Alfabeta - anno VIII - n. 89 - ottobre 1986

P erché non esiste (o ancora «sonnecchia») la «cinefilia» femminile? Ecco la domanda - eccentrica sicuramente rispetto al tema scelto per questo dossier - alla quale vorrei tentare una risposta. «La donna e la professione», era più o meno questo il nodo da districare. Nel mio càso, dunque, la critica cinematografica (che, oggi, è definizione labile e complessa, indicando, contemporaneamente, operazione di scrittura e di ricerca, organizzazione di eventi, programmazione di sala e coinvolgimento in questioni di esercizio e produzione cinematografica). Non credo che nessuno si attenda una pur fiorita scansione di aneddoti sulle difficoltà incontrate, le resistenze in campo maschile e le trasformazioni avvenute nel corso del tempo. Nessuno, d'altro canto, vorrà sentirmi dire di «differenze». Non ne so nulla. Oggi più ancora di ieri l'altro, quando di questa diversità mi impegnavo a scrivere e a parlare. Solo un aneddoto, a livello professionale, valido per tutti gli altri possibili: a scadenza regolare - avendo avuto in passato incontri non sporadici con il tema «donna & cinema» - mi si chiede di scrivere qualcosa su «La donna nel cinema di ... ». Se l'argomento cinematografico mi interessa accetto e scrivo di altro. Altrimenti declino gentilmente l'invito. A chi sa leggere ritengo di non dover più spiegare che di tutt'altro si tratta nel caso di esegesi «al femminile»: di indagare sulle strutture dell'Immaginario cinematografico, tra gli enigmi narrativi e i problemi di messa in scena, di considerare l'icona femminile come luogo fondante lo . . spazio scemco. Che il femminile, insomma, nella storia del cinema, non risulta solo un campo fertile per variate casistiche sociologiche legate ai ruoli, ma una necessità simbolica attorno cui si distribuisce la gerarchia costitutiva di interi generi. quali, ad esempio, il Melodramma. E che - per altre vie - interessa all'analisi l'apparizione fiammeggiante del corpo femminile, la cui forza «estranea» e portatrice di terrori, va comunque contenuta, sia che tale cancellazione passi attraverso l'esaltazione insita nel divismo, sia che si esplichi attraverso le pratiche feticiste dell'horror. Il cinema, per di più, è ancora un'altra cosa. Per questo, con tutta la buona volontà, oggi ritengo che non esista altro modo di occuparsi «al femminile» di critica cinematografica se non quello di interrogarsi sull'unico vero nodo sconosciuto di tutta la complessa questione ossia il ruolo e la posizione della spettatrice rispetto all'arte dominante di questo secolo (perlomeno sino agli anni '60). Q uesta esigenza di analisi nasce da una considerazione lampante. Basta guardarsi attorno: l'assenza e il silenzio femminile nel campo della ricerca cinematografica sono talmente evidenti da risultare inquietanti. La passionale indifferenza della donna nei confronti del cinema è un dato di fatto inconfutabile. Passionale indifferenza perché la donna ama, desidera, sogna il cinema da sempre e, allo stesso tempo, le importa molto poco di peneLa.salaoscura trarne le leggi e il mistero, di studiarlo, inseguirne e ricostruirne i frammenti, interpretarne l'evoluzione. La donna, in particolare, non conosce quella malattia sorda e ossessiva, unica nel suo genere, che solo il cinema ha saputo produrre in così breve esistenza e che prende nome, appunto, di cinefilia. La donna non si affanna alla ricerca del film perduto, della serie B, del cult-movie, del cinema nascosto e sotterraneo. Non conosce la passione mai esausta che consuma il vero divoratore di pellicola e che, in un 'arte così promiscua, incerta sempre tra pratiche alte e basse, risulta premessa quasi necessaria al rigore della ricerca. \Li. Il Il '>L'. L' 11' Pl111ll q llL':--ll) 1•111terdetto orginario, se non l'infamia originaria. Tutto potrebbe dipendere dalla qualità ambigua e proibita entro cui sembra situarsi, sin dall'inizio, il cinema, arte a mezzo tra il sublime e la volgarità, luogo divenuto fin da subito sinonimo di sogno e peccato, proibito alle brave ragazze che pure ne sognavano cucendo in casa, che pure, nei primissimi anni del muto, ne avevano inventato le storie, disperse nell'esercito anonimo di centinaia di sceneggiatrici. L'eccessiva frequenza delle sale oscure sarà, allora, impura. Più di altre manifestazioni artistiche il cinema si imparenta all'impuro della realtà, alla terrestrità e alla carnalità della vita. E, dunque, non si adatta alle ragazze che vanno preservate. Il cinema è frequentabile solo in compagnia, sotto tutela. In scala: il padre, il fratello, gli amici, il fidanzato, il marito. Dopo i 26 anni - ci dicono le statistiche alla fine degli anni '50 - la frequentazione delle sale tra gli anni '50 e '60, quando ancora è difficilissimo frangere la soglia dei cinema in solitudine, i film messi all'indice dalla Chiesa sono centinaia (e, ovviaPiera Det ssis mente, !'interdetto colpisce· maggiormente la popolazione femminile) e la scelta stessa del film dipende, in larga parte; dall'accompagnatore. Non sono novità: !'interdetto