nanti e diversi di arte e letteratura, di intervenire con uno scritto teorico breve sull'esperienza propria. (E interesserò, poi, in sede critica per la stessa ragione, Barilli, e anche Omar Calabrese). A me pare anzitutto che la definizione di ciò che è diversamente «proprio» dei due campi, o linguaggi, è poco discussa. C'è uno scritto di Gombrich del '73, che si richiama a Karl Buhler degli anni Trenta (citato anche da Jakobson nella conferenza del '58 sulle funzioni del linguaggio). Secondo Biihler il linguaggio dell'arte è piuttosto «evocativo», suscita e inventa ambienti e figure, a cominciare dal viso umano con un semplice circolo e alcuni piccoli punti... Quello della letteratura è piuttosto «espressivo», relativo allo stato d'animo, ed «espositivo», cioè capace di descrizione. È certo poi che negli anni Sessanta e Settanta lo strutturalismo linguistico ha accresciuto la tensione alla diff erenza fra letteraturae arte; ma di ciò deve dire un semiologo. Io non trascurerei il fatto stesso che i caratteri attuali della nostra civiltà, . che derivano dai processi di informatizzazione, tendono ora a una scomposizione dei movimenti del lavoro mentale. Ciò investe l'invenzione almeno isolando il verbale del visivo (quest'ultimo è più captato dai media, e Dor- , fles ha certamente ragione). Mi pare che, se si giungesse a un rilievo dei diversi statuti attuali delle due discipline, ciò gioverebbe a una nuova interazione (per gli artisti e gli autori a cui ciò interessa); inoltre permetterebbe un confronto più preciso e nuovo sulla ricerca nei due campi, oggi; non c'è più la somiglianza che c'era nel Sessanta, e i critici stessi non pongono in termini corrispondenti la loro attenzione. Come io stesso dissi, c'è intanto un supposto rapporto, superficialmente inteso, fra la certezza scientifica e quella artistica dei diversi stili. Nei nostri prossimi incontri sulla ricerca letterariae artistica (e anche critica e saggistica) ci interessa tutto ciò. Mi fermo qui. Leggiamo ora Tadini, che anche nel discorso critico ha così forte il riferimento al grande simbolismo poetico, dove è cominciato per molti di noi il moderno. Comeho dipinto ·- uno dei miei quadri Emilio Tadini I «Come ho dipinto uno dei miei quadri» non· vuol dire e «come si deve interpretare quel quadro». Vorrei parlare del modo in cui quel quadro, almeno in parte, è stato un po' pensato ed è stato messo insieme. (E vorrei che fosse chiaro che quello di cui parlerò non corrisponde a un metodo abituale di fabbricazione. Non tutti i miei quadri li ho fatti così, voglio dire). Se andrà bene, sarà lo sguardo di chi lo guarderà, a farlo vivere, poi, il quadro. Sarà quello sguardo a renderlo in qualche (altro) modo interpretabile - o, più semplicemente, godibile. Se proprio andrà benissimo. 2. Avevo voglia di mettere in un quadro una grande macchia di colore. E avevo voglia che quel colore fosse il blu. Forse anche perché avevo dipinto molti qµadri usando praticamente soltanto rossi scuri e bruni, grigit neri. 3. Ecco che cosa poteva essere la macchia blu: poteva essere l'acqua, poteva essere il mare. Perché proprio in quei giorni stavo leggendo la raccolta delle poesie di Eliot. Certe poesie giovanili non le avevo mai lette. E mi aveva molto colpito una poesia pubblicata nella raccolta Poems, nel 1920. Questa poesia è scritta in francese, e si intitola Dans le restaurant. È, quasi parola per parola, una versione francèse di quel che poi sarebbe stato il brano intitolato Death by Water in The Waste Land. In quel branò si sente la presenza di tutta una folla di simboli. E dei più preziosi, dei più eloquenti: di quelli che' si devono lasciare indisturbati. 4. Dentro una specie di quadrato blu che sta a destra ho dipinto un corpo che affonda. E sulla sinistra ho dipinto una figura grande e grossa che accorre con in mano una candela e una girandola. Questa seconda figura indossa una giacca Gilberto Zorio, 1971 di un rosso smagliante. (Certo, avevo anche voglia di dipingere un rosso). Assomigliava a una giacca da cameriere. (In Dans le restaurant, chi racconta è piuttosto assillato da un cameriere). Assomigliava anche a una giacca rossa che avevo comprato in un negozio di abiti usati e che mi piaceva molto. 