Barzindi aP@~binao-Parigi U n testo indirizzato esclusivamente ad una lettura contemporanea, come è di solito un reportage di viaggio, difficilmente, ad una certa distanza temporale, usufruisce della stessa recezione per cui era stata fatta la stesura. li contesto è in questi casi fortemente condizionante e rende enorme il divario tra la lettura passata e la lettura attuale. Qualsiasi giornale, sfogliato a distanza di molti decenni, si offre alla lettura solo come documento di costume, da collocare tra i graffiti d'epoca. Non così è per la cronaca che Luigi Barzini (1874-1947) stese durante il leggendario raid, compiuto nel 1907, Da Pechino a Parigi in 60 giorni che la Marsilio ha recentemente ripubblicato in una splendida edizione illustrata dalle fotografie scattate durante i 16 mila km. del percorso. Rileggerlo è una vera scoperta e lo è almeno per tre motivi: la stessa impresa sportiva, che a distanza di 80 anni non perde nulla della sua suggestione, il rapporto singolare tra lo scrittore e· la «sua» materia e infine lo stesso mezzo linguistico, che mostra una straordinaria resistenza all'usura del tempo. L'opera, che con la sua immensa fortuna - fu tradotta contemporaneamente in 11 lingue - dette notorietà internazionale al suo autore più di tutti i suoi numerosi scritti dedicati alle pionieristiche avventure di inviato speciale m Estremo Oriente, 1 è stata il prototipo di quel genere «di ritorno dalla Cina» al sottile fascino del quale non hanno saputo sottrarsi molti più o meno improvvisati conoscitori della realtà geo-politica o socio-culturale del grande paese, e tuttora sembra miracolosamente sfuggire a quella legge inesorabile dell'invecchiamento che ha condannato al dimenticatio - basta cercare nei Remainders - la gran parte di queste opere, anche quando sono , debitamente «firmate». P rocedendo per ordine, parliamo subito dell'impresa, di cui già dice abbastanza la sovrapposizione di due immagini visive che la riassumono. Da una parte il mezzo di trasporto, un'Itala 35/45 Hp modello 1907, come appare nella fotografia scattata frontalmente all'arrivo, con le ruote sghembe, gli enormi fari sporgenti come occhi di cavalletta, i tre dell'equipaggio issati senza alcuna protezione dalle interperanze climatiche, a cui dovevano sopperire gli occhialon_i da saldatore e gli infagottamenti stratificati, l'assenza totale di carrozzeria, fatta eccezione per la grande lastra anteriore su cui campeggia la scritta «Itala» di gusto futurista. Dall'altra la semplice linea nera che unisce schematicamente sulla carta della grande piattaforma continentale euro-asiatica I due punti estremi rappresentati da Pec::s chino e Parigi, «la metà del mondo s:: -~ vista da un'automobile», dice il tit:::l.. tolo originale dell'opera, ora aggiunto come sottotitolo, con un percorso che solo negli ultimi 4 mila km. era costituito da strada bianca, mentre per la maggior parte era deserto, steppa, pianura acquitrinosa, tracciato delle carova- O\ OC) niere, viottoli di montagna e persi- ~ no traversine della transiberiana. ~ Per avere un'idea della dimen- ~ sione del fatto ·è persinopiù indicativo il foglio ingiallito, con il fitto incastro di notizie e di pubblicità, del Corriere della Sera, sul quale tra il giugno e il luglio 1907 apparvero quasi quotidianamente 1 bollettini sull'andamento della corsa, inviati da Barzini per telegramma. E faceva notizia la notizia in quanto tale, cioè il suo modo di raggiungere il lettore. Barzini, che ben conosceva il suo pubblico, non risparmiava gustosi dettagli sulla cabina costruita con fango, isolata in mezzo al deserto del Gobi, dalla quale i telegrafisti dell'impero cinese trasmettevano il primo dispaccio dopo quattro anni dal loro insediamento. Oppure le battute umoristiche col telegrafista russo che non sapeva se trasmettere il testo del dispaccio dal1 'alto in basso o da sinistra a destra. E il giornale prometteva ai lettori di mostrare quei cimeli telegrafici esponendoli nell'ufficio abbonati. Merito dell'intelligenza di Luigi Albertini - direttore altrettanto leggendario del Corriere - era lo spazio dato a fatti così nuovi nella storia' del giornalismo italiano e l'evidenza anche grafica con cui questi fatti venivano presentati accanto alle solite notizie dei suicidi per amore, delle aggressioni a timide fanciulle, degli attentati nei Balcani e degli scandali governativi, appena alleggerite dai disegni liberty della pubblicità di una pomata per fare la barba senza rasoio o dei granuli per il recupero della prestanza muliebre. Ed era novità da non sottovalutare anche l'impostazione seriale della notizia, quasi una narrazione che si svolgeva a puntate, creando nel lettore l'attesa che lo incatenava alla «storia». Che si trattasse di un.a storia, vissuta e insieme inventata dal suo autore-protagonista, ne è prova la vitalità che ancora dimostra il racconto dell'impresa, nato dall'ampliamento e dalla concatenazione dei resoconti giornalistici. Il testo, ricostruito in poche settimane da Marco Ferreri, 1979 Barzini subito dopo il suo ritorno, funziona ancor oggi come un'opera letteraria, contravvenendo a quel luogo comune, diventato formula distintiva tra