D a un punto di vista emotivo, non superficiale, due sono i modi di guardare al teatro italiano di oggi: c'è chi professa fede di spietato ottimismo e chi indulge invece a un pessimismo pietoso. Faccio parte della prima categoria e posso spiegarne le ragioni, mentre citerò la seconda solo come paradigma sbagliato, lasciando ai suoi sostenitori l'onere di un'argomentazione più distesa. Ottimismo. La stagione '85-86 ci ha mostrato una leva di spettacoli di grande i_nteresse,dopo anni più consacrati alle prove e segnati da una selezione non sempre equa. Mi riferisco a un rinnovamento del linguaggio teatrale, non agli esiti della tradizione, che meritano un discorso a parte. L'unica regia di prosa di un regista consolidato come Luca Ronconi ha riguardato un testo sconosciuto - interessante ma non geniale - come Ignorabimus di Arno Holz. L'esasperazione naturalistica del copione è stata messa alla prova di una teatralità androgina, con quattro attrici mimetizzate in panni maschili. L'espediente formale tende a saggiare una possibilità di drammaturgia tardonovecentesca, così come la costrizione del pubblico in un ambiente appositamente costruito s'interroga sulla funzionalità del luogo teatrale tradizionale per uno spettatore di oggi. Ronconi ha voluto fare uno spettacolo a priori criticabile, ma per stare nel dibattito culturale di oggi con argomenti e tentativi invece che, com'è più normale, con belle confezioni e scappatoie formalistiche. Una destabilizzazione ai più alti livelli, come si può permettere un regista che d'altra parte realizza impeccabili spettacoli d'opera. Tra i registi più anziani del teatro di ricerca, mentre si deve registrare la perdurante impasse di Carlo Cecchi, che ha conquistato la stabilità a Firenze ma non realizza messe in scena all'altezza del suo progetto teatrale (il suo risultato più alto degli ultimi tempi è forse la Traviata per un teatro lirico minore), emerge la netta qualità del nuovo ottenuta da Leo de Berardinis a Bologna con la trilogia shakespiriana cui si aggiungono il Dante e il Cantico dei cantici. Si tratta, però, di spettacoli che hanno avuto una circolazione limitata, a testimonianza della chiusura del sistema teatrale italiano, della sua vocazione a proteggere una mediocrità di routine. La scarsa circolazione è il male che affligge il miglior teatro italiano, mentre in altri paesi, in Belgio per esempio, molti spettacoli da noi sottovalutati. hanno avuto una buona distribuzione. La compagnia di Giorgio Barberia Corsetti e Falso Movimento consumano gran parte della loro stagione ali'estero, come compagnie di un altro settore quale il teatro-ragazzi (Libertini, Teatro delle Briciole, Kismet, per esempio). Buoni spettacoli, dunque, a fronte di una chiusura della distribuzione che ha un chiaro significato politico. Per citare ancora un caso clamoroso: diverse formazioni della nuova danza italiana, come Sosta Palmizi o Parco Butterfly, Monteverde o Cosimi, pur essendo riconosciute anche in ambito internazionale, vivono in Italia della presentazio-' ne in rassegne sperimentali a dominanza teatrale, il che, se denota una buona intelligenza degli ospiti, nulla toglie alla miopia dell'apparato-danza nel suo complesso. E eco perché questo ottimismo è di necessità spietato: non solo e non tanto perché gli spettacoli di qualità sono spesso criticabili per diversi aspetti, o perché un teatro d'autore è comunque minoritario in un mercato dominato da prodotti di infimo livello che spopolano anche senza protezioni critiche. Dev'essere spietato il riconoscimento che la tendenza del teatro italiano è di chiusura e ripiegamento, nella produzione come nella distribuzione: i mezzi, infatti, sono sempre più indirizzati verso le istituzioni e gli agglomerati organizzativi, vecchi e nuovi, a garantire la stabilità di un apparato, mentre il lavoro artistico, penso soprattutto alle compagnie indipendenti, non gode di alcun riconoscimento, di alcuna intelligenza; la distribuzione, poi, è intasata di produzioni protette e di scambi tra istituzioni, così che molti gruppi, i più validi, dopo il debutto non sanno praticamente dove andare (si fanno molti giri all'estero, in una sorta di esilio). Essere spietati significa allora partecipare criticamente del lavoro teatrale, evitando gli estremi della difesa d'ufficio per una sorta di «diritto a esistere», da una parte, e del rigetto totale perché ancora non si affacciano alla ribalta dei nuovi capolavori, dall'altra. Ed è una partecipazione doppiamente politica, perché oltre al merito di un nuovo operare artistico non ci si può astenere dal valutare il comportamento della