sociale che colpisce la sala di cinema a tutto discapito della donna, è palese ad ognuno. Unica tras~ressione possibile è il riferimento al gruppo solidale e protettivo d'amiche, ma la spinta alla frequentazione, in questo caso, non è neppure più quella cinematografica, perlomeno non è quella dominante. Quando ha inizio il cambiamento? Probabilmente nel corso degli anni '60, con l'avvento del Cineforum a sfondo cattolico. luogo che lihcra dall'interckttn e con- :--L'lllL' u11;i p1u d1:--1L·:,,;i pr\lllll:--L·u,t;i. ma che dirige il consumo cinematografico esclusivamente nel senso dell'impegno e non certo in quello della disinvolta e scanzonata passione cinéphile. Ma non è il dato sociologico quello che qui mi interessa. È piuttosto la sala buia in sé, luogo reale e simbolico da cui partire per l'analisi dell'immaginario cinematografico femminile. La semiotica e la psicanalisi hanno analizzato appunto la posizione dello spettatore nei confronti dello schermo, del film fruito nel buio della sala. La situazione sembra riprodurre la famosa fase dello specchio: l'immaturità motrice, una netta diminuzione delle difese, il buio attorno allo schermo, l'impressione di realtà rafforzata dal movimento delle immagini, consentono una forte identificazione da parte dello spettatore. «So che non è vero, però .... » egli mormora e nell'oscurità della sala ricostruisce il peso del proprio Io attorno alla coerenza della Storia costruita su espedienti linguistici che ne favoriscono la verosimiglianza. Perso - e assieme ritrovato - lo spettatore di cinema è nella posizione di un voyeur che non teme di essere, perché le ombre che guarda non possono ricambiare il suo sguardo, non possono inchiodarlo alla sua colpa. In questa oscillazione tra perdita di sé e fortificazione dell'Io, lo spettatore cade nella trappola del sogno/sonno, tanto è vero che - come sottolinea Barthes - all'uscita dalla sala, la sensazione di freddo che interviene segnala proprio l'impossibilità di rientrare nella normalità del reale. 11cinema è forse tutto qui: pratica costante della perversione. Ma il fatto che tutto accada in una sala buia è rilevante ançhe sul \·crsantc femminile del di- :,,nlr:--\l. t ·\l:,,;1 a\\ tL'llL' qu;111d\l ljllL'- sta sala oscura è abitata da una donna? La sala, allora, non è più compatto silenzio, disposizione all'isolamento attonito, possibilità di concentrazione, ma piuttosto brusìo inquietante, luogo di vetro attraversato da riverberi promiscui, terrori sessuali, paure fonde. Come se un velo di angosce primordiali si levasse fra la sala e lo schermo a disturbare e frastornare la visione. Se l'identificazione corrisponde, in parte, alla perdità di sé, tale perdita è, evidentemente, molto più difficile per una donna che, sola, acceda al cinema, priva di garanzie. Succede così che la perdita di sé e la caduta nella dimensione trasgressiva del segno e della fantasticheria, si rivelino come terrori veri che - storicamente - attanagliano le donne nel buio di sale dai nomi luminosi come Rex, Astra o Corallo. A teorizzare non è tanto la minaccia avvertita, quanto la consapevolezza di voler cedere a tale minaccia, all'intrusione della diversità. Il cinema mette in scena e rende illusoriamente reali tutti i Mondi Possibili. Mondi che, all'uscita dalla proiezione, non sarà più possibile scordare o cancellare, che si fisseranno per sempre nelle profondità dell'inconscio, generando, anche, sofferenze, squilibri, insofferenze. Fratture spesso difficilmente saturabili, anche se - proprio per questo - talvolta liberatorie. Più domestica, meno intima e minacciosa, la televisione libererà la visione femminile dall'interdetto originario. Ma, appunto, troppo tardi per ricondurla sulla via del cinema, per permetterle d'accedere alla passione per il grande schermo. Troppo tardi per ritrovare la donna «cinéphile». È come se la donna avesse saltato a pié pari l'epoca d'oro del cinema come sogno e illusione dipinti di Iure L'd 0111hrl.:. 1·q1or.1 del cinema come specchio e cuore del mondo e non potesse dunque più accedere, completamente e radicalmente, a tale universo, proibitole una volta per tutte. Quasi una maledizione. Non ci si deve meravigliare, allora, che una delle poche ricerche sul campo che privilegi la «spettatrice» femminile, separandola dalle altre categorie, rimanga - a mia conoscenza - quella riportata in Cinema, n. 161, anno 1956, sotto il titolo «Pericolosi i film passionali nelle carceri femminili», dove si tenta una seria correlazione tra il delitto commesso dalle donne carcerate alle Mantellate, la loro frequenza cinematografica in libertà, le preferenze filmiche espresse prima della colpa e durante la detenzione. Quasi che solo il delitto e la colpa, appunto, potessero coniugarsi al tema di una frequenza cinematografica femminile, «oscuro oggetto» che ha bisogno di pretesti villani per rivelarsi, per lasciarsi analizzare. Come in un vecchio, classico, «film noir»: il sogno troppo grande, la donna e, naturalmente, il crimine.

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