letteratura e giornalismo, per cui all'immediatezza _distesura in quest'ultimo deve corrispondere la rielaborazione a distanza nella prima. B arzini scriveva da quei pericolosi e scomodi punti di osservazione che erano il predellino sporgente della vettura, da cui le gambe penzolavano nel vuoto a un palmo da terra, o la montagna dei pacchi legati precariamente con lo spago sui quali si doveva arrampicare per mancanza di un terzo posto, oltre a quello del guidatore, il principe Scipione Borghese, e del suo meccanico Ettore Guizzardi. Ma l'immediatezza della scrittura non gli consentiva di toccare egualmente il fondo di quel suo ironico e stupefatto rapporto con le cose, anche se le scorgeva alla velocità mai raggiunta prima di 50-60 km. orari? Non era il suo spogliarsi da ogni presunzione di conoscenza, per rivestirsi magari del fango che schizzava inesorabile dai raggi delle grandi ruote, non éra il suo liberarsi da ogni autocompiacimento da osservatore, per assumere il ruolo più difficile ma più proficuo di osservato e di auto-osservato a dargli il distacco necessario dalla sua materia, distacco che non necessariamente deve avvenire m senso cronologico? Non era il suo guardarsi in relazione ai fatti che gli consentiva di rielaborare artisticamente ciò che andava sperimentando con la vista, l'udito, l'odorato e tutte le sue facoltà fisicomentali, nel momento stesso in cui lo viveva, cioè prima che questi fatti e queste esperienze diventassero parole, nessi grammaticali, modi e ritmi della comunicazione letteraria? Un'invenzione sulla propria pelle prima che sulla carta. «Il fatto è che il viaggio s'inizia in modo certamente interessante, come un romanzo d'avventure», dettava per telegramma da Pechino il 9 giugno 1907 e per tutto il percorso fu accompagnato dalla certezza che stava attraversando una propria continua invenzione, una ininterrotta scrittura mentale. Al ritorno non doveva far altro che aprire la diga e fare rifluire quel gran numero di fatti già narrati a se stesso e ai propri appunti. Ecco perché la sua scrittura appare - ma non lo éspontanea, senza sforzo, facile come un atto naturale. 11 viaggio di Barzini non è, come si potrebbe supporre, una fuga nel diverso, alla ricerca dell'esotismo, né una dissemazione del soggetto lungo un percorso erratico che riproduce metaforicamente l'esistenza umana, bensì un'accresciuta possibilità dell'io scrivente di misurarsi col sentimento dell'esserci, pur con la cosapevolezza che tale sentimento resta inattingibile alla scrittura: «Quella corsa c1 inebriava e ci stordiva non per la sensazione fisica della rapidità, non per quella gioia del volo che dà l'automobile, ma per una profonda, piena e ineffabile soddisfazione intellettuale, per l'inesprimibile godimento che veniva dal trovarci lì» (il corsivo è di Barzini). Aveva bisogno per questa operazione letteraria di un linguaggio che si adattasse per così dire alla eccezionalità del percorso, riproducendo quasi il movimento sobbalzante della macchina sulla gibbosità e le ruvidezze di un terreno vergine e sconosciuto. E l'avventura che Barzini ha compiuto all'interno della lingua è forse più singolare di quella da lui descritta e non fa che sorprenderci ancora per la sua «attualità». Attualità che non va intesa come un meccanico avvicinamento cronologico, ma come punto di arrivo di una ricerca che nell'ambito della comunicazione letteraria ha visto impegnato quasi tutto il nostro secolo. Quando ancora la maggior parte della stampa risentiva della tradizione giornalistica ottocentesca nel riferire le notizie come se appartenessero alla memona del mittente e non alla sua esperienza diretta - ad esempio i verbi restituiti costantemente nei tempi del passato - Barzini usava disinvoltamente l'alternanza dell'imperfetto e del presente, là dove la narrazione esigeva il sostegno della testimonianza in diretta, per dare il massimo della drammaticità ai fatti. L'assenza di qualsiasi cedimento ad arcaismi o a forme dialettali che caratterizzavano molta prosa del primo novecento, la capacità di semplificare al massimo la sintassi per non appesantire la narrazione, la sapiente mescolanza di periodi brevi e lunghi, rendono ancora oggi perfettamente godibile quello stile personalissimo, in seguito più volte imitato ed etichettato come «barzinismo». 2 Note (1) Tra le opere che Barzini scrisse utlizzando le sue corrispondenze dall'Oriente si veda: Dall'Impero del Mikado a quello dello Zar, Milano 1904; Guerra russo-giapponese 1904-5, Milano 1906; Nell'Estremo Oriente, Sesto S. Giovanni 1915; Avventure in Oriente, Milano 1959. Scrisse anche alcuni racconti ispirandosi agli incontri che aveva avuto in Cina: Wu Wang ed altre genti, Milano, 1941. (2) Fu Mussolini che usò nel 1929 il dispregiativo «barzinismo» riferendosi ai giornalisti «che mancano di discrezione specie in materia di politica estera o di finanze», In realtà il termine mal si adattava a Barzini che già da alcuni anni si era orientato verso il fascismo, e dopo aver abbandonato il Corriere, aveva dato vita a New York al Corriere d'America, un quotidiano di propaganda fascista.
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