Alfabeta - anno VIII - n. 89 - ottobre 1986

donna sono alcune delle parole che spesso incontro, significanti scivolosi, sfuggenti, non facilmente fissabili a dei corpi concreti. C'è sicuramente un significato nascosto lì dietro, ma è difficilmente incarnabile, anche se potrebbe apparire il contrario a uno sguardo della superficie. Sono certamente, uomo e donna, delle opposizioni primarie, che danno intelaiatura al mondo reale; la nozione di realtà che noi abbiamo presuppone certamente questa trama di parole. Ma se una cosa ho imparato dal lavoro che faccio è per l'appunto che le persone reali incarnano ben poco di quei significanti. Il che è un altro modo per dire che se c'è qualcosa di assolutamente inammisilabile al significante, questo è proprio l'esistenza singolare del soggetto. Perché c'è il soggetto? Da dove viene? perché deve sparire? Queste domande incrinano l'ordine stesso del significante e rivelano, credo, esattamente ciò che ho tentato di dire nel mio ultimo libro, non a caso intitolato Nomi: di un essere che desideriamo comprendere possiamo in realtà alla fine dire appena come si chiama, e identificarlo con il suo nome proprio, di persona - e poco più. E qualora ci scomodassimo a inscriverlo in significazioni più ampie, più comuni - uomo e donna, ad esempio - dovremo al fondo confessare quanto poco esse ci servano a comprenderlo. Perché di volta in volta dqvremo piuttosto spostare il punto di domanda sul come: come è donna, quella donna? e come è uomo, quell'uomo? E troveremo che siamo tutti presi in un gioco di anamorfosi, sempre spostati, sempre obliqui, sempre almeno in parte fuori posto. Questa è la condizione dell'uomo e della donna moderni. E allora, !a domanda c~e tu fai e me s1 presenta cosi: come sono donna, io che sono un(I donna? Quanto incarno di quel significante nel reale? La verità è che io non scopro interrogandomi se non una penosa distanza, un fondamentale smarrimento rispetto a quel nome comune di donn(I: ed è l'avventura in questo smarrimento, o errore, che mi definisce. in modo assolutamente decentrato rispetto al punto nodale di quella domanda. E questo accade non so;o a me, in quanto donna; io scopro questo gioco di complicità/estraneità in ogni soggetto, rispetto alla legge che lo vuole identificare. L'identità sessuale oggi più che mai è un miraggio, e qualora si dia come compiuta, essa (, effetto, io credo, di un fondamentale misconoscimento. Perché in verità io non vedo che esperienze di eccesso o di difetto rispetto al polo maschile, o femminile. Ciò che scopro è, in altri termini, che il sapere della differenza sessuale, il sapere dunque della sessualità, è nella sua essenza ciò che nell'esperienza veniva a conoscere di questa radicale, disperata. distanza da una sicura identità basata sul sesso. La nostra sessualità. è evidente, non è un dato che possiamo desumere da un fondamento biologico .. Noi non siamo animali, e a differenza di loro, che hanno la propria immagine dentro, a noi l'immagine viene da fuori. È un riflesso. È specchiandoci l'uno nell'altra che noi ci riconosciamo. Perfino se siamo maschio o femmina lo sapremo dall'altro. Del resto, tra le libertà che abbiamo immaginato per noi non c'è anche quella di poter scegliere la nostra sessualità, invece che accoglierla come una marcatura biologica? Certamente noi sappiamo che l'anatomia concorre a determinare il nostro destino sessuale, ma sàppiamo anche di potervi intervenire con la nostra fantasia, il nostro linguaggio. Della sessualità cioè noi abbiamo creduto, e non lo crediamo forse ancora? di poterne fare un fatto di stile. E dunque abbiamo detto che è ritagliandoci tali nel linguaggio che diventeremo uomini o donne; e ci scopriremo così femmina o maschio a seconda che prenderemo l'una nel confronto con l'altro (l'altra) la posizione della parata o della mascherata. Dovendo analizzare il mio modo, quando lavoro - io credo di essere senz'altro l'animale femmina in questo: nel mio lavoro, il plus de jouir che me ne viene è certamente non nel senso della vanità spettacolare gloriosa del pavone; ma è piuttosto nel registro