Formacomecomunicazione V orrei cominciare con una breve premessa. Secondo la nota scuola inglese, i nove decimi dei problemi filosofici derivano da questioni di linguaggio: se si potesse arrivare a definizioni comuni e di valore universale del significato delle parole che vengono usate, questi problemi risulterebbero in larga misura inesistenti. Credo che anche per quel che riguarda la parola design la confusione sia accresciuta dal significato diverso che il termine ha assunto nelle diverse aree culturali e linguistiche e via via lungo i decenni della sua affermazione come disciplina. Se infatti a questa parola diamo un significato più generale ed ampio, essa serve per definire quell'area di attività umana che attiene alla progettazione, nei suoi vari momenti e connessioni; se ne diamo uno più ristretto, èssa tende fatalmente ad indicare quei particolari valori della progettazione che si riferiscono ai significati formali e funzionali (ergonomici) dell'oggetto, alla sua collocazione nello spazio, e alle sue valenze culturali (in senso antropologico), emozionali, sintattiche. Vi sono poi ulteriori specificazioni possibili, che restringono ulteriormente il significato del termine e il campo delle sue potenziali applicazioni. Dirò subito che in questa sede intendo il termine design esclusivamente nella sua accezione di industriai design, espressione che rischia di diventare desueta o di affogare nel mare dell'indifferenziata e generale progettualità, ma che ritengo continui ad avere titoli di specifica legittimità. Che cos'è l'industriai design? È, per rifarci ai classici, il metodo della progettazione dell'età industriale. Sue caratteristiche fondamentali sono dunque l'estrema riduzione, e, ormai, l'abolizione completa della manualità, per una produzione di serie interamente prodotta a macchina (ed oggi automaticamente), il grande numero, l'identicità standard di tutti gli esemplari, l'economicità di costo, la perfetta esecuzione. Poco quindi, o quasi nulla, da vedere con certa progettazione particolarmente viva in questi ultimi anni, che sembra tornata a forme artigianali (e quindi manuali, e come tali progettate) di produzione, caratterizzate dal basso numero (si va dalla piccola serie all'esemplare unico), dall'uso di materiali preziosi e rari, dal costo in genere altissimo, quasi da opera d'arte, dove ha significato fondamentale il valore di firma, spesso dall'esecuzione scadente: alcuni di questi oggetti potrebbero, per quel che riguarda la tecnica, essere stati prodotti prima dell'avvento della macchina ed essere usciti da qualche bottega di antica ebanisteria. (Per non parlare di quello specifico prodotto, sempre più presente nelle mostre, rassegne e riviste di design che è la moda, per sua natura non molto lontana dalle sperimentazioni progettuali di piccole serie, soprattutto nel campo dell'arredamento'o degli oggetti più raffinati). M a lo stesso industriai design può a sua volta dividersi in (almeno) due categorie: quella degli oggetti interamente prodotti a macchina, ma tecnologicamente più semplici (o addirittura da questo punto di vista praticamente inesistenti), beni di consumo per larga misura affidati alle seduzioni del packaging e la cui progettazione è quasi esclusivamente di tipo formale, senza implicazioni di tecnologia fine; e quella di prodotti in cui forma e tecnologia, sofisticazione di meccanismi e complessità di comandi, problemi di affidabilità e sicurezza, necessità di alti costi iniziali di ricerca e progetto che possono essere ammortizzati solo sul grande numero e in cui, a causa della velocità di innovazione, tale numero deve essere raggiunto in tempi programmati, si accompagnano a ricerche di tipo funzionale ed ergonomico particolarmente approfondite, e in cui il lavoro del designer non può non andare di pari passo con quello del progettista, senza potersene staccare, La progettazione di un tavolino può essere interamente risolta dal designer, non ha bisogno di integrazioni tecnologiche particolarmente sofisticate; un razzo spaziale, o anche solo un computer, sono impensabili senza lavoro di équipe in cui disegno e ingegneria si integrino fino a identificarsi. Dunque, il design di un prodotto a contenuto tecnologico non può essere esterno all'azienda, affidato ad un professionismo autonomo e interscambiabile. Esso è una sua funzione, un fatto interno, anche quando si svolge fuori delle sue mura; esige continuità e un'esperienza che è più dell'esperienza formale. Il design è un elemento strutturale dell'impresa, fa parte del suo modo di ·progettare 1 contribuisce a definirla. Metto poi tra parentesi una nota relativa all'ergonomia, che all'apparenza sta conoscendo un momento di impetuosa affermazione e considerazione accademica. Come è noto, si tratta di una tecnica che affronta con metodo scientifico i problemi relativi al rapporto uomo-macchina e mira a definire, nella produzione di forme, standard di soluzioni da tutti i punti di vista ottimali. Non potrei non esprimere l'apprezzamento