I l problema tecnologico fondamentale dei nuovi computer paralleli è la comunicazione: per risolvere la maggior parte dei problemi, le unità di calcolo non possono lavorare indipendentemente l'una dal!'altra, ma devono continuamente comunicarsi i risultati raggiunti. E qui il cervello ha ancora un vantaggio evidentissimo: rispetto ai tre o quattro «cavi» che rappresentano le entrate e le uscite dei componenti elettronici fondamentali, le cellule nervose possono contare su migliaia di collegamenti fisici. Un altro vantaggio del cervello umano è il pieno sfruttamento della possibilità di stabilire collegamenti fisici nelle tre dimensioni, mentre le tecnologie elettroniche di oggi sono limitate alle due dimensioni della superficie di un cristallo di silicio. In ogni caso i nuovi computer ci stanno portando un passo più avanti sulla strada della realizzazione di macchine che potranno effettivamente «pensare». Già ora, per esempio, la Connection Machine è in grado di compiere in appena un secondo i calcoli necessari a replicare la visione stereoscopica, la valutazione, cioè, della distanza degli oggetti sulla base delle due diverse immagini che gli occhi forniscono al cervello. Calcoli che al computer tradizionale richiedono quasi mezz'ora. Oltretutto, le ricerche condotte sulla visione artificiale hanno messo in evidenza il contributo che il computer può dare agli studi che i neurofisiologi conducono sul cervello. L'obiettivo fondamentale dell'intelligenza artificiale è infatti costruire macchine «intelligenti», con capacità di pensiero e percezione simili a quelle di un essere umano, ma soprattutto comprendere i principi e i meccanismi che sono alla base dell'intelligenza, sia essa artificiale o biologica. Sviluppare computer capaci di riprodurre le attività cognitive umane, quali il ragionamento, l'apprendimento, la percezione, il controllo motorio, l'uso del linguaggio, ci consentirebbe di rispondere a uno dei più grandi e affascinanti interrogativi filosofici e scientifici: l'origine e la natura della mente. L'AI, quindi, non riguarda esclusivamente le macchine. Formulare algoritmi che descrivano i processi mentali, tradurli nel linguaggio dei programmi dei calcolatori e verificarne l'adeguatezza costituisce il lavoro di ricerca degli studiosi nel campo dell'Al. Così i computer introducono una nuova e utile metafora del pensiero, un diverso modo di concepire l'intelligenza come un insieme di istruzioni e di programmi. E ciò che l'AI ci ha insegnato finora è che è molto più facile scrivere programmi che giocano a scacchi, che dimostrano teoremi o che formulano diagnosi mediche, piuttosto che programmare un computer per le azioni più semplici, che ogni uomo è in grado di eseguire. Quelle, insomma, ritenute non particolarmente intelligenti, come, per esempio, evitare gli ostacoli, raccogliere un oggetto o addirittura tagliare l'erba o far da mangiare. Inevitabili a questo punto i toni ironici: sarà più facile domani sostituire un consigliere finanziario, un medico, un avvocato piuttosto che il giardiniere, il cuoco, la donna di casa. Veicoli pensanti Intervista a Valentino Braitenberg V alentino Braitenberg, bolzanese, neurologo e psichiatra, è uno dei fondatori dell'Istituto Max Planck di biologia cibernetica a Tubinga. E oggi ne è anche il direttore. I suoi interessi infatti sono da sempre rivolti allo ~tudio delle strutture cerebrali interpretate alla luce della cibernetica e della teoria dell'informazione. È autore di un saggio intitolato / veicoli pensanti, nel quale esemplifica e illustra alcune funzioni cerebrali con l'aiuto di una stirpe di curiosi marchingegni, che esplorano l'ambiente circostante animati da sentimenti «umani». Il loro meccanismo è molto semplice. Sono costituiti da due motori collegati in vario modo a dei sensori, secondo una struttura progettata fin dall'inizio, la quale determina interamente la reazione delle macchine agli stimoli esterni captati dai sensori. Eppure, se un osservatore dovesse descrivere il loro comportamento, non potrebbe fare a meno di ricorrere ad espressioni che si riferiscono a stati mentali: imprevedibili nei loro spostamenti, i veicoli di Braitenberg sembrano spinti dall'odio, dalla