ritrova concretezza di fronte ai vuoti avvertiti nel presente. È un percorso questo che rischia la nostalgia, l'idealizzazione di condizioni di vita tradizionali. Esso sollecita tuttavia a riflettere sugli aspetti ambigui, sui limiti dei processi di modernizzazione economica e sociale, sui loro rapporti complessi con i modelli di comportamento, i valori, le mentalità. ,<Molti storici - ha scritto L. Stone - credono ora che la cultura del gruppo, e persino la volontà dell'individuo siano potenzialmente agenti di mutamenti importanti almeno quanto le forze impersonali della produzione materiale e della crescita demografica». La diffusa disillusione per il determinismo monocausale porta i «nuovi storici» a riconoscere «che le variabili sono talmente numerose da rendere possibili, nella migliore delle ipotesi, soltanto generalizzazioni a medio raggio ... ». - Darsi «tempo». La decostruzione dei grandi paradigmi che hanno irrigidito il femminile in tenaci griglie di classificazione ha messo in evidenza gli ostacoli posti dalla figura della donna nell'interazione con il potere. Di tali ostacoli rimane traccia nei testi normativi dei filosofi e dei teologi, nelle tassonomie degli anatomisti e dei fisiologi, nelle terapie dei medici. Disserrato da tali fissità, il femminile riacquista profondità di campo. Si vengono delineando storie di espropriazioni: professioni che gli uomini hanno sottratto alle donne, chiusura di spazi di autonomia; ma anche di interiorizzazioni: inibizioni, afasie, devastazioni nei modi di intendere se stesse, di autorappresentarsi, di immaginare altre identità. - Salvare dall'oblio. Per ostacolare la cancellazione di un punto di vista, che per lo più non si è espresso nel codice elaborato de! «linguaggio pubblico», è stato necessario inoltrarsi nel non appariscente, dargli un nome: vita quotidiana, sistemi impliciti di comunicazione, linguaggio privato, uso simbolico del corpo. La ricchezza e la complessità delle interazioni espresse dalle donne ritrovano le proprie coordinate sociali e storiche, mano a mano che si afferma una nuova sensibilità mutuata dall'antropologia. L'antropologia ci ha infatti mostrato come sia possibile illuminare una cultura, indagandone i molteplici linguaggi simbolici attraverso i quali si manifesta: rituali religiosi e politici, linguaggi del corpo, codici di abbigliamento, di alimentazione, uso degli spazi. - Culturalizzare il corpo. La storia delle donne si è aperta la strada dal corpo, lo ha investito di una interrogazione globale, ne ha fatto un oggetto di analisi storico-sociale, non solo esclusivamente medico-biologica. La rilevanza di questo tema ha portato, fra l'altro, a ritrovare nel corpo femminile i modi, storicamente variabili, della simbolizzazione di ciò che non si è potuto o voluto dire esplicitamente. Tale ricerca ha lasciato intravvedere non solo quanto tali forme di simbolizzazione siano state segnate dalla costruzione di una realtà chiamata «natura femminile». Essa viene altresì mostrando come la medicina scientifica, erede di questa costruzione, abbia reso le esperienze delle mestruazioni, del parto, dell'allattamento, le manifestazioni della sessualità femminile, fenomeni controllabili, azzerandone o comunque ignorandone le percezioni soggettive, le connessioni immaginarie, le intenzionalità. LaposiziqPe.Rlo!!stile R acconta James Edward Austen Leigh, nipote di Jane Austen, che è difficile capire come la sua illustre ava potesse scriv~re pagine e pagine di armonici e compatti romanzi, dal momento che «non aveva uno studio proprio in cui isolarsi, e gran parte della sua opera è stata scritta nella stanza di oggiorno della famiglia. dove era soggetta a ogni sorta di interruzioni. Ella aveva cura che né le persone di servizio, né i visitatori si accorgessero della sua occupazione della quale soltanto la famiglia era a conoscenza». Breve aneddoto, tra i tanti venuti fuori in questi anni di archeologia femminile, destinato ad alimentare una leggenda, o se vogliamo un «discorso», uno fra i possibili, sul «femminile». La poverti1 delle donne, l'indigenza, la mancanza di spazi, di mezzi. di «luoghi» mentali e materiali, e il suo tortuoso, enigmatico incrociarsi con quella radicale mancanza cli senso, quella lacuna, quella «o». quel minaccioso e/o accogliente vuoto del femminile. È in questo pericoloso crocevia che, donne da trivio, corpi da anatomi~zare, sono state incontrate le pratiche intellettuali femminili. inaugurali e non. Questo ha spesso prodotto una paralizzante confusione tra la «posizione» e lo «stile». La posizione: ciò che sta all'origine cli una pratica, come l'atteggiamento del corpo del lanciatore di giavellotto prima del lancio, o quello ciel portiere in attesa del calcio di rigore. Lo stile: l'atto stesso con cui le mani del lanciatore consegnano allo spazio il giavellotto, e la conseguente figura della sua traiettoria, il modo della sua caduta. La parata, o il gesto dello scacco, del portiere. La posizione può, con più o meno attenzione, essere facilmentL' detta; l'altrui e la propria. È una connessione