più vivo per gli studi e le direttive che gli esperti di ergonomia vanno proponendo, anche perché nell'impresa in cui lavoro questa è una materia di normale esercizio da molti anni. È tuttavia forse necessario non enfatizzare eccessivamente il problema, come forse si sta facendo. Enfatizzare significa infatti deformare, e gli eccessi sono spesso indice di insicurezza. L'ergonomia nella produzione industriale è un punto di partenza, un dato, non può essere un obiettivo finale, un punto di arrivo. E deve saper distinguere fra ciò che è necessario formi oggetto di normativa, perché scientificamente o empiricamente accertato, e ciò che può essere ancora propensione, ipotesi non sufficientemente verificata, o addirittura congettura (come l'opportunità di impiego di _certi colori, molto spesso dato «culturale» più che risultanza oggettiva). Una normatività eccessiva, come tutta la storia dell'umanità sta ad insegnarci, può essere altrettanto pericolosa dell'assoluta non regolamentazione, finisce comunque per avere una funzione sostanzialmente conservatrice, quando non regressiva. Occorre infatti ricordare che anche la monotonia, l'uniformità, la neutralità anonima, la mancanza di carattere, influiscono sulla non-erRenzo Zorzi gonomicità di un prodotto, e che la sua «bellezza», uso la parola non senza esitazione, ma, a quale altra ricorrere?, è anch'essa un attributo ergonomico. L'ergonomia è come la tecnica per il musicista (o il mestiere per il pittore); non si può non possederla,.ma se si ha solo la religione della tecnica, si è appena dei professori, si può insegnare, ~on fare. Anche l'ergonomia è una tecnica, non può essere un feticcio. Dico queste cose perché i rischi sono sempre presenti, e le specializzazioni ergonomiche richiedono competenze molto difficili, non raramente problematiche. N on so se le osservazioni che seguono possano valere per ogni tipo di industriai design. Ho su ciò un'esperienza limitata. Il mio punto di riferimento è necessariamente il prodotto che si basa su tecnologie complesse ed in particolare su quelle ad alto grado di ininterrotta innovazione. Esagerando un po' si potrebbe dire che nonostante siamo letteralmente inondati dagli oggetti che ci affollano, nel modo più disordinato e opBrice Marden, 1971 pressivo (e senza dimenticare che più della metà del genere umano . manca dell'indispensabile e vive al di sotto dei minimi biologici), il sistema industriale, o almeno la sua parte più avanzata, è costretto ad operare in una situazione che, contemplata dall'esterno, non è lontana dall'assurdo. Riducendo le osservazioni, che qui non è possibile svolgere, ad un'immagine, si potrebbe dire che ci muoviamo tra il non ancora esistente e il già sorpassato. La corsa in avanti, sempre più rapida, delle tecnologie, ha fatto sì che l'oggetto che oggi si produce e si utilizza abbia già cominciato la sua curva discendente_,mentre quello che si sta progettando, il solo al momento aggiornato, sia ancora non disponibile. Se qualcuno pretendesse di vivere nell'attualità del sistema di oggetti che gli servono per i suoi bisogni, e in primo luogo per il suo lavoro, vivrebbe letteralmente privo di cose, rifiutando da una parte l'esistente, già segnato dalla morte, e non potendo avere il nuovo, non ancora prodotto. Questo è particolarmente vero per quel che riguarda il settore, in continuo ampliamento, della produzione legata all'elettronica. Che riflessi produce questo fenomeno sull'industria e conseguentemente sul design? I costi di ricerca, di progettazione, di attrezzature, di istruzione, di vendita, sono tali che, dovendo ammortizzarsi in un tempo sempre più stretto, portano fatalmente le aziende ad una mentalità sistemica, m cui l'intercambiabilità, la continuation progettuale, l'aggiunta permanente di valore, devono conciliarsi con una certa stabilità dei processi produttivi, con la possibilità di sostituzioni parziali, di modularità e compatibilità fra prodotti di generazioni diverse, che ha un'influenza diretta sul design, e ne modifica profondamente il significato e i valori. Anche qui estremizzando, si potrebbe dire che in un mondo in cui tutto cambia continuamente, tutto deve restare fermo, nel senso che ogni sistema o generazione di prodotti deve essere compatibile con la precedente e con la successiva: che cioè lo sforzo progettuale originario deve poter contenere in sè non solo tutte le valenze proprie dell'oggetto che si sta costruendo, ma tutte quelle della sua crescita e sviluppo futuri. Da questo punto di vista, e sia pure nel significato a cui ho accennato, non c'è quindi mai stato prima d'ora un momento importante come questo per il design e ogni azienda avanzata hè ha ormai preso coscienza. M a a questo punto e tenendo presenti le caratteristiche di questo quadro, vorrei toccare un'altra questione, il valore di comunicazione del design. Il suo valore specifico. Se è vero infatti, che tutto ciò che viene prodotto comunica qualcosa, anche se chi lo produce non ne è consapevole, così come il borghese