macchina culturale italiana che, per quanto riguarda il teatro, si pone in rottp. di collisione con le opzioni più vitali degli ultimi anni e, complici i grandi media, sostiene il ritorno all'ordine di un teatro fatto di testi, declamati o chiacchierati, di modesta confezion½ registica e di modi produttivi pseudoindustriali. Dal punto di vista di una qualità sostanziale, il nuovo teatro d'autore si caratterizza per la chiusura di un ciclo inaugurato dalle avanguardie degli anni Sessanta e per l'inaugurazione di un fare teatro che prevede un collettivo di autori (più nella linea del Gesamtkunstwerk wagneriano e delle avanguardie di gruppo primonovecentesche che dei modelli di teatro «civile» dell'ultimo dopoguerra). Negli anni sessanta, Giuseppe Bartolucci aveva definito l'operatività dell'avanguardia in termini di scrittura scenica: contro il trasporto del testo in scena e tutta l'ideologia connessa, si propugnava una scrittura della/sulla scena, ma una «scrittura» appunto, a cui corrispondeva una «lettura» (anche per spettacoli di sole immagini) e una lettura di quell'evento in rapporto ad altre letture (altri spettacoli, letteratura critica). Oggi invece il nuovo teatro non si vuole «avanguardia», non vuole cioè essere leggibile in contrappunto a una «tradizione», e non procede per scrittura scenica, semmai per composizione. Oggi l'autore dello spettacolo collabora con diversi altri autori (ed entrano in crisi vecchie gerarchie, per esempio tra lavoro artistico e lavoro tecnico); suo scopo è l'assemblaggio di un evento che utilizza materiali della più diversa provenienza. Le filosofie compositive possono essere le più diverse, basti pensare al teatro di ricerca italiano, ma resta il fatto che gli autori, i responsabili dello spettacolo sono lì, davanti a noi, non si sono limitati a confezionare una messa in scena con interpreti. Nella composizione il testo entra come un elemento tra gli altri, la cui importanza varia a seconda della poetica del gruppo e dell'occasione. Il risultato di un lavoro di composizione è un evento semanticamente più complesso di una scrittura in quanto organizzazione vivente di diversi materiali. Questa composizione teatrale richiede qualcosa in più' che una lettura (critica): si offre come visione e «musica», chiede visione e ascolto, pensiero e abbandono al tempo stesso. Vent'anni dopo la scrittura scenica siamo qui, mi pare, al lavoro teatrale colto nella sua essenza professionistica e d'autore, chiaramente divergente da un teatro «funzionale», di riproduzione e di interpreti. Per una curiosa nemesi storica il teatro che chiamiamo nuovo somiglia più a quello antico che a quello moderno. Cercando di dare uno statuto teorico a quanto sta accadendo, saltano fuori nozioni come quella di composizione, di gruppo, di attore-autore e di spettatore come autore di visione, nozioni che sono della storia dell'antico professionismo teatrale occidentale (nozioni assenti, però, nella trattatistica che legge il teatro come traduzione scenica di un testo). I n questa prospettiva si comprende come il nuovo teatro mostri la sua vulnerabilità proprio rispetto agli obiettivi che si assegna. Per esempio: fare teatro ex novo, saltando i materiali e le tecniche offerte dalla tradizione moderna, ha comportato la creazione di una leva di sensibili autori di spettacoli ma anche l'obliterazione, almeno tendenziale, dell'arte dell'attore, di colui che in scena gestisce la sua energia vivente di autore-del-racconto; oppure: stiamo assistendo alla quasi totale scomparsa dello spettatore, inteso come persona che sceglie cosa vedere e riflette per conto suo, in favore di una figura di pubblico, sempre più predeter.minato e passivo, soggetto alle mode. Il teatro di ricerca evidenzia i limiti del teatro contemporaneo proprio perché li affronta. Per quanto riguarda il pessimismo pietoso, così diffuso nel piccolo mondo teatrale, esso si basa, a mio modo di vedere, su un'aristocratica noia e su una mancata presa di posizione poetica (anche se riferita all'arte della visione) e politica. Esso recita, più o meno, che non vi sono tutte queste opere tetrali interessanti di cui si parla e che conviene semmai applicarsi alla difesa di alcuni princìpi quali il nuovo tessuto di istituzioni teatrali create da posati quarantenni che hanno fatto il '68, l'avanguardia, il decentramento, il collettivo e chi più ne ha più ne metta. In questo modo non si rende un buon servizio alla crescita del teatro, che anzi in quella prospettiva non sopravviverebbe agli anni Novanta. Prima di tutto perché le neoistituzioni devono ancora essere: oggi vediamo che viene