Alfabeta - anno VIII - n. 88 - settembre 1986

lano, che poi coinvolgeva studenti architetti e architetti laureati, un bel milieu di progettualità, ha visto in un certo numero di casi prevalere questa tendenza alla riproduzione, alla copia, con incredibili - e inutili - performances tecniche. Ma molti altri hanno invece dato contributi di notevole intelligenza progettuale e risultati inaspettati. In un campo così minato per il design, occasioni come questa indicano probabilmente una buona via. P ensando a un biscotto per intingere nel latte mai veduto, al rapporto tra gastronomia, cucina e design alimentare, e ai fascini dei revivals. Il biscotto progettato da Ettore Sottsass jr. per la Parmalat non è mai, o non è ancora, stato messo in produzione; come ogni buon progetto, può essere descritto e la descrizione in casi come questi assume statura di progetto. Si tratta, come si diceva, di un biscotto atto ad essere intinto nel latte; come moltissimi altri - anzi, quasi tutti, pensando anche a tè, caffé, vino, liquori. Cosa succede in questi casi? Lo si afferra lungo un lato, normalmente il più corto se la forma è rettangolare, o lungo la circonferenza se è rotondo; lo si intinge per un lasso di tempo sufficiente ad ottenere un certo imbibimento, senza che però il liquido arrivi alla parte impugnata; lo si estrae e lo si porta alla bocca. A meno che non si tratti di un tipo ben conosciuto, e che ne siano perciò familiari i comportamenti fisici e la resistenza, molto spesso il biscotto si rompe, la parte più grande sprofonda formando uno strato di melma sul fondo (che se da soli mangeremo poi con il cucchiaino), sprofondando può causare schizzi fuori dal recipiente- tavolini camicie vestiti -, fra le dita rimane un mozzicone impreciso; può rompersi una volta estratto e non ancora in bocca, e allora è peggio; può non essere ancora imbevuto a sufficienza; e così via. È comunque un imbarazzo, ma soprattutto una piccola frustrazione e una delusion~, e questo in qualunque rapporto sensoriale non dovrebbe mai accadere. Il biscotto di Sottsass invece ha una maniglina, -come una piccola borsa, una valigetta; ha il dorso scanalato nella parte superiore per una migliore captazione del liquido (questo già accade in biscotti in produzione, ma mai all'interno di un progetto completo); questa maniglietta forse ha una consistenza differenziata, evita molti dei rischi ora elencati, è immediatamente comprensibile per scopi funzioni e modalità d'uso (diviene «istruttivo», comunica attraverso di sè informazioni e comportamenti ade&uati in ambiti non ristrettissimi). E logicamente perfettamente compatibile con le esigenze della produzione in serie, comprese quelle dell'imballaggio e della conservazione. Senza contare la grande gioia data dall'intingere una valigina nel latte (ma sì, viene in mente proprio il latte e in una grossa scodella chiara, ed è un'immagine di dolcezza e piacere - chi non ha da anni nei suoi ricordi Catherine Deneuve in La vie au chateau?). Conoscendo il mondo poetico di Sottsass e le sue predilezioni compositive non abbiamo difficoltà a immaginare la forma del biscotto, sarà probabilmente un po', come dire, tozzo, tarchiato, avrà dell'animaletto e anche un po' della creatura meccanica, aliena. Piacerà anche ai bambini; il progetto comprende anche sue immagini pubblicitarie riconoscibili. Un buon esempio in un campo difficile - non ha importanza se poi questo biscotto che non abbiamo mai visto non corrisponderà esattamente a questa nostra descrizione; che per noi costituisce il modo proprio di dire cosa può e dev'essere il design alimentare, cercando anche di apportare qualche nuova cosa - addolcimenti e precisazioni - ad una stessa più generale nozione di design (in cui ci troviamo iscritti, non certo però nel senso del noto vecchio slogan «dal cucchiaio alla città»). M entre, come del resto nelle occasioni più svariate e dissennate (la Alfasud arredata dal grande sarto, la bicicletta accessoriata dal noto stilista, la piastrella interpretata dal nuovo astro della moda, e così via), nel mondo del cibo si tende piuttosto a dilapidare possibilità e opportunità in un generico anelito al griffaggio, nel migliore - si fa per dire - dei casi, o a risolvere sp1cciamente problemi con operazioni di carattere epidermico, derivando le procedure da settori, come quello della grafica pubblicitaria, che già per conto loro conoscono impasses non indifferenti. Con esiti che poi si vedono, di durata esigua, riproducibili a stampino in una spirale di ulteriore deterioramento (non si pensi a nostalgie di Kultur fatte rientrare dalla finestra: si tratta di mere constatazioni fatte, per esempio, di fronte allo scatolame in generale, ai biscotti, ai prodotti per i bambini - nessuna demenzialità, solo sciocchezza e basso profilo). Che poi ci siano anche ragioni di carattere produttivo, ritardi nell'innovazione tecnologica, può anche darsi. Ma certamente non pesano in maniera determinante. L'assenza si direbbe ahimè mentale, di progetto. (Dispiace doverlo dire, ma le riscoperte- non poi così recenti - del genere di quella delle ricette e delle cene futuriste, non aiutano né vanno in altre direzioni. Già bisognerebbe dire che nei confronti del cibo le incursioni del futurismo appaiono piuttosto fragili -già allora lo erano, si direbbe; più tese a suscitare stupore che a divellere - o a cambiare - secondo il filo di un'intenzione un mondo di regole, consuetudini e strutture. Che in questo momento certi colori, accostamenti, ipotesi possano parere affini a ricerche in corso, è comprensibile; ma la cosa è di superficie, e finisce ritorcendosi ingiustamente proprio contro queste stesse ricerche, che a ben altro mirerebbero, e che certo non hanno bisogno di essere rese lecite da precedenti, comunque non così. Dopo un consumo primaverile ed estivo normalissimo, fisiologico, quello che del futurismo rimarrà in circolazione sarà una specie di revival relativo alle arti applicate ed in genere minori - sì, magari anche la pasticceria; altrove le rivisitazioni sono avvenute molti anni fa. Forse il senso dell'operazione è proprio questo; ma se è così, siamo esattamente agli antipodi di ogni operazione riconducibile al design. Non sarebbe davvero un gran che) Ma ritorniamo per un momento su di un punto che certamente è centrale. Che rapporto esiste fra gastronomia, cucina, e design alimentare? Non è questione di poco conto. Diremo solo: non c'è sovrapposizione. C'è dell'altro: in preda evidentemente ad un delirio tardivo di interdisciplinarietà (che bel revival sarebbe questo), suggeriamo che tra gastronomi, cuochi, tecnici dell'alimentazione e della produzione, eccetera, e designers debba esistere un gran rapporto di lavoro d'équipe - ma qui è giusto vacillare, avere dubbi. Noi, da qualche tempo (come un po' il signor Palomar ad un certo punto della sua vita), ci siamo convinti che la salvezza stia nelle cose, e nel rapporto che con esse cerchiamo di instaurare. Per esempio prendendone alcune per la loro maniglietta e intingendole nel latte. Storiediunacultura 11 disegno industriale vive una stagione di grande popolarità, traendo beneficio anche dal successo, nell'economia e nel costume, di settori collaterali come la moda e l'arredamento. Una conferma inequivocabile di tale fortuna è rappresentata dal vero e proprio boom editoriale delle pubblicazioni di settore, peraltro di qualità assai disomogenea. Paradossalmente, si può affermare che questo fenomeno presenta alcuni aspetti preoccupanti dal punto di vista teorico e critico. Il proliferare di testi dotati di qualità intrinseca e di obiettivi molto differenti aumenta le difficoltà di chi voglia fornire risposte convincenti alla crescente «domanda sociale» di informazione sul disegno dei prodotti o di chi voglia, quanto meno, contribuire a impostare correttamente i problemi. E le questioni non sono di poco conto, come si può dedurre dalla lettura di quattro libri sulla storia e sulla teoria del disegno industriale pubblicati dal 1982 a oggi.' Che il disegno industriale, almeno dal punto di vista teorico, non sia ancora stabilmente consolidato non è affermazione provocatoria, ma una realtà di fatto, tanto che ancora non esiste una risposta sicura al quesito di fondo: che cos'è il disegno industriale? E, inoltre, da quando si può cominciare a parlare di disegno industriale? Non c'è dubbio che il problema relativo alle origini sia uno dei nodi ancora irrisolti. Al suo primo apparire, il disegno industriale prende le mosse da un complicato intreccio di affinità e parentele (non ancora del tutto sciolto), in cui l'unico delprog elemento unificante, il possibile denominatore comune sembra essere il «progetto». Arte e artigianato, architettura e industria, tecnologia e produzione: sono solo alcune delle aree da cui far emergere il tema del disegno industriale nella sua autonomia, riconoscendo, però, le filiazioni, i condizionamenti, gli interscambi e i debiti reciproci. Il legame certamente più solido, e perciò stesso più vincolante, il disegno industriale l'ha stabilito da subito con l'architettura, rimanendo per molto tempo relegato al ruolo di fratello minore. Non si è voluto riconoscere che proprio il disegno dei prodotti per l'industria aveva estorto all'architettura il privilegio dell'esclusiva in campo progettuale. Esso aveva cercato da subito di svincolarsi dallo statuto della disciplina maggiore, rivelatosi ben presto troppo stretto. 