Alfabeta - anno VIII - n. 89 - ottobre 1986

re L'articolo di Marinella Guatterini «Il passato del futuro» (Alfabeta, n. 86-87, p .. 10), pregevole per quanto riguarda l'analisi della danza futurista, richiede invece qualche chiarimento per la maniera in cui mi chiama personalmente in causa. Il progetto «Il Passato al futuro», concepito dal direttore artistico della Fenice Italo Gomez in sincronìa con la mostra «Futurismo & Futurismi» di Palazzo Grassi, è articolato in tre sezioni: una serata futurista a carattere antologico, svoltasi il 3 maggio; una serie di undici spettacoli (balletti, pantomime, cabaret, perlopiù riferibili al clima parigino degli anni venti), attualmente in corso; e una stagione musicale prevista per settembre, in cui, come riassume efficacemente la Guatterini, il rumorismo futurista sarà accostato al microtonalismo amèricano. Ognuna di queste tre sezioni è corredata da una pubblicazione specifica. Io mi sono occupata esclusivamente della ricerca e della pubblicazione dei materiali, spesso inediti, relativi alla seconda sezione, ed è quindi solo a ques'ultima che si riferisce ovviamente la mia prefazione alla raccolta degli stessi, pubblicata da Bompiani per conto dell'ente veneziano. Perché ho scritto che l'impostazione di questa sezione - e di questa soltanto - risulta «garbatamente polemica » rispetto alla peraltro benvenuta rivalutazione del futurismo, operata a Palazzo Grassi? Perché l'analogia di taluni presupposti de~'estetica futurista con certe proposte parigine di tutt'alS embra un periodo fortunato per l'opera lirica, specialmente per quella italiana del- /' Ottocento. In tutto il bel paese ·domina ormai il bel canto, e il patito ha da scegliere fra cento appuntamenti con spettacoli spesso ad alto livello. Inoltre, il cinema e la televisione stanno dedicando ali'opera italiana dell'Ottocento una enorme attenzione, specialmente se mettiamo a confronto la situazione presente con quella passata, quello che avviene in Italia con quello che avviene all'estero. Esiste però ancora una particolare prevenzione contro il melodramma (che perdura sia tra il pubblico grosso che fra gli intellettuali, come si è visto recentemente nel/'affascinante colloquio fra Umberto Eco e Luciano Berio sull'Espresso del IO agosto) che mi pare non sia stata finora discussa: l'incapacità di affrontare «seriamente» l'elemento «ridicolo» de~'opera italiana tra Rossini e Puccini. Ma il punto di partenza di ogni discussione su~'argomento potrebbe anche vertere sul concetto di sublime (perciò sul versante opposto a quello affrontato da Eco e Berio). Un paio di anni fa non si parlava che di sublime e fervevano i congressi su questo concetto. Ri- °' <'..:I pensando a quelle esperienze, mi <:::$ i.= sembrava che fosse mancato qual- -~ cosa.alle discussioni, anche se non t::i... riuscivo esattamente a localizzare g! l'assenza più cospicua. In questi ....... ~ giorni, girando per l'Italia tra fe- -e stivai e festival e assistendo a vari s ò spettacoli operistici, mi è sembra- °' to di capire che alla discussione oO sul sublime fosse mancata la dii.= S scussione parallela sul ridicolo. E ~ qui giova una premessa: per quantra matrice non appare, nella maggior parte dei casi, come l'effetto di vasi comunicanti o di influenze reciproche, ma avalla piuttosto il sospetto del Candide di turno, secondo cui non sarebbero i movimenti artistici a sfornare man mano le nuove idee, ma sarebbe piuttosto l'evoluzione naturale delle idee a produrre le tendenze, anche individuali destinate a sostenerle. Una conferma indiretta di quest'assunto sembra curiosamente venirci proprio da Marinetti, attraverso il manifesto Le Futurisme mondial, pubblicato in francese a Parigi, nel gennaio del 1924 (e riprodotto nella mia raccolta a p. 33), in cui sono elencati, insieme ai «futuristes déclarés», oltre cento «futuristes sans le savoir», tra i quali trÒviamo - e ciò detto a lode della straordinaria intuizione del nostro - praticamente tutti i nomi che lasceranno la loro impronta nel secolo; alcuni (per esempio Borges) solo molto più tardi. Passando ora a qualche punto più particolare de~'articolo della Guatterini, mi permetterò di contestare - benché non stia a me difendere il progetto di Italo Gomez - l'affermazione secondo la quale, per i suoi caratteri folkloristici, la scelta di Cuadro flamenco, in questo progetio