5. Dopo qualche giorno ci sarebbe stata la presentazione del libro di Gilio Dorfles intitolato Materiali minimi, e io stavo prendendo qualche appunto per il mio intervento. Ho riletto le note ai lavori di Dorfles che avevo pubblicato in quel libro. E ho riletto anche la nota in cui parlavo di certi echi da Laforgue che ini sembrava si facessero sentire nelle poesie ·di Dorfles. Eliot era stato influenzato profondamente da Laforgue. Così, un certo grottesco molto duro si faceva sentire in Dans le restaurant. E si sarebbe fatto sentire profondamente in quella .specie di testo archetipico della poesia contemporanea che è The Waste Land. (C'è grottesco, e comico, anche in Kafka, e in Joyce, e in Céline, quanto a questo - e non certo occasionalmente: ma, per così dire, costitutivamente. Ma noi tendiamo a sottovalutarlo, il comico. Forse perché ci fa paura quel rapporto così «naturale» che, lo sentiamo, si stabilisce regolarmente tra il comico e il senso del niente più assoluto). 6. Qualche tempo prima avevo ripreso in mano un testo che avevo scritto per una mia mostra del 1985. Quel testo si intitolava Sul comico (e a sua volta prendeva spunto da certe note che avevo scritto nel 1979per una mia mostra che si chiamava «Angelus novus»). Avevo fatto qualche aggiunta a quel testo - e l'~vrei pubblicato sul catalogo della mostra che avrei tenuta alla Rotonda di via Besana.' Mi sembrava che quel testo sul comico andasse nella stessa direzione dei quadri che avrei esposto. (Sono tutti quadri dipinti nel 1986). 7. Ho intitolato il quadro di cui sto parlando La versione francese. Per chi non avrà letto· queste note sarà un titolo quasi certamente incomprensibile. Fa niente. E poi, incomprensibile ... Forse sarà capito in qualche altro modo - e andrà benissimo lo stesso. 8.Mi accorgo che tutte le parole pensate o dette intorno alle figure di un quadro tendono a mettere in atto relazioni fra quelle figure .e qualcos'altro - a mettere insieme tutto un sistema di radici che dovrebbern collegare quelle figure a qualche «profondo» (qualche profondo dell'autore, del testo, dei contesti). Mami accorgo anche che le figure dipinte - i dipinti - tendono a fermare ogni cosa (tutto: materiali e possibili sensi) in superficie. Lì (mi viene da dire: felicemente) lì felicemente ogni cosa e ogni figura sta e rimane in una specie di quiete, e insieme mostrando Ja forza elementare di quella che potremmo chiamare la sua irrevo- •cabilità. Sta lì per essere guardata. Anche se dietro a ogni sguardo («dietro» come «dietro a uno schermo» ma anche come «dietro a un capofila») anche se dietro a ogni sguardo, dicevo, può ripullulare ogni volta il solito subbuglio delle parole. Le parole, insomma, è come se si sforzassero di approfondire le cose, di portarle giù nel profondo. Le figure, è come se si sforzassero di tenere le cose in superficie: nella luce abbastanza dura della superficie. (E questo - qui, in questa occasione- potrebbe essere il mio minimo contributo alla questione del rapporto tra pittura e letteratura). 9. Un quadro non è il discorso che in un modo o nell'altro si cerca di farci sopra. O meglio non è solo quello. Ogni quadro è, in un certo senso, soprattutto la propria ovvietà, quella lettera nascosta lì. Che fatica, per riuscire a vederla! B.isogna che il nostro occhio si riduca per un attimo allo «stato selvaggio», e guardi e basta- prima che la gigantesca (e sacrosanta) macchina sferragliante di Parole Sensi & Significati si rimetta rumorosamente in moto, trascinando fuori dai «contesti», e tirandoseli dietro arimorchio, un'infinità di idee più o meno maestose, di nopii leggeri come carta velina o pesanti come sassi, di vere e proprie scarabattole fondamentali ... LO STORICO E L~IMPRESA Il 28 aprile scorso, nella sede centrale milanese di Montedison - in occasione dell'uscita del volume Energia e Sviluppo. L'industria elettrica italiana e la Società Edison, per la collana Storica Einaudi, Montedison ha indetto un incontro su «Lo Storico e l'Impresa». La relazione è stata tenuta da Alfred D. Chandler Jr., docente di Business History presso l'Università Harvard. L'incontro è stato presentato da Mario Schimberni, Presidente della Montedison, dal Senatore Leo Valiani e da Giulio Sapelli, Direttore dell'Associazione di Storia e Studi sull'Impresa. La presenza di Alfred D. Chandler Jr., per Montedison Progetto Cultura, sottolinea la rilevanza e il senso storico della realizzazione e della pubblicazione del primo lavoro di ricerca compiuto sugli archivi Montedison, alla riscoperta delle radici Edisori del Gruppo. Con Strategia e Struttura Alfred D. Chandler Jr. si impose all'attenzione come studioso «rivoluzionario» della storia contemporanea del capitalismo e delle sue strutture imprenditoriali. Si