solo in un modo mediato che essi possono anche non lavorare contro l'emancipazione». 1 Come sottolinea B.E. Biirdek, a proposito di questa riflessione di Bonsiepe, «il porsi il problema dei bisogni dell'utente, è strettamente legato alle aspettative di utilità che ha l'utente».RL'immagine vincente del design italiano è, in parte, il risultato di questo atteggiamento sincronico nei riguardi della forma e della funzione degli oggetti, che sono poi invece sempre storici. L'eclettismo degli stili e delle funzioni è sempre causa di incomprensione e di una presenza ingombrante di segni, in un contesto nel quale gli stessi segni possono avere significati diversi, o comunque non in sintonia con le intenzioni del progettista. Analizzando la storia della scuola di Ulm e il rapporto con la com- -mittenza Braun, Tomas Maldonado parla di gute Form, ma afferma anche che «è evidente che la gute Form, atto di dissenso, secondo Max Bill, nei confronti di tina certa industria, si fa atto di consenso, tramutandosi in stile Braun. Il neocapitalismo tedesco ha eseguito in questo caso un'operazione di raffinata austuzia: ha cooptato la gute Form. Sarebbe esagerato, e perfino ingenuo, affermare che lo stile Braun, abusivamente chiamato anche stile Ulm, sia qualcosa di simile ad uno styling del neocapitalismo tedesco. Ma una cosa è indubbia: esso viene a porre in evidenza il reale limite del dissenso della gute Form». 9 S e è vero che molto design, soprattutto quello italiano, è nato come styling, cioè come espressione non tanto di un modello sociale e politico, quanto di una certa impalpabile capacità creativa italiana, è altrettanto vero, comunque, che esistono alcuni settori della convivenza, delle comunicazioni sociali. dei servizi della collettività, nei quali l'assenza di una gute Form è causa di invivibilità e inoltre, da un lato, di relazioni conflittuali, dall'altro di dispersione di risorse economiche e culturali. Roland Barthes aveva definito «logotecnica» tutti quei sistemi in grado di soddisfare bisogni sia attraverso funzioni sia attraverso segni; 10 i prodotti del disegno industriale riuniscono sia la funzione-forma, sia la funzione-segno. Ma quando è eccedente la funzione-segno sulla funzione-forma, e questo è un caso molto frequente nel design italiano e non solo italiano di questi ultimi anni, l'oggetto industriale soddisfa esclusivamente aspettative strettamente comunicative, riducendosi quindi a simbolo; magari solo a status symbol, o comunque presentandosi come parte opzionale di un sistema linguistico artificiale. Il caso del design italiano è esemplare da questo punto di vista; come scrive Vittorio Gregotti, «... bisogna riconoscere che i risultati internazionali del design italiano sono connessi, anche in modo apparentemente contraddittorio rispetto alle altre nazioni più industrializzate, proprio alla sua condizione sperimentale o pionieristica che spesso relega il design ad attività completamente improvvisata e laterale o, al contrario, lo innalza talvolta alla responsabilità della completa individuazione del prodotto». 1 1 Design come segno, design come attività pionieristica, design come rappresentazione non di funzioni ma di simbologie comunicative, design come opera d'autore, design come ricerca di forme nuove nel segno della decontestualizzazione: sono tutte queste qualità e atteggiamenti progettuali che . hanno reso famoso all'estero il design italiano. Un rifiuto totale e senza distinguo delle qualità emerse in questo settore ·della progettazione tridimensionale sarebbe cecità critica e storica. Anche gli elementi decorativi sono interpretazioni e rappresentazioni del mondo e fanno parte del nostro scenario, ci riconos"ciamoin essi, e attraverso questi accadimenti formali instauriamo rapporti con gli altri, con gli oggetti, il territorio, la natura. Ma se è solo questo aspetto a dominare '?, comunque, a condizionare, la maggiore parte della produzione del disegno industriale, allora si rende necessaria una tregua, «una pausa nella creazione incessante di forme nuove destinate ad una rapida usura, perché sono create in vista della loro immediata degradazione e sostituzione con un sempiterno "nuovo modello"; una tregua per ripensare gli oggetti della nostra società e per applicare criteri di valorizzazione che eliminerebbero dal vasto repertorio di forme già esistenti tutto quanto è inutile e carente». 