sarebbe «davvero opinabile». A prescindere dal fatto che la rivalutazione delle tradizioni po-. polari si inquadra perfettamente. nel processo di dissoluzione degli schemi culturali delle c/Òssidominanti operato da tutti i rrJOvimenti d'avanguardia va notato - nel caso particolare di Cuadro flamenco - che la singolarità di questo spettacolo non consiste soltanto nel- ['avere pe_rmessodi presentare, per la prima volta degli art,stl presi dalla strada in un teatro bourgeois (e a Parigi poi, dove la suddivisione dei luoghi teatrali in funzione dei generi è stata così a lungo sottoposta a una regolamentazione ferrea), ma anche nell'avere proposto per una rappresentazione a caratterepopolare la messinIlsublimen@,J~9pleiraica blime trova la sua espressione più compiuta, o quella che più mi soddisfa, ne~'opera lirica; in particolare in Verdi; e forse nel Trovatore più che altrove. Si tratterà certo di un sublime degradato, volgare, impuro, grossolano: ma sublime lo è, almeno per me. Ad altri le esperienze più stratosferiche dove il sublime è più ossigenato: Bach o Mozart o Monteverdi o Schubert o le ultime sonate per pianoforte di Beethoven. Ma nessuno potrà convincermi che la mia ricezione del Trovatore non riguardi il sublime: lo sanno le mie orecchie tese, i miei occhi sbarrati, la mia pelle d'oca; lo sa il ciuffo di peli sulla nuca che per Benedetto Croce è il luogo privilegiato della emozione estetica; lo conosce il mio stomaco contratto; lo sanno le mie parti genitali che sono in agitazione; lo denuncia il tremito motorio delle mie ginocchia; lo sa il mio coccige, dove la mia coda assente tende a rizzarsi. Pure nel Trovatore, forse più che in qualsiasi altra opera di Verdi, per dirla con la formula inglese «from the sublime to the ridiculous », «dal sublime al ridicolo», bensì «dal sublime e ridicolo al ridicolo e sublime». se scuse di Leonora: una modulazione de~'ansia e della disperazione che travolge ogni resistenza. Forse solo il wagneriano più bieco (cioè il wagneriano che non amq. Verdi) potrà rimanere insensibile a quest'assalto brutale contro la nostra emotività. «Piangi piangi» dice Germont a Violetta; «Piangi piangi» dicono gli archi allo spettatore in questa scena: ed io obbedisco. Eppure la scena è anche ridicola. lirica (è un plurale che adopero con orgoglio) siamo però più sensibili alla specificità narrativa ed estetica de~'opera l(rica di quanto non pensi Berio. . Quanto· alla reaz_ia'!e'del compositore, BerJ.o,,;_òn·ha scrupoli nell'annunciare la sua posizione aggressiva contro la story-line: il musicista «può decidere quello che, di un testo, può essere buttato via... Lo stesso rapporto la musica può instaurarlo anche con l'azione, può cioè identificarsi in vario modo con quello che si vede e può anche rimanere indifferente» (cito ancora dal colloquio di Eco e di Berio). Questo è il modo di rivisitare Il Trovatore che Berio segue in La Vera Storia; ma in questa sede mi interessa di più seguire il corso delle rivisitazioni più di r9utine come si vedono nei teatri lirici nel corso delle stagioni teatrali. scena di un artista, ali'epoca decisamente d'avanguardia, come Picasso. ·In questo tipo di contaminazioni (la cui audacia, certo, risulta oggi meno evidente), non riscontra, la Guatterini, il soffio di uno spirito analogo a quello che ha animato~per dirne una, il Manifesto marinettiano del Teatro di Varietà? .A proposito di una preziosa testimonianza del/'aerodanzatrice Giannina Censi sul training cui la sottoponeva Marinetti, la Guatterini mi accusa infine di «insinuare» che tutte le informazioni date dai superstiti del futurismo sono tendenziose. Se rileggerà quella mia tanto contestata prefazione, dovrà ammettere invece che io ho parlato di «pretese testimonianze di tendenziosi superstiti» solo relativamente ai diritti di precedenza tra l'uno e l'altro movimento artistico (futurismo, dadaismo, surrealismo, cubismo, astrattismo ... ) che la critica storica cerca veramente, e anche un po' inutilmente, di stabilire. Tengo viceversa ad assicurare il mio profondo interesse e rispetto per tutte le informazioni puntuali e circostanziate del tipo di quella di Giannina Censi, citata dalla Guatterini, ed in genere per tutti i «ricordi» trasmessici dagli ammirevoli protagonisti di quello straordinario momento culturale... specie quando questi ricordi sono accompagnati da documenti