più pudico, più segreto, della mascherata. È godimento dissimulato, piuttosto che esibito: o l'esibizione è appunto della maschera, che certo può essere mostrata - ma appunto perché, cioè una «mascherata». I due versanti, maschile e femminile, della sessualità li intenderei dunque come la direzione, o la piega, che il nostro corpo animale prende in relazione al proprio godimento, rispetto a un individuo di sesso opposto, o simile al proprio non importa - perché in questo campo domina incontrastato il potere del fantasma. E noi possiamo attribuire o togliere organi a un fantasma. La realtà del sesso è evidentemente intessuta a una trama di significanti, dai quali la nostra presenza di corpo animale è introdotta a un registro non più naturale, attraverso una torsione inevitabile: questo lo sappiamo. Ma oggi sappiamo, credo, qualcosa di più, ed è una conoscenza che pesa, perché disarticola molti dei nostri modi di vivere e pensare ma la verit;1 è forse che noi non ahhiamo oggi i nomi per nominare la differenza sessuale. Forse dovremmo avere il coraggio di dirci che la differenza sessuale non c'è, per parafrasare una frase tanto incompresa del vecchio maestro. Certamente non la troviamo più lì dove eravamo solite pensarla. La nozione di oppressione, ad esempio, non la esprime più, né più la comprende. Abbiamo anche oltrepassato quella sorta di realismo psicologico che faceva corrispondere a certi organi contenuti emotivi o ideologici o di percezioni intellettiva differenti. Private di quelle risposte, ci troviamo oggi spoglie di ogni mito, e laddove nominiamo la differenza attribuendole contenuti di qualsiasi genere, ho l'impressione che sia pura nostalgia. Non credi? F orse per noi oggi differenza è un nome metafisico; alla fine solo un modo per dire l'impossibilità del nome, dell'identità, della proprietà. Io credo che ci voglia molto coraggio per arrivare a questo punto, dove non c'è risposta alla questione. Certamente, questo non ci lascia tranquille, ma i nostri giorni non sarebbero comunque tranquilli, neppure con delle vecchie risposte. E vero.che c'è gente a cui la risposta viene prima addirittura della domanda, ma per altri la questione continua a interrogarli, oltre la risposta, con l'evidenza del vuoto che non riesce a colmare. Il quale vuoto, del resto, siamo noi ad averlo fatto. Perché in questi ultimi anni molte di noi (donne, intendo, che si chiedono: che cos'è la donna) hanno compiuto un'operazione il cui effetto cominciamo oggi a sentire; hanno cioè voluto eliminare il significante donna. È comprensibile, del resto: in una cultura dove il femminile è l'immagine mutilata della potenza, corpo che incarna la minaccia della privazione, della mancanza, del vuoto-- chi può volerne assumere il nome? Queste donne hanno dunque pensato che fosse giustizia eliminare la nozione stessa di donna: in quanto significante che prende forza e senso attraverso una opposizione semantica che comunque perpetra, esse dicono, una dualità in cui l'essere dalla parlL' della donna comporta oppressione e disvalore. C'è chi ha coerentemente esplicitato questa posizione fino a sostituire al nome donna (fissato semanticamente in quella relazione all'uomo che abbiamo definito di schiavitù), il nome lesbica - che sarebbe nozione che rinnega quella negazione, rinnegando l'eterosessualità. In certo senso, rovesciando l'antico rapporto di padronato, lesbica sarebbe la parola che dice che il sesso è uno, ed è appunto lesbico. Altre di noi hanno invece tentato di affermare l'orgoglio di quel corpo mancante, positivizzando un negativo con prepotenza fallica. Io sono forse piuttosto tra queste, ma capisco sia la fallacia che la potenziale debolezza di tale posizione. E mi chiedo se l'evocazione della differenza sessuale (che, è evidente, nel primo caso sparisce; e nel secondo caso si regge soltanto su una volontà, nel suo fondo etica, di mantenere il gioco delle opposizioni fondamentali come l'unica trama a cui sospendere l'intreccio di nomi, con cui continuare a narrare le nostre esistenze come esistenze doppie, conflittuali ... ); mi chiedo appunto