paura, dall'amore, dal desiderio. Aggiungendo elementi alla struttura originaria elementare (meccanismi inibitori, di soglia, di adattamento). creando reti di connessioni fra di loro e sfruttando soltanto le proprietà fisiche di alcuni cavi «ideali» con cui vengono realizzati i collegamenti, si ottengono successive generazioni di veicoli sempre più complicati che agiscono in base a calcoli e ragionamenti logici, che formano concetti mediante associazioni, che apprendono dall'esperienza, che hanno idee e che colgono i nessi causali tra eventi; in conclusione, che pensano. Come è giunto all'idea del veicolo pensante? Inizialmente veicoli di questo tipo erano serviti come modelli per spiegare determinate strutture del sistema nervoso animale, ad esempio gli incroci di fasci nervosi, noti come chiasmi, che si osservano nel cervello dei vertebrati, strutture che possono essere comprese soltanto richiamandosi a certi schemi funzionali. In seguito mi ha divertito l'idea di fare una psicologia per così dire sintetica, cioè di produrre schemi con proprietà quasi psicologiche e che ci inducono a pensare che anche fatti apparentemente complessi sono abbastanza comprensibili se ci accostiamo ad essi tramite un modello, una costruzione che siamo stati noi a fare e che quindi sappiamo padroneggiare con sicurezza. Con questo libro, insomma, ho voluto propagandare un metodo nuovo con cui affrontare la psicologia. Può farmi un esempio dei risultati a cui tendono suoi veicoli pensanti? Una delle proprietà che sono state invocate come proprie· dell'uomo e degli esseri viventi in generale è il comportamento rivolto a uno scopo. Si è ritenuto che fosse insensato parlare di scopo in relazione alle macchine e che fosse impossibile imitare con gli arrcfi11ril rn1111111rr11111c11r11 intenzionale. Con i miei due ultimi veicoli ho voluto mostrare che ciò può essere realizzato immettendo nei loro meccanismi anzitutto un criterio di valutazione - avere una meta significa voler raggiungere qualcosa di buono - e poi una causalità invertita che va dal futuro al presente, cioè una rappresentazione dello scopo da conseguire, che guida le azioni precedenti. Dunque si tratta di un gioco divertente che 11011 esula da schemi realizzabili tecnicamente. Che cos'è la biologia cibernetica? È un termine che abbiamo usato per indicare quegli aspetti della biologia ai quali si applicano concetti derivati dalla teoria dell'informazione e dalla teoria dei calcolatori. Direi che il grande sviluppo delle scienze del cervello è cominciato da quando abbiamo avuto il coraggio di parlare dei cervelli come se f assero calcolatori elettronici. Dunque l'analogia del calcolatore è stata molto utile. Sì, ha portato ad interpretare determinate strutture cerebrali in termini di calcolo. pensiamo, per esempio, al calcolo molto complesso richiesto per correggere la posizione muscolare in modo da mantenere la posizione eretta o in modo da non cadere quando lanciamo un sasso, cose che un robot non 'è ancora in grado di fare. Sono questi problemi di tipo ingegneristico che rientrano nel campo della biologia cibernetica. E così abbiamo scoperto, per esempio, che la rete di fibre nervose che costituisce il cervelletto, finora del tutto inspiegata, si poteva benissimo ihterpretare come una rete specializzata nel misurare tempuscoli molto b'revi. È probabile che queste misure siano di importanza fondamentale nei movimenti fini, come quelli che si compiono negli sport o suonando uno strumento musicale, dove è necessario non soltanto arrivare nel punto giusto, ma in quel punto nel tempo giusto. Non escludo che alcune di queste idee sul sistema motorio animale siano tornate all'ingegneria e che oggi influenzino gli schemi pensati per governare i robot. In conclusione, le discipline bio-mediche e quelle tecnico-informatiche possono cooperare e aiutarsi reciproc(lmente allo scopo di raggiungere una migliore comprensione del cervello. Il modello olografico Karl Pribram G li ultimi 25 anni hanno segnato una tappa fondamentale negli studi sul cervello e sulle sue funzioni. L'approccio tradizionale è stato abbandonato a favore di nuove interpretazioni e di nuovi metodi ricavati dalle scoperte