Alfabeta - anno VIII - n. 89 - ottobre 1986

I n un breve ma densissimo romanzo, scritto nel 1928, due anni prima della morte, D.H. Lawrence racconta non una storia d'amore, ma quella di un singolare viaggio che una giovane donna californiana, sposata con un uomo di molti anni più anziano di lei, già madre di due figli, sente improvvisamente e irrinunciabilmente di dover intraprendere. La donna che fuggì a cavallo è questo il titolo del romanzo (tr. it. Feltrinelli, 1981), la cui protagonista non ha nome, essa è solo e sempre «la donna» che, dopo il· matrimonio fatto «per avventura» con un ricco proprietario di miniere d'oro e d'argento, va a vivere con lui nelle terre selvagge della Sierra Madre. Qui, per anni, conduce una vita sicura ma monotona e tranquilla, come «assopita» nella sua casa di adobe, dal patio pieno di sole e «la miniera di argento sopra». Intorno, l'isolamento senza vita, il cielo, il luogo nudo: nient'altro. Tutto questo impedisce lo sviluppo della sua coscienza, ne arresta la crescita. Eppure, improvvisamente e inaspettatamente ella «vede» ciò che ha compiuto e si sente «mancare». Un insight improvviso, una·ristrutturazione irreversibile del proprio campo percettivo, dello spazio di consapevolezze: ella «vede» ciò che prima non vedeva. Vede le presunte sicurezze come argini malsani eretti al debordare della vita. Un cambiamento dello stato della mente, un cambiamento di emozioni e pensiero. Quello che è certo è che da quel momento le cose non possono più essere lasciate come stanno. «La donna» non può più restare a casa propria: la sente inesorabilmente e irrimediabilmente estranea. E tuttavia estraneo, indefinito, vago e sconosciuto è anche il mondo esterno, le colline oltre le quali, aveva sentito dire, vivevano i selvaggi indiani Chilchui. Incontrollabile emerge allora l'impulso di andare via di lì, di fuggire a cavallo, da sola, verso le montagne, di interrompere i consueti legami spazio-temporali, di esplorare l'ignoto, di correre il rischio, di andare incontro ad un incerto destino, forse anche la morte, eppure unica occasione di vita, unica occasione di rinascita. Quella che al giudizio altrui appare incauto e incomprensibile rivela, invece, nella manifesta irragionevolezza, un suo fondamento: è la scelta, compiuta nell'apparente silenzio della ragione, di rinunciare alle certezze oppressive e limitanti e diventare nomade, sperimentare lo spostamento, la mancanza, lo sprofondamento, la vertigine. Gli interrogativi riguardano allora non già se seguire o arginare l'impulso, ma quale direzione imporre all'indefinibile e inattesa pulsione stuporosa, ora calma ora eccitata; che colora di luce diversa gli oggetti, le immagini, i luoghi, il mondo. Al ritmo sempre uguale del prima subentra l'alternanza complessa del poi, l'alternanza ingo~ernabile dei sentimenti durante la fuga avventurosa. Alla stasi segue il movimento e al movimento la stasi in una progressione mai prevedibile, mai controllabile. A quel punto, e solo a quel punto, «la donna» si accorge che può udire, vedere, sentire, i colori, i sapori, gli odori, può ricomporre il rapporto tra il suo corpo e il mondo, può provare sbigottimento, rabbia, paura. Anche se ciò che accadrà tra gli indiani sarà incontrollabile, tragico, trasfigurale, contrapposizione violenta tra eros e volontà. H o pensato alla intensa metafora del viaggio come esperienza erratica di decostruzione e ricostruzione del proprio mondo mentale, nel racconto di Lawrence, in rapporto alla specificità del percorso analitico e alla peculiarità della presenza femminile nel campo della psicoanalisi. Intanto perché l'esperienza dell'insight, legata all'interpretazione, costituisce un momento fondante dell'analisi, il ribaltamento delle «verità» difensive del soggetto: a voler illuminare a ritroso un percorso di crescita e di cambiamento all'interno di un itinerario analitico ci si imbatte inevitabilmente in un punto