dato qualche miliardo agli Stabili privati e ai Centri teatrali, ma questo denaro si accompagna a una forte pressione indiretta che vorrebbe costringerli un aggiornamento del vecchio teatro e niente di più. Degli Stabili si tende a favorire non la stabilità di una ricerca teatrale ma l'imponenza di un apparato produttivo e gli esiti di pubblico (per dirne una: possono perdere i finanziamenti quei teatri che non riempiono il cinquanta per cento dei posti). Mentre i Centri, validi in quanto ipotesi di luoghi dove lf produzione e la distribuzione del nuovo teatro vengono proposte al territorio di competenza, rischiano di trasformarsi in strutture di protezione del debole lavoro artistico dei loro direttori, di riempirsi perlopiù con scambi tra loro, ma soprattutto di avere con le compagnie indipendenti un rapporto strumentale. Ora spiego perché. Le compagnie indipendenti rappresentano, assieme a qualche formazione degli Stabili privati, il nucleo qualitativo del teatro italiano di ricerca, o nuovo o d'autore che dir si voglia. Eppure, come ho detto, vengono assegnati loro scarsissimi mezzi e la distribuzione quasi non esiste. I loro primi interlocutori sono dunque i Centri e gli Stabili che, da una posizione di forza e con gli handicap strutturali cui s'è accennato, tendono a cooptarli nei loro schemi produttivi piuttosto che promuoverne la differenza. Il cambiamento dei Centri e degli Stabili è molto difficile poiché dipendono da una mole di sovvenzioni regolate da criteri vincolanti. Vi sono è vero alcune eccezioni ed è anche vero che la categoria nel suo complesso potrebbe negoziare una politica diversa, ma finora tra loro ha prevalso chi si accontenta di questa situazione. Ecco dunque che gli uomini di teatro più sensibili - siano essi registi «liberi» come Luca Ronconi, Massimo Castri o Egisto Marcucci, o registi a capo di teatri come Leo de Berardinis, Elio De Capitani o Gigi Dall'Aglio, o le compagnie indipendenti che tutti conosciamo - sono chiamati oggi non solo a perseguire con rigore il loro discorso artistico, ma a valutare un sistema teatrale che tende a cancellarli o assorbirli in istituzioni vecchie e nuove, piegandoli a logiche produttive che non sarebbero prive di conseguenze. Sono chiamati a una presa di posizione politica che non dev'essere necessariamente contro qualcuno ma almeno chiaramente enunciativa delle condizioni e dei criteri che concretamente decidono la possibilità di rinnovamento del teatro. Devono capire e non adeguarsi. Adeguarsi è già morire. 0,pere l~!!tr~li varie (:! -~ N egli anni sessanta la scrittuc.. ra teatrale si impone, si tra- ~ scrive come scrittura sceni- -. ca. Mi pare di aver posto io il sigil- ~ lo sulla scrittura scenica. Dopo ..(:) o tante obiezioni di fondo da parte ~ di Ferruccio Rossi Landi, ed a dispetto delle infinite idiosincrasie da parte del teatro italiano. Non è °' oO ~ la paternità che conta in queste -e definizioni impure e fatali assie- ~ ~ me, quanto la esistenza, la riconoscibilità di opere dotate per così dire di scrittura scenica. Allora, la scrittura scenica, per quanto riguarda l'Italia, proveniva dal lavoro di Bene, di Quartucci, di Leo de Berardinis, di Ricci; gli elementi di tale lavoro erano tanto le parole quanto le immagini, tanto il gesto corporeo quanto il movimento, tanto gli oggetti quanto le ambientazioni; ed i materiali erano drammaturgicamente in stato di frammento e di deformazione dal punto di vista espositivo, con provenienze pittoriche e cinematografiche, musicali ed architettoniche dal punto di vista compositivo. L'insieme non procurava facili contaminazione di generi, nè era una formula di usuale interdisciplinarietà, quanto costituiva una modalità tutta italiana ed originale di rappresentazione teatrale, di fare teatro appunto per scrittura scemca. È dimostrabile ora storicamente che siffatta interpretazione, siffatta scrittura si sono affermate ed espanse tra il Sessanta ed il Settanta proprio sull'uso del linguaggio e meno sul piano produttivo, più su un fondo di utopia del movimento, del cambiamento e meno sull'efficienza di uso e scambio delle opere. Del resto dal punto di vista politico, tale cambiamento, tale mutamento erano stati professati, rivendicati da più parti, studenti ed operai ed intellettuali, come esaurimento e fine delle istituzioni e come insurrezione del nuovo, del diverso. Così la scrittura scenica uscì dal convegno di Ivrea (1967, per il nuovo teatro), in piena euforia, sbancando e terrorizzando il vecchio teatro italiano, e tuttavia pagando duramente l'infelicità, la di-
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