se l'evocazione della differenza non sia l'ultimo colpo di coda di un pensiero che non sa più articolare dei contenuti di verità rispetto a due corpi totalmente irretiti o in una sete ancora di vendetta, o in una alienazione narcisistica. Cara Marisa, credi che sia un temporaneo pessimismo che mi porta a pensare così? O più seccamente, l'impasse di una difficoltà che non so incontrare? Ma è vero, ho scelto di risponderti, e allora ti dirò un'ultima cosa, dando fondo a ciò che oggi mi riesce di pensare. La differenza sessuale, a me pare che per parlarne con sapienza si tratterebbe di ri-nominarla come un diverso destino dei due tipi sessuali, il tipo-maschio e il tipo-femmina, direbbe Lou Salomé. Fino almeno all'inizio di questo secolo la differente destinazione dei due tipi è stata all'inizio di questo secolo la differente destinazione dei due tipi è stata chiara: non credo che sia necessario ripercorrerne le figure ma consiglierei una lettura che recentemente ho ripreso, le lettere di Kleist alla fidanzata. Possono dare un'idea di quale forza avesse nel passato la differenza uomo/donna; come una cultura potesse esprimere attraverso di essa tensioni essenziali, nude ed elementari - decisive. Q uella differenza caduta, o eliminata, come tornare dalla parola alla carne? È come se la parola avesse cancellato la carne; come se le parole non disegnassero più, ogni torsione, o tormento in più, che dobbiamo sopportare per orientarci in quella turbolenza che ha inquinato il nostro rapporto a certe parole (uomo, donna) che usiamo, ma non hanno più la forza di un destino. Perché non c'è più in esse il senso di una destinazione. Il mio lavoro, ti dicevo all'inizio, consiste - in questo forse non c'è tanta distanza tra noi due - nell'ascolto di ciò che avviene nei paraggi dell'incontro tra un soggetto col significante. Cercando di cogliere quanto avviene in rapporto a quell'avventura per dei soggetti che rispondono al nome di donna, mi è parso che la differenza non fosse poi appunto che una questione di stile. Questione cioè di come un logos letterale fa presa su un corpo animale, segnandolo con una iscrizione che, dal modo in cui quel corpo la riceve o la contraddice, a me pare che mostri così, nel modo appunto dell'assunzione, un sapere della differenza difficilmente articolabile In un contenuto, come sempre del resto ogni fatto di stile. Perché il sapere che trapassa in stile che altro è se non rinuncia ai grandi sistemi discorsivi, e invece incarnazione nell'evidenza concreta di un gesto, o una scelta? Esaltazione cioè della singolare esperienza, che mette così in scacco quei significanti più generali che quell'unicità non sono in grado di comprendere? È questo poco ciò che riesco oggi a dirti, cara Marisa. Ma potremo riprendere a parlarne, più avanti. ADELPHI Leonardo Sciascia 1912 + 1 « Fabula », pp. 104, L. 12.000 Danilo Kis GIARDINO, CENERE «Fabula», pp.188, L.16.500 G~orges Simenon L'UOMO CHE GUARDAVA PASSARE I TRENI « Biblioteca Adelphi », pp. 212, L. 16.500 VITA DELL'ARCIPRETE AVVAKUM SCRITTA DA LUI STESSO A cura di Pia Pera « Biblioteca Adelphi », pp. 244, 2 tavv. f.t., L. 25.000 Alexander Lernet-Holenia LA RESURREZIONE DIMALTRAVERS « Biblioteca Adelphi », pp. 228, L.18.000 Frederich Prokosch GLI ASIATICI « Biblioteca Adelphi », pp. 364, L. 25.000 Ernst Junger UN INCONTRO PERICOLOSO Seconda edizione « Biblioteca Adelphi », pp. 200, L. 16.500 Edgar Wind ARTE E ANARCHIA Nuova edizione riveduta «Saggi», pp. 252, 16 tavv. f.t., L. 22.000 Henry_Corbin CORPOSPIRITUALE E TERRA CELESTE Dall'Iranmazdeoall'Iransciita « Il ramo d'oro», con tre tavole a colori, pp. 336, L. 35.000 Karen Blixen IL MATRIMONIO MODERNO « Piccola Biblioteca Adelphi », pp.112, L. 7.000 SIR GAWAIN E IL CAVALIERE VERDE A cura di Piero Boitani Con un saggio di Ananda K. Coomaraswamy « Piccola Biblioteca Adelphi », pp. 190, L. 14.000 L'EPOPEA DI GILGAMES A cura di N.K. Sandars « Piccola Biblioteca Adelphi », pp. 166, L. 9.500 Louis Dumont LA CIVILTÀ INDIANA E NOI « Piccola Biblioteca Adelphi », pp. 162, L. 9.000

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