critico che precede un mutamento di stato della mente, un punto in cui una situazione psichica non è più quella di prima ma non è ancora quella che sarà dopo. Incomincia a delinearsi solo di lì una nuova via, una nuova direzione degli eventi, incomincia di lì a configurarsi, per il soggetto, la propria unicità e la propria differenza. Poi perché l'esperienza analitica, fondata sull'interpretazione del transfert e del controtransfert, rappresenta la delicata tessitura di una trama comune, al paziente e all'analista, di incertezze, inquietudini, smarrimenti, trapidazioni, dolore. Una tessitura all'interno della quale è incisa molto fortemente la presenza femminile nella storia della costruzione teorica psicoanalitica. Una presenza che appare indubbiamente legata al valore propulsivo attribuito al momento originario della separazione, alla esperienza dolorosa dell'incertezza, e allo scandaglio di quel punto inevitabile di rottura che, alle origini della vita psichica, e poi in analisi, avvia alla differenziazione e alla crescita. Penso ad esempio al fecondo spostamento all'indietro, alle origini del rapporto con il corpo della madre, impresso alla ricerca psicoanalitica da Melanie Klein. Da un altro punto di vista mi chiedo anche in che modo la scelta della pratica analitica per una donna si possa incrociare con il senso più profondo che, alla distanza, è possibile attribuire ai percorsi compiuti dai movimenti femminili in questi ultimi decenni. D'altra parte è sufficiente uno sguardo retrospettivo alle vicende delle don; ne, ai loro itinerari, alle tematiche sollevate, per comprendere come essi appaiono percorsi da una costante interrogazione: come riformulare la propria identità al di là del «nome del padre», come superare· la paura dell'anonimato 1 . come ribaltare, attraversando l'inevitabile angoscia delÌa separazione, certezze e «verità» supposte tali, come fronteggiare la paura di smarrirsi. ' E forse lo stesso filo che unisce lo spaesamento, come unica occasione di crescita, del personaggio di Lawrence, alle fondamentali riflessioni di Wilfred Bion che costituiscono uno dei punti più avanzati della ricerca psicoanalitica recente. Bion, infatti, affonda il suo scandaglio nei meandri oscuri (che) avvolgono la paura di affrontare il cambiamento, la paura di non poter più controllare gli eventi, la paura dell'ignoto. Il momento aurorale della crescita dell'Io è teorizzato da Bion come «cambiamente catastrofico», punto in cui, in analisi, ma anche in ogni processo di conoscenz-a, l'idea nuova viene accolta e può imprimere una ristrutturazione vitale al pensiero, può consentire al soggetto, durante il percorso analitico, di procedere verso la propria differenziazione e la propria crescita. Non senza resistere alla potente spinta regressiva ad occultare l'esperienza dolorosa dell'abbandono di ciò che è noto, non senza superare la tendenza ad «evacuare» il dolore, come dice Bion, al fine di evadere la perdita implicita m ogni passaggio di stato. È con Bion, infatti, via Klein, che la teoria psicoanalitica, al confronto con il ·rapporto tra cono- ~-~nza e dolore, mostra con chiarezza come ogni nuovo processo di crescita tragga origine da esperienze primitive di carattere emotivo in relazione all'essenza dell'oggetto e al modo in cui tale assenza è stata elaborata e vissuta e ad essa rinvii. E come abbia a che fare, perciò, con la capacità di tollerare l'incertezza e !'