S i fa partire abitualmente la filosofia o, come Aristotele ci ha insegnato, da Talete, quindi dalla costitutuzione di un sapere, oppure dalla interrogazione socratica, ossia dalla messa in crisi del sapere. Nell'oscillazione fra questi due poli la filosofia occidentale ha proseguito il suo secolare cammino. Ma, accanto a Talete e a Socrate, i capostipiti, si affacciano e fanno eco due figure di donna molto diverse fra di loro, ma accomunate dal fatto che parlano una lingua assente e i cui gesti risuonano nel cuore vuoto delle parole dei sapienti: una serva tracia e Diotima di Mantinea. La prima, «spiritosa e graziosa» (come la ricorda Platone nel Teeteto) fa riecheggiare la sua risata quando Talete, guardando le stelle alla ricerca di un sapere "innegabile e non fallace, cade nel pozzo. Nell'apertura di senso del riso di un'antica tragedia, essa dice l'infondatezza della pretesa assoluta di fondamento: risata indecente che rivela il pregiudizio fondamentale del pensiero che crede che l'origine possa avere luogo. La seconda, Diotima la straniera, esperta delle cose d'amore ma non presente al Convito sull'amore, e l'origine assente del discorso socratico, l'unico interlocutore di Socrate che mantiene nei suoi confronti l'interrogazione. Queste due figure femminili, a lato del cominciamento della filosofia come atto di presenza del pensiero, si collocano nel luogo atopico di un'antichissima alleanza nella traccia dell'altro, laddove il pensiero si rapporta al non-sapere, al senza-fondo della perdita e il discorso rivela ciò che lo separa da quanto lo eccede. Esse si ricollegano segretamente alla figura della Sfinge mantenendo con essa un intimo colloquio; si rifanno a quel pensiero ambiguamente concettuale, enigmaticamente lucido, che non si chiude in sé ma che rimanda - nella sua domanda perenne che non si iscrive sotto alcuna tutela - all'altro, all'alterità che passa aprendo all'infinito parole e pensieri, redigendo il senso dimenticato che rende possibile il logos, conservando la spaziatura e lo scarto, l'interrogazione e il poema che non dice mai in proprio. «Coloro che trascorrono insieme tutta la vita - dice Diotima - non saprebbero neppure cosa vogliono ottenere l'uno dall'altro: nessuno potrebbe credere che si tratti del contatto dei piaceri amorosi (... ) l'anima di entrambi vuole qualcos'altro che non è capace di espriFeritad'esseremere e parla per enigmi». Enigma del dire come luogo di spossessamento (così come il riso-e l'amore), pensiero che non sta nella risposta definitoria di Edipo. L'enigma, il domandare in generale come apertura di senso originario, vive in un terreno di non concettualità definita, alimentandosi di parole che non esprimono che la depossessione, il rinvio ad altro, rivelando una ricchezza di riferimenti polisemici intrinseci al mondo della vita, che rappresentano l'alone indicibile del dicibile, i presupposti impensabili di ogni pensato. L'enigma non è qui una categoria ontologica perché l'essere non vi è considerato come rivelatore, né si dà come essere nascosto o come aspetto velato dell'essere per altro manifesto, ma come annuncio di un'incertezza del referente, come irruzione di ciò che non è, ossia che non ha forza d' essere, non ha carattere, non si presenta identico a se stesso, nella sua piena trasparente coscienza di sé, in ultima analisi non è Idea. È pensiero dialogante con la Sfinge in un «infinito intrattenimento» come il rivolgersi all'ignoto della vita per il nascituro e della morte per il morituro e che non si modula a partire dai nomi che consacrano un'identità, ma dallo scarto stesso fra il corpo e il nome sempre già inquietato dall'altro nella sua incolmabile inattualità. Q uanti altri sensi possibili sono sprofondati con la Sfinge, impossibilitati a presentificare alla risposta univoca di Edipo? Nel suo assentarsi la donna l'ha forse seguita sul filo di un pensiero, o forse di un sogno da esercitare in stato di veglia, che tenta di pensare ciò che si ritira dal pensiero stesso e dai suoi simboli. Certo, quest'ultimi sono necessari alla cultura, nessuno vuole metterlo in dubbio, ma essi sono fatti per . unire e vivere insieme senza amarsi, in un rapporto freddo ed è da ciò che la donna vuole