deve a lui l'interpretazione - oggi considerata classica- dello sviluppo della struttura organizzativa come risultato dello sviluppo della «strategia», attraverso l'alternarsi di fasi storiche di espansione delle risorse e di razionalizzazione del loro uso. E si deve a lui l'aver capitalizzato e svolto creativamente i contributi di J.K. Galbraith, E.S. Mason, W.J. Baumol, E.T. Penrose e d'altri, nella sua opera La Mano Visibile, il cui tema - sono parole dello stesso Chandler - è che «la moderna business enterprise ha preso il posto di meccanismi di mercato nel coordinamento delle attività:dell'economia e nell'allocazione delle sue risorse. In molti settori dell'economia la mano visibile del management ha sostituito ciò cui Adam Smith si riferiva col concetto di mano invisibile delle forze di mercato». Alfred D. Chandler Jr. è attualmente «Isidor Straus Prqfessor of Business History» all'Università Harvard, della quale è membro fin dal 1970. Prima di passare alla Harvard Business School, Chandler aveva insegnato al Mite al Department of History. della John Hopkins University. Oggi Chandler sta lavorando alla stesura definitiva di una importante comparazione internazionale sulle modalità dello sviluppo della grande impresa negli Stati Uniti, in Inghilterra, Germania, Francia e Giappone, con l'obiettivo di pervenire a una teoria generale dello sviluppo dei fattori manageriali che stanno alla base del successo della dimensione grande rispetto a quella piccola nello sviluppo dei fattori produttivi. ENERGIAESVIWPPO l'INDOSTRIAELETTRICAITALIANA ELASOCIETÀEDISON j STORICAEINAUDI __ ___.-1 -~------ Einaudi e Montedison presentano Energia e Sviluppo. L'industria elettrica italiana e la Società Edison. Il volume è il frutto dell'incontro tra la volontà culturale dell'Azienda e il prezioso lavoro di ricerca e di studio dell'Assi, Associazione di Storia e Studi sul- /' Impresa. Nucleo centrale di Energia e Sviluppo è il saggio di Claudio Pavese sulla Edison. Intorno ad esso ruotano i lavori .di Bruno Bezza sugli investimenti elettrici italiani in Argentina, di Luciano Segreto e di Peter Hertner sui capitali svizzeri e tedeschi impiegati nel settore elettrico in Italia, e di Renato Giannetti sulle caratteristiche tecnologichr e produttive dei diversi sistemi elettrici regionali. E la storia di «una sfida continua scrive Giulio Sapelli nell'introduzione al volume, di una continua ricerca che si dipana tra vincoli ferrei ma anche tra opportunità e pratiche sociali e culturali. Le élites industriali possono lasciar cadere e non intendere simili opportunità, oppure coglierle e perseguirle, assolvendo così appieno al proprio ruolo imprenditoriale». LOSTUDIODEL PASSATOÈ LAFONTE DELPRESENTE «È difficile immaginare una trasformazione e uno sviluppo delle capacità di governo e di controllo, senza una nuova stagione intellettuale». Così il testo di presentazione al volume Energia e Sviluppo. E continua: «Tanto più in un momento in cui i grandi mutamenti in atto pongono in evidenza . la necessità di concepire l'attività imprenditoriale nel conte- ' sto di siste:_mintegrati, aperti nei confronti dell'ambiente esterno». E chiaro il riferimento alla filosofia manageriale che sta guidando oggi il Gruppo Montedison, che dà l'impronta di sfida continua alle frontiere dell'innovazione. «La disciplina storica ha riservato.di recente, anche nel nostro Paese, una attenzione nuova verso il sistema di interrelazioni che esiste tra le varie forme della direzione e della proprietà d'impresa e lo sviluppo più generale della società». Ma questo spiega pienamente il serio e approfondito interesse della Montedison per la propria storia: «Lo studio della esperienza storica dell'impresa può essere una delle condizioni atte a consentire alla direzione manageriale di meglio definire la propria missione, di conoscer:ee di simulare i comportamenti del passato nella prospettiva futura, di accrescere la propria capacità di governo nelle relazioni tra impresa e ambiente. Questo, tanto più oggi, quando nel nostro Paese tende a diminuire quella identificazione tra proprietà e controllo che per lungo tempo ha contrassegnato i caratteri costitutivi del nostro sistema industriale». L'apertura degli ar~hiviMontedison agli studiosi è dunque più che un segnale. E la viva testimonianza di un'impresa fortemente innovatrice che, lungi dal mettere una pietra sul passato, ne vuole cogliere ammaestramenti e linee generative.
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