inconfutabili. È d'altronde proprio il mio rispetto per i documenti in genere - e per una loro corretta interpretazione - che mi ha spinto a chiedere ospitalità ad Alfabeta per le suddette precisazioni, ospitalità di cui anticipatamente ringrazio. Ornella Volta luglio '86 trabile, del ridicolo. Avremo così sempre spettacoli velleitari, in cui anche i .registi più innamorati e appassionati di Verdi fingono di credere che Verdi sia diverso da quello che è: come i critici di Dickens che fingono che Dickens sia Dostoevskij, mentre Dickens vive benissimo come Dickens e non ha bisogno di altri avalli; o i critici di Belli che vorrebbero farne un critico sociale per timore che il grottesco belliano non sia abbastanza serio di per sé. Porto esempi letterari perché sono quelli che mi sono più familiari, ma sono certo che i musicologi potrebbero addurre altri casi congrui ne~'ambito de~'opera lirica. Io non mi permetto certo di dare suggerimenti ai registi di opere liriche su come risolvere questo vertiginoso problema, e non so nemmeno come il «ridicolo»possa essere reso accettabile nella pratica della messa in scena. Esprimo solamente una opinione di ordine teorico: la strada che conduce a una accettazione più piena, più soddisfacente, meno oberata di ideologismi e di false coscienze sociali, nella regia di Verdi (o di Bellini; o di Donizetti) passa attraverso una accettazione piena, senza complessi, senza imbarazzi, senza pudori, senza scrupoli, della «miscegeneration», dell'improprio incrocio razziale fra il sublime e il ridicolo. Si vogliono regie che sostituiscano all'ideologismo della coscienza sociale o ali'estetismo del «bello» spettacolo o ali'avanguardismo «entropico» il parodismo indiscreto del matrimonio tra Monsieur Sublime e Madame Ridicule. $ to mi riguarda, il discorso del su- <::s L----------------------------------------------------------------------------' Quando nella seconda scena del primo atto Leonora si precipita in palcoscenico e corre ad abbracciare l'uomo sbagliato, il Conte di Luna, invece del trovatore Manrico il quale commenta la miopia della sua amante con l'immortale esclamazione «Infame!», solo un uomo dal cuore di sasso sopprimerà il sorriso dalle labbra; ma guai a quel mostro, a quell'essere subumano che non coglierà la voce del sublime nel commento orchestrale degli archi alle precipitoLa reazione del pubblico a questa situazione è di compromesso: l'orizzonte di attesa del destinatario, del consumatore di spettacolo, per adoperare le parole di Eco, comprende i due aspetti opposti, o complementari,del fenomeno. Io non credo affatto, come sostiene Berio, che l'opera lirica sia corretta da un tipo di narratività «aristotelica» che tende ad essereprioritaria sullo sviluppo musicale. Il progresso verso una soluzione - comica o tragica - dell'apparato narrativo è dato per scontato, e la coscienza dello sviluppo rettilineo cede subito a un'attenzione molto più parcellare di quanto immaginino i teorici di una estetica del- /' opera lirica. Berio sostiene che «il canto de~'opera lirica... ha bisogno di storie lineari, finalizzate e capaci di creare tensione in rapporto all'esito piuttosto che, come diceva Brecht, all'andamento». Forse questo avviene in un primo momento, ma questa tensione viene subito travolta da un diverso interesse; questa almeno è l'esperienza mia (cioè l'esperienza di un profano senza una cultura musicale specifica), e quella di tutte le persone con le quali amo discutere di opera. Proprio perché meno «colti», noi appassionati di opera Quale è la reazione del regista di fronte a quella misura inebriante di sublime e di ridicolo? In genere, imbarazzo. L'uomo di teatro si entusiasma del sublime, e magari apprezza anche l'ironia e la preziosa goffaggine del ridicolo, ma raramente sa come sfruttarli insieme, come potenziare l'uno con l'altro, come sottomettersi ali'inevitabile e grandiosa volgarità del contesto. E allora la sua reazione naturale sarà cercare di annacquare il ridicolo invece di esaltarlo, nasconderlo invece di esibirlo, mascherarlo dietro orpelli e trovate sceniche invece di denudarlo, mistificarlo attraverso alambiccate soluzioni realistiche invece di accettarloper quello che è. Insomma, di trasformare il ridicolo in quasi-ridicolo, che è molto meno accettabile, molto meno tea-

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