12 Queste sono anche riflessioni di Gregotti di alcuni anni fa; e non rappresentano l'invito ad una autoritaria e dogmatica pauperizzazione delle forme, degli oggetti, ma potrebbero funzionare come un salutare punto di partenza per ridare fiato e, perché no, maggiore dignità etica ai prodotti del disegno industriale, riportando questa attività progettuale al centro del dibattito economico e politico. Il designer deve mantenere la sua autonomia progettuale e culturale, cercando tuttavia di aprire la sua bottega a una serie di situazioni e di territori nei quali è ancora carente o del tutto assente la filosofia del buon funzionamento e della razionalità dei comportamenti: la città come relazione tra soggetti e funzioni collettive, la scuola, la salute ma anche alcune necessità locali, per esempio quel dannato cucchiaino della zuccheriera dei bar che, ogniqualvolta lo prendiamo in mano per addolcire il nostro caffé, facendo leva con il coperchio a cerniera del recipiente, sparge sul banco, per terra, addosEnzo Cucchi, /979 so ai vestiti, lo zucchero. Anzi, poiché esistono alcune pregevoli soluzioni di questo problema, la domanda a questo punto è: perché non sono state acquisite come standard? N ell'ormai lontano 1963, Gilio Dorfles, nel suo saggio «Introduzione al disegno industriale», riflettendo a proposito di un'ipotesi per l'evoluzione futura del design, così scriveva: «Bisogna dunque auspicare che in un prossimo futuro lo stesso verificarsi di particolari crisi economiche o l'avvento di diverse impostazioni sociopolitiche determini un arresto, o quanto meno una limitazione all'incessante avvicendarsi della produzione di nuovi prototipi, e permetta quindi una maggior riflessione e maturazione nell'opera del designer e una minor caccia al nuovo da parte del consumatore»; 13 ma subito dopo sottolineava che «il concetto di arte e di design verranno sempre più interscambiandosi: si dovrà attribuire a molti settori tecnologici e scientifici un valore estetico, mentre verranno a decadere molte attuali strutture artistiche che sono, in effetti già ora, esclusivamente "sovrastrutturali", e, sarà, con ogni probabilità, riattivato un genere di produttività ma~ nuale, sia per scopi psicopedagogici, che a livello altamente tecnologico». 14 Queste sono le due anime del design; ma mentre la seconda, quella estetica, ha già dimostrato la sua capacità di organizzare il mondo degli oggetti all'interno di valori e forme nel segno della bellezza, la tendenza invece più sociale, più semantica, sembra essersi fermata, non certo solo per responsabilità •del designer. Il disegno industriale non ha bisogno né di «autori» né tantomeno di un'anonima produzione selvaggia quanto piuttosto di una sorta di «urbanistica del design», affinché esso non si limiti a stimolare, esclusivamente, la ricerca di nuove forme, sempre più inattese e curiose, ma rifletta sulle proprie potenzialità progettuali, dentro un sistema e una soglia di bisogni, dove la sua assenza pesa più negativamente per l'organizzazione dei rapporti umani: «Abbiamo orrore di ciò che è solo utile. Forse ciò che è utile è veramente bello, ma allora le nostre macchine non sono belle, perché a noi non sono utili». 15 Giovanni Anceschi, Aldo Colonetti, Gianni Sassi Libri di riferimento (1) T. Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano 1976, p. 9. (2) G. Simondon, Du mode d'existence des objects techniques, Paris 1958. (3) T. Maldonado, op. cit., pp. 9--10. (4) W.F. Haug, Die Rolle des Asthetischen bei der Scheinlosung von Grundwidersprucher der kapitalistischen Gesellschaft, in Das Argument, 64, giugno 1971,p.196. (5) A. Toynbee, Il racconto dell'uomo, Garzanti, Milano 1977, p. 12. (6) T. Rexroth, Wareniisthetik-Produkte und Produzenten, Scriptor Verlag, Kronbergrrs. 1974, p. 111. (7) G. Bonsiepe, Saggio in ldz I Design? Umwelt wird in Frage gestellt, Berlino, 19 aprile 1970. (8) B.E. Biirdek, Teoria del design, Mursia, Milano 1977, p. 51. (9) T. Maldonado, op. cit. p. 79. (10) R. Barthes, Sistema della moda, Einaudi, Torino 1970, in particolare il cap. 3, Fra le cose e le parole. (11) V. Gregotti, Orientamenti nuovi nell'architettura italiana, Electa, Milano 1969, p. 78. Anche Renato de Fusco nel suo recente Storia del design, Laterza, Bari 1985. A proposito del design italiano accoglie, pur criticamente, questa riflessione di Gregotti. (12) J. Manà, Il disegno industriale, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1977, p. 125. (13) G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale, Einaudi, Torino 1972, p. 95. (14) G. Dorfles, op. cit., p. 97. (15) B. Brecht, Me-ti Buch der Wendungen in Gesammelte Werke, Suhrkamp Verlag, Frankfurt/Mein 1967. xrr. p. 549.
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