2 Nonostante questo precoce tentativo, soltanto di recente il dibattito sul disegno industriale si è andato separando da quello sull'architettura. 3 Ma l'acquisizione di questa consapevolezza non è sufficiente a rendere meno vago .il successivo passaggio «in positivo». Fra gli autori in questione, alcuni compiono esplorazioni in tal senso, senza tuttavia approdare a conclusioni del tutto convincenti. Renato De Fusco è quello che affronta il problema in termini diretti: egli denuncia le difficoltà incontrate nello «scrivere la storia di "qualcosa" che non è stato ancora teoricamente definito», ma ritiene di poterte superare mediante un «artificio storiografico». A questo scopo, vengono individuati quattro Medardo Chiapponi Raimonda Riccini parametri (progetto, produzione, vendita e consumo), la cui compresenza è ritenuta sufficiente a far sì che un «evento» entri a far parte della storia del disegno industriale. De Fusco dichiara così l'impossibilità di una definizione e si affida 1/amish Fu/1011, /97/ piuttosto a una sorta di fenomenologia del disegno industriale. Non chiarisce che cosa esso sia, ma come si manifesta. 4 In effetti, progetto, produzione, vendita e consumo possono legittimamente essere considerati parametri interpretativi, di sicuro non definitori. Questo per il semplice motivo che non esiste, in pratica, prodotto dell'attività umana a cui essi siano estranei. La lettura del libro conferma come il metodo scelto sia scarsamente incisivo, anche per la mancanza di novità dal punto di vista degli argomenti trattati. Ancora una volta, si riscontra una pressochè totale identificazione del disegno industriale col disegno di beni di consumo e una nettissima prevalenza, all'interno di questi, dei mobili. N ei due testi di Vittorio Gregotti e di Enzo Fratelli - che circoscrivono l'indagine storica all'Italia - l'idea di disegno industriale è strettamente vincolata al problema delle origini. La periodizzazione, all'interno di qualsiasi «storia», è un elemento decisivo perché la scelta della data d'inizio implica di fatto una presa di posizione precisa su matrice, contenuti e ideologia del fenomeno indagato. E, ancora di più, sulla sua definizione. Le due questioni, è noto, sono certamente collegate, anche se non è prudente identificarle. Frateili si richiama a una radice culturale facente capo a quel razionalismo lombardo che, dall'illuminismo in poi, ha dato un'impronta caratterizzante a gran parte delle vicende architettoniche italiane. Un ambito culturale così predisposto avrebbe accolto e mediato, seppure in ritardo, l'ideologia del razionalismo di marca bauhausiana, alla quale egli ascrive la nascita e lo sviluppo di tutto il movimento del disegno industriale europeo e internazionale. In sostanza, per Frateili non si può parlare di disegno industriale prima dell'esperienza del Bauhaus. Nell'introduzione generale alle tre sezioni che compongono il volume,5 Gregotti tenta invece di affermare l'esistenza di una sotterranea, ma persistente e diffusa, cultura del progetto, che in Italia si sarebbe manifestata in coincidenza con gli albori del sistema industriale nazionale. Questa retrodatazione, che fissa l'inizio del disegno italiano al 1860, ha una sua ragione precisa m un'estensione teorico-concettuale operata da Gregotti. La cultura del progetto è la chiave con la quale leggere le vicende del disegno industriale. È indispensabile, dice Gregotti, restituire alla cultura progettuale italiana «i meriti o meglio le caratteristiche del proprio contributo progettuale: il che significa insieme visuale e meccanico». Partendo da questo presupposto, viene ripercorso il processo di industrializzazione, con uno sguardo particolare ai settori coinvolti da un reale processo di modernizzazione. Il taglio scelto da Gregotti è volutamente polemico verso chi «fa del design italiano una pura appendice della cultura architettonica del Movimento Moderno». Una marcata propensione per i sottili percorsi dell'ideologia guida Frateili a prediligere la «storia delle idee», rispetto a quella degli oggetti, la «cultura del design», rispetto a quella del progetto. In

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