evadere o ritirarsi rifugiandosi nella sua afasica solitudine. Quello che il pensiero filosofico ha sempre temuto non è tanto l'altro come corpo, l'altro come identità o come sostanza, l'altro essere, con questo ha sempre saputo giocare sul suo campo e vincere brillantemente attraverso la dialettica, la lotta per il riconoscimento, la gerarchizzazione. Il problema dell'alterità si è posto fin da Platone; non è tanto quindi il fatto che la filosofia non ne ha fornito una risposta, quanto che non l'ha Rose/la Prezzo considerata come interrogazione, come messa-in-questione, riducendola all'alterità-relativa-del-Medesimo. Così pure la teoria non ha semplicemente e semplicisticamente cancellato o dimenticato il corpo, ma ha attuato un'abile e sottile manovra: lo ha gerarchizzato attraverso i suoi sensi facendo di quello più «puro» e più «nobile» (la vista) una metafora della conoscenza stessa, metafora sostituita nel nostro secolo da quella auditiva (I'«ascolto» heideggeriano). Quello che la filosofia non ha mai tollerato è l'impuro, il polimorfo, l'ambiguo, la mescolanza: la pluralità irriducibile al proprio e cioè le qualità dell'alterità. Se «l'uomo è la sentinella dell'essere» - secondo la nota formula heideggeriana - e riveste quella funzione obbligatoria che, una volta definito il limite fra dentro e fuori, lascia passare l'estraneo, l'eterogeneo solo previa parola d'ordine, la donna è la custode di ciò che avviene senza essere. ' ' . E questo paradosso, in cui bisogna innanzitutto accettare di permanere senza risolverlo, che va interrogato e che aspetta ancora di essere coniugato. Ma questo può essere fatto solo da chi, accettando di far tacere il dicibile della presenza d'essere accoglie un mondo assente non per dire il linguaggio di un senso dell'essere e del proprio, ma il senso di un linguaggio dispensato dal presentarsi come obbligatorio e necessario discredito di ciò che avviene senza essere. Pensiero questo che non fonda una storia ma che si ripercuote nella storia di nomi impropri, ferita sempre aperta dall'improprietà del nome, dalla forza «confusiva» che dice l'indefinibilità: la donna resta nell'interrogare senza nome, nel pensare all'infinito, nell'ambiguità che non è aporia, dove la parola, compagna ancora del corpo desideroso e ridente, si presta a differenti sensi, giocando con una necessaria compiacenza del linguaggio. Luogo di «tensione originaria» - per usare una formulazione della Kristeva - (tensione fra momenti che non possiamo non pensare in qualche modo insieme e che si escluderebbero a vicenda se si pensassero nella forma esplicita della definizione), paradossalità, ambiguità (dire ciò che si ritira dal pensiero ma che non si può tacere) che la teoria, spinta dalla fretta di concludere magari per poi poter ricominciare, non tollera in sè: oggetto perduto per la storia, che non ha una propria storia non solamente perché è stato represso o negato, ma più profondamente perché la sua storia non è quella del proprio. S e la donna è colei che non nomina, che non si rappresenta, che rimane al di fuori della nominazione, questo non va puramente visto come l'aspetto negativo, l'alienazione da superare per conquistare un proprio (senso, verità, sostanza, identità), perché ciò è quello che da sempre ha fatto la storia secolare del pensiero insolvente nei confronti della Sfinge. Se la donna non va nell'essere, ma per lei piuttosto «ne va dell'essere», è perché in lei vi è una solidarietà con il movimento che disfa la simmetria fra il nome e il proprio, l'alleanza con l'essere, in favore di una metaforizzazione ed un rimando ad altra significazione. Se la donna è estranea alla coscienza trasparente a sé è perché questa può darsi solo purificandosi attraverso un'esclusione e un ordinamento dei segni e dei sensi, attraverso la riduzione del far segno altrimenti al senso proprio. Se c'è un proprio della donna questo è l'irriducibile di uo fuori nel più intimo di sé. Il tessuto, il maquillage, la danza danno eccellenti modelli di conoscenza e d' «identità» della donna. La stoffa ha in sé l'ordine e _l'ornamento, l'ordito della trama e il vuoto attorno a cui il filo s'intreccia, l'adattamento insieme alla grazia. Nel maquillage tutti