di Molière faceva della prosa anche se non ne aveva coscienza, è tuttavia alla comunicazione consapevole che intendo riferirmi in questo contesto: a quei valori di comunicazione intenzionale che l'oggetto manifesta e da cui viene contraddistinto in una concezione di progettualità che non sia volutamente mistificante o approssimativa. In questo senso una qualunque apparecchiatura munita di segnali, una maniglia, una sedia, uno stampato dovrebbero in primo luogo comunicare la loro funzione ed uso, con il massimo di chiarezza e di evidenza. Prendiamo un persona! computer, o un sistema di scrittura, o un qualunque prodotto per il trattamento delle informazioni. È chiaro che i punti focali di queste macchine sono la tastiera e il video. Su di essi si produce la massima concentrazione e tensione dell'operatore. E per quel che riguarda la tastiera, è la forma dei tasti, la chiarezza grafica dei segni (lettere o numeri), i colori che contraddistinguono i vari segnali, l'idea di facilità, semplicità, operabilità che essi suggeriscono che fornisce la comunicazione fondamentale ali'operatore. Un vero design da questo punto di vista offre soprattutto soluzioni tranquillizzanti, sdrammatizzanti, che mettono l'operatore a proprio agio e lo dispongano alla sicurezza del suo dominio sullo strumento. In secondo·luogo altri livelli dicomunicazione vengono dalla forma dell'oggetto, dalle sue dimensioni, dalle sue possibilità di collocazione nello spazio, dall'evidenza di un rapporto uomo-macchina che riesca ad esprimere e che corrisponda ad una reale sperimentazione. Potremo forse concludere questo punto affermando che la correttezza del design di un prodotto è misurabile dal livello di comunicazione che esso riesce ad esprimere della sua natura e delle sue capacità, riducendo al minimo, e in via ottimale eliminando, le zone di ambiguità e di incertezza, e proponendosi all'utilizzatore in un rapporto di massima facilità operativa. Ma un oggetto non vive isolatamente; esso costituisce appena uno dei molti elementi di un paesaggio di oggetti, tra i quali inserisce la sua presenza non come un momento privilegiato e solitario, ma piuttosto come una delle articolazioni di quello spazio, delle sue tensioni, del suo ritmo. Torniamo all'esempio di prima: il persona! computer o il sistema di scrittura. Essi fanno parte di una storia che si è sviluppata in un lungo arco di tempo; l'industria che li produce ha progettato via via altre generazioni di macchine, più semplici, più complesse, con tecnologie differenti, sempre più perfezionate e innovative. Dalla produzione della prima macchina per scrivere meccanica è passato oltre un secolo. I salti tecnologici sono stati almeno tre: l'elettrificazione, l'elettronica, il video. Il design di un prodotto non potrà non comunicare questa continuità e insieme queste innovazioni. Un prodotto non nasce orfano. Fa parte di una industria che progetta decine o centinaia di altri prodotti, più tradizionali, più rivoluzionari, ma tutti legati ad una stessa tematica e ad uno stesso fine: attraverso lettere, numeri, segni, creare, elaborare, trasmettere, diffondere informazioni, lavorare con gli alfabeti, con i programmi, le funzioni, ridurre la molteplicità dei linguaggi, gli obiettivi del lavoro, i risultati della gestione, i prodotti della creatività umana, a informazioni riprodotte e documentate. Anche qui, concludendo: l'ulteriore livello di comunicazione che un corretto design sembra dover fornire è quello dell'unità (se ci è permesso, dello stile) di un'industria in tutte le sue articolazioni produttive, non tanto nel significato più povero ed esteriore della parola, di un denominatore grammaticale e formalistico, quanto in quello più autentico, e si vorrebbe dire aristocratico, di una linea culturale, di una dimensione e tensione espressiva che debbano valere per ogni produzione, e attraverso le quali ogni singolo oggetto rivelerà la comune matrice a una identica qualità di analisi, collegandosi agli altri che lo hanno preceduto nel tempo e a quelli che sincronicamente lo accompagnano e dando così testimonianza di una identità, di una scelta di indirizzo, di una non rinunciata moralità espressiva. Se in tempi passati si poté dire che lo stile è l'uomo, da questo punto di vista si potrà dire che lo stile è l'industria, nella misura in cui la famiglia (o le famiglie) degli oggetti che essa produce appartiene, anche, ad una comune civiltà formale, e in essa si riconosce e per essa viene percepita, identificata e scelta. Ma nemmeno un'industria è un mondo chiuso, che si alimenta di se stesso e che crea una propria cultura autonoma e differenziata, un proprio linguaggio solitario. Quando ciò accade, l'impoverimento è automatico, attraverso la solitudine si arriva progressivamente al silenzio, o al più all'artificialità. Nella misura in cui un'industria è un organismo vivo, capace di autodeterminarsi, consapevole dei suoi fini, portatore di valori, la sua parte-
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