fatte in altri campi di ricerca: la teoria della comunicazione nata dai sistemi telefonici, la teoria del controllo omeostatico ispirata al termostato, la teoria dell'elaborazione dell'informazione attraverso la programmazione dei computer. Dunque, telefono, termostato e computer rappresentano altrettante analogie utili per la comprensione del funzionamento del cervello. E se è vero, come è stato sostenuto, che l'Ìnnovazione ha origine quasi esclusivamente dall'uso appropriato dell'analogia, le scienze del cervello non possono che ricevere grande beneficio dal ragionamento analogico, l'unico in grado di illuminare i risultati della ricerca alla luce di una nuova prospettiva. È ciò che è accaduto dopo la più recente introduzione, in questo campo, dell'analogia dell'ologramma. L'ologramma, che nel 1971 fruttò il premio Nobel al suo inventore, l'ingegnere londinese Dennis Gabor, è una lastra.fotografica illuminata da un raggio laser. Caratteristica dell'ologramma è la distribuzione diffusa dell'informazione in modo che la proprietà di formare immagini sia dispersa su tutta la superficie della lastra. Così anche se una parte di essa viene rimossa, l'immagine si mantiene intera, sia pure più o meno sfocata a seconda della grandezza del frammento che viene utilizzato. Il modello olografico chiarisce aspetti del funzionamento del cervello che erano ancora inspiegati. Per vent'anni, _ infatti, ali' Università del Minnesota, Karl Lashley condusse pazientemente i suoi esperimenti sulla capacità dei topi di memorizzare il percorso in un labirinto, e osservò gli effetti provocati sul ricordo dal/'asportazione di piccole porzioni di corteccia cerebrale (ablazione): i topi barcollavano, zoppicavano, saltellavano, ma riuscivano ugualmente a ricostruire il cammino attraverso il labirinto. Le lesioni del tessuto cerebrale avevano provocato, cioè, alterazioni di carattere motorio e sensoriale, la cui estensione aumentava in proporzione alla quantità di corteccia rimossa, ma non avevano portato alla cancellazione della traccia del ricordo specifico (engramma). Sembrava, perciò, che nessuna particolare regione del cervello fosse responsabile dell'immagazzinamento della memoria. Si aveva l'impressione, cioè, che la memoria non fosse localizzata, ma diffusa in tutta la corteccia cerebrale. Ciò spinse Lashley, nel 1950, a concludere sconsolatamente che la memoria era addirittura impossibile. Gli spunti nuovi che hanno permesso alle scienze del cervello di uscire dall'impasse in cui gli esperimenti di Lashley le avevano condotte, sono stati offerti nella seconda metà degli anni '60, proprio dalla teoria olografica. Essa ha suggerito l'ipotesi che i ricordi fossero immagazzinati nel cervello come ologrammi fotografici, i quali hanno in effetti molte delle proprietà dell'aspetto distributivo della memoria. Il loro stesso nome sta a indicare che ogni parte dell'ologramma è una rappresentazione dell'intero: l'impatto di ogni quanto di luce sulla lastra è paragonabile alla serie di onde concentriche provocate da un sassolino gettato nell'acqua. Come le onde, le informazioni si propagano su tutta la superficie di «registrazione». Così si può pensare che ogni particella di quella superficie, simile a una monade dell'universo leibniziano, racchiuda in sé la totalità dell'immagine. Occorre comunque tenere presente che la teoria olografica è prima di tutto una teoria matematica (la creazione di immagini tridimensionali mediante il raggio laser è semplicemente un'applicazione della teoria) che conduce a interessanti analisi e descrizioni dell'organizzazione cerebrale e delle sue proprietà dinamiche. E una volta che avremo a disposizione computer paralleli in grado di elaborare questo tipo di descrizioni, l'intero campo di ricerca farà sicuramente un enorme balzo in avanti. Le descrizioni olografiche rispecchiano un ordine in cui lo spazio, il tempo e gli oggetti non esistono come tali, ma sono rappresentati da onde quantiche che si intersecano continuamente. Un ordinamento ché potrebbe aprirci un livello profondo, ontologico di comprensione della realtà fisica e del cervello che, dopo tutto, è parte di essa.
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