i sensi disegnano la mappa della percezione in un rimando interno reciproco che è anche un appello all'esterno: colorato il luogo della parola e del gusto, marcato l'occhio e lo sguardo, segnalato l'udito da un orecchino, evidenziata da anelli la tattilità della mano. Qui una legge singolare retta dalla parvenza intreccia i sensi: non maschera ingannevole ma paesaggio che rende visibile la sua invisibile carta d'identità, ribelle ad ogni neutralità del soggetto. Così pure, al contrario del gioco di competizione dove il corpo tende a superare se stesso per raggiungere un atto di valore quantificabile e il gesto si trascende in un significato simboleggiato, la danza rimanda solo alla grazia, al fascino erotico del corpo. Riferimento al corpo - come ci suggerisce Starobinski - che non è tuttavia un'ostentazione di esso come il corpo nudo ed immobile. La ballerina, per quanto poco sia vestita, assume un ruolo illusorio, diventando altra. Non si dà una rappresentazione che rivela e svela disponendo al possesso, ma piuttosto un'alienazione rappresentativa, uri' asimmetria costitutiva in cui il corpo è levato a un significato fittizio per poi essere rimandato alla sua fisicità. C'è quindi un continuo andare e venire fra il corpo e la:significazione, che è però illusoria in quanto è pronta a diventare qualcosa d'altro. Ciò che qui si gioca è l'ostinazione di un'esteriorità nella più profonda intimità, ciò che si mantiene è solamente lo scarto. Pensiero della diffenza non nella forma d~lla dialettica o della simmetria. Soggettività che, indipendente dall'alternativa obbligata dell'essere e dall'origine rappresentata come coscienza piena di sé, si fa testimone della sua an-archia. Soggettività che, sradicata dall'assenza, tradisce una tensione fra vita e forma, fra soggetto e altro, fra territorio e suoi confini, fra polisemia e senso. E se questa è la sua verità, potremmo dire con le parole di Pasolini che la «verità non è un sogno ma molti sogni». Pensiero quindi asimmetrico che mantiene il ricordo paziente dell'inattualità della nominazione, il tra'lag!io dei suoi paradossi, l'enigma della sua origine, attraversato continuamente dal passaggio in incognito di ciò che lo eccede. E in questo forse il riso di una serva tracia o il ragionar d'amore di un'etera possono iniziare ad insegnarci qualcosa. Staturaepes,hel~!offle gliuomini I , I secolo che muore, l'Ottocento, lascia al successivo un'eredità culturale avida di veloci soluzioni sul tema donna e i suoi derivati - femminile, femminilità, femminismo ... L'Ottocento aveva scritto intorno alle donne una «storia morale» ,. cioé aveva costruito la possibilità di-mutamento della condizione femminile intorno a virtù morali - nuove, più virtuose virtù, al posto delle vecchie. Nell'altalenante contesa fra vecchi vizi e nuove virtù femminili si seguiva ancora lo stile abituale dell'apologetica cattolica della fine del XVIII secolo, secondo la quale la depravazione dei costumi nasceva dalla corruzione del cuore. Ma già negli ultimi anni dell'Ottocento, accanto al cuore corrotto-meticoloso limitatore dei primi passi dell'immaginario e del simbolico collettivo intorno alla donna nuova - c'è il corpo. L'aggetivazione etica che aveva accompagnato la definizione, descrittiva e normativa del femminile, non viene soltanto dall'anima. Incredibile dovizia di attenzioni è riservata al corpo femminile dagli scienziati sociali che riducono a grammi e centimetri il fine delle loro procedure: la prova della differenza sessuale. Molte sentenze ineluttabili dalla schiera compatta di antropologi, criminologi, scienziati sociali. Aperte però ad inserzioni possibili (benché ancora lontane): non dice Niceforo che la congenita debolezza fisica delle donne potrà cancellarsi grazie ad indomite volontà? Si guardi l'America e le figlie dei miliardari - avanguardia vincente. A furia di sport hanno fatto il miracolo: statura e peso come gli uomini. Anzi, più degli uomini poveri. ~app~amo che. è solo attraverso l'immaginario sociale che una collettività designa. la propria identità, elabora una certa rappresentazione di sé, assegna la distribuzione dei ruoli e delle posizioni socia-
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