oggettiva tra le possibilità di un preciso corpo, con le sue articolate funzioni, la sua materia, la sua biologica e storica diversità - quale essa sia - il suo incedere o recedere nell'habitat che gli è proprio, il suo condizionamento e il suo arbitrio. E, appunto, si può a ragione parlare di una «posizione femminile» .... Di uno «stile femminile» no, non credo si possa parlare. Come non si può parlare di uno «stile maschile». A meno di non voler fare, magari con sapienza paradossale, o contropelo, «della letteratura». Lo stile è qualcosa che sempre ci dice, ci racconta, ma difficilmente - e, mai, comunque di sé - può essere detto. Uno stile si «ri-conosce»: è un rinvenimento, una scoperta insperata, fortuita, oppure il risultato di una lunga ricerca. Ma è, comunque, un bene sotterraneo, e cifrato - se è evidente è «maniera», e la «maniera» deve inabissarsi in se stessa per ridiventare stile. Proust, nel breve saggio Osservazioni sullo stile dichiara: « ... la bellezza dello stile è il segno infallibile che il pensiero si eleva, che esso ha scoperto e stabilito i rapporti necessari tra oggetti che la contingenza lasciava separati», e poco dopo: «Tale trasformazione dell'energia, in cui il pensatore è scomparso e che trascina davanti a noi le cose stesse, non rappresenta forse il primo sforzo dello scrittore verso lo stile?». Ma immediatamente si smentisce, o comunque cambia registro, quando poi esamina uno stile particolare, quello di Flaubert («A proposito dello stile di Flaubert») e ce lo racconta attraverso la mancanza di belle metafore che registra nella prosa flaubertiana, la scorretta bellezza grammaticale. l'uso del pronome personale, la ritmicità delle preposizioni, l'eccentrica collocazione degli avverbi. l'anomalia della congiunzione «e». C'è però nella domanda retorica di Proust un'indicazione generale sullo stile davvero preziosa; la scomparsa del pensatore, quel soggetto che ha la fortuna o il talento di farsi pratica, di inabissarsi nella tecnica e di risorgere come stile. Ecco, lo stile è sempre questione di una scomparsa, è una sequenza di sottrazioni, uno scarto da quello che oggettivamente, ma anche soggettivamente, si è, il segno di un rifiuto. Come se all'origine dello stile ci fosse lo sforzo di ottenere solitudine e silenzio, di destituire di senso e d'importanza il discorso nel quale si è biologicamente e storicamente iscritti, la volontà di una spoliazione. In questo senso, lo stile - non solo uno stile letterario, o artistico in generale, ma anche uno stile di lavoro intellettuale, la direzione e il modo di un percorso mentale, con il suo entrare e uscire dalla consapevolezza, il continuo cortocircuito di livelli, i suoi tempi morti, e deviazioni - è l'esatto contrario della pos1z1one. La posizione di Jane Austen è quella di una benestante inglese, vissuta a cavallo tra il Settecento e l'Ottocento, che conosceva il senso, e le regole, del denaro e della conversazione, e sapeva come l'uno e l'altra si coniugano nel matrimonio. È la posizione di chi da lontano percepisce che nelle periferie cittadine invase da giganteschi utensili meccanici mai visti prima, conversazione, denaro e matrimonio sono vittime di una irreversibile mutazione. È la posizione di una donna che ha preservato il suo corpo, e forse in qualche misura la sua conversazione, dal contagio delle regole del gioco, e si è claustrata in uno sterile spazio filiale, o di parentele oblique, in quel salotto dove i servitori non decifrano il gesto della sua mano, del resto solo il poco interessante, poco produttivo gesto di una zitella. ' E infine un corpo femminile cautamente, intermittentemente piegato verso un foglio, a smentire perentoriamente quanto affermerà Virginia Woolf un secolo dopo: «Che cos'è uno scrittore? Una persona seduta davanti a un tavolo, con lo sguardo attentamente fisso su un dato oggetto». Quella di Jane Austen è una posizione femminile: molto di questa posizione si riversa nei suoi testi, nelle sue funzioni. Ma è ben altrimenti arbitrario cercarne una precisa traccia nello stile, che taglia obliquamente la rappresentazione. Per questo, riesce difficile considerare il lavoro intellettuale e il suo stile (non solo quello delle pratiche artistiche) come portatore della differenza sessuale, soprattutto se il soggetto di questo lavoro non si vuol vedere, o riconoscere, come nel mio caso, in quell'io «erculeo» che Hillman contrappone all'io «ermetico». Un soggetto forte, orgoglioso di assumersi il lavoro come fatica da superare-superata, dall'identità, anche sessuale, progressivamente chiara, un soggetto che enumera le proprie attività e risultati, e enumerandole le segmenta e si segmenta, un soggetto infine che divide il mondo dei vivi e il mondo dei morti - di quanto è infero e buio e indicibile - con rigore e convinzione. Un soggetto lontano da Hermes, dio slittante e capzioso di ogni sorta di commercio, incurante dell'alto e del basso, insensibile alle barriere tra vivi e morti, nomade dalle molte identità e dalle molte risorse.
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