-ansiadel non noto, di reggere l'incoerenza e la confusione tendendo al punto in cui, ad un nuovo stadio nel percorso analitico, la propria realtà psichica si mostra un po' più comprensibile. La costruzione in analisi appare allora, in altri termini, alla luce ad esempio della teoria degli insiemi infiniti di Ignacio Matte Bianco, come un progressivo svestire «le persone, le cose e le circostanze del loro significato concreto facendoli apparire più di quello che sono in realtà. È in breve uno svestire o togliere via dall'individuo non sarebbero nella realtà, cioè entità circoscritte m cui l'alone della classe non interferisce con il loro significato significato concreto facendoli apparire più di quello che sono in realtà. È in breve uno svestire o togliere via dall'oggetto concreto l'insieme infinito in cui fa la parte dell'ospite» (I. Matte Bianco, L'inconscio come insiemi infiniti, Einaudi 1981, p. 206). Un passaggio, non senza dolore, dalla confusione alla differenziazione, attraverso 1 luoghi vaghi della transizione. Elogio dell'incertezza, elogio del valore creativo del dubbio, del discontinuo. In sintonia, del resto, con l'intento più significativo della teoria psicoanalitica, intesa come teoria della conoscenza, come Freud l'aveva immaginata. Non è, forse l'esperienza analitica, nella sua peculiarità, a porsi come percorso che accetta sul suo terreno le incertezze, i limiti, l'ignoto, la separazione? Non è l'esperienza analitica, così bene sintetizzata da Freud nella metafora archeologica dello scavo, a fare dello spostamento, dell'erranza, dell'attesa, dell'ascolto, lo strumento del suo stesso costituirsi come teoria e come pratica? S e lo spazio analitico si mostra dunque come un luogo appropriato e favorevole all'espressione della propria specificità e all'affermazione del valore creativo dell'erranza, e il lavoro analitico come un campo privilegiato per proporre e rifondare un nuovo modello di rapporti tra i soggetti, mi sembra allora che la scelta psicoanalitica per la donna, priva di connotazioni estremistiche e al riparo da istanze radicalizzanti, consenta di avanzare con fortuna lungo la via, apparsa così ardua a Freud, dell'esplorazione di quel mondo oscuro, di quel «continente nero» che è la femminilità. È a partire dalla Klein, è noto, che il percorso ha conosciuto una deviazione all'indietro, verso l'esplorazione dei• primordi della vita psichica, alle orgini del rapporto con il corpo della madre, alla ricerca delle tracce, dell'eco .di una voce da sempre sottratta alla presenza, alla scoperta dei segni che la separazione originaria ha impresso al femminile. Alla ricostruzione cioè di quel percorso segnato dal lutto della perdita e dall'inevitabile vagare nei luoghi impervi della differenziazione. È il filo che unisce il significato simbolico dell'esperienza analitica -alla scelta compiuta dalla «donna» di Lawrence: l'idea del viaggio come metafora della ricerca di sé, come sfida audace e incomprensibile all'ordine apparente, alla stabilità, alla regola, «visti» improvvisamente come mortiferi, come argini angusti eretti alle inesplorate pulsioni di vita. In questo senso «la donna che fuggì a cavallo» tenta il viaggio nel profondo, fino alle parti psicotiche di sé, dentro un mondo sconfinato e fino ad allora negato. Alla ripetizione paralizzante e illusoriamente rassicurante, agli autoinganni tessuti nel proprio quotidiano, ella oppone la sua scelta nomadica, accetta l'Ìncertezza, si apre al possibile, all'incomprensibile. Nell'incontro con la pluralità dei per.corsi femminili mi sembra dunque che la specificità e la differenza della donna all'interno del campo psicoanalitico possa rafforzare il carattere erratico e mai conclusivo della ricerca, ribadire il valore costruttivo del dubbio e mostrare come non sia possibile eludere lo smarrimento né evitare i luoghi di confine tra immaginario e reale. La scena è quella in cui il soggetto donna, unico e irripetibile ma al tempo stesso classe, per adoperare i concetti teorici di I. Matte Bianco, prende atto della sua impossibilità di evitare l'angoscia, la separazione, e, liberandosi via via delle cortine difensive calate sul suo sguardo, acquista progressivamente forma, può «vedersi», e consentirsi di vagare nello spazio creativo, come dice Freud ne Il poeta .e la fantasia, tra «passato, presente e futuro annodati al filo del desiderio».

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