeliana natura) necessaria alla sopravvivenza della incantata contrada, «sovrumana inerzia di presenza !sempre più immagicata in colore linee piani- I forse a farli volare basterà un battito di mani». Vittorio Sereni Tutte le poesie Milano, Mondadori, 1986 pp. 552, lire 35.000 Giorgio Caproni Il Conte di Kevenhiiller Milano, Garzanti, 1986 pp.192, lire 26.000 Andrea Zanzotto Idioma Milano, Mondadori, 1986 pp. 119, lire 18.000
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