Alfabeta - anno VIII - n. 88 - settembre 1986

TerrorismoD.aNewY. ork 111985ha preparato la scena e il 1986ha lanciato il cambiamento: gli americani hanno paura, hanno paura del terrorismo. Lanazione - ha scritto bene Aniello Coppola su l'Unità - che fa del coraggio individuale una delle sue virtù cardinali sta conoscendo una inaspettata ondata di paura. La paura è di moda. Tenere i bambini a casa, basta con le vecchie gite in Europa complemento dell'educazione appena fuori dal college, niente tour culturali, persino Sylvester Stallone, che ha provocato infiniti saggi di sociologi europei con il suo Rambo, ha paura ad andare al Festival di Cannes. La paura degli americani ha aperto una specie di doppia spirale: i cittadini Usa stanno a casa perché temono il terrorismo e le rappresaglie del dopo blitz su Tripoli. Allo stesso tempo gli europei si sentono offesi da questa fuga degli alleati che mette in crisi settori non marginali dell'economia del vecchio continente e lasciano intravedere larghi atteggiamenti di «antiamericanismo». Di conseguenza, in un processo che sarebbe buffissimo se non nascondesse ragioni morali pericolose, gli americani si rinchiudono ancora di più nella Fortezza America: vedete? - dicono - non solo il nemico ci attacca ma persino i nostri alleati sono infidi. Così, anche Manhattan, la cittadella capitale della cultura che è sospesa tra Europa e Usa e a entrambe appartiene, va lentamente navigando verso il resto degli Usa. La columnist del New York Times Flora Lewis vola a Milano per un congresso internazionale e vede sfilare i ragazzi contro il bombardamento di Tripoli: scrive di «cortei aintiamericani». È vero? Sono davvero «antiamericani» quei ragazzi e ragazze d'Europa il cui gusto, cultura e stile di vita sono plasmati pressoché integralmente dagli States? La Germania Ovest, per dirne una, che il filosofo Jiirgen Habermas considera «ormai uno stato americano» è antiamericana? E l'Italia o la Francia? In questo tendersi delle relazioni il terrorismo sta ottenendo probabilmente la sua maggiore affermazione negli anni del dopoguerra. Un esito difficilmente cercato lucidamente a tavolino, più probabilmente trovato per caso, ma di certo importante. Infatti, per capire bene che cosa sta accadendo nell'inconscio collettivo degli americani, ma anche nella testa dei loro governanti che agli umori popolari sono assai più sensibili dei loro colleghi d'oltreoceano, occorre tornare in-, dietro e verificare che cosa il terrorismo ha rappresentato per gli Stati Uniti. Contrariamente ai casi tedesco e italiano degli anni '70, all'Ira per la Gran Bretagna, alle bombe corse o antisemite o fasciste in Francia, ai separatisti baschi, tutti casi in cui la componente «politico-ideologica» era ed è perfettamente leggibile , il .....,. terrorismo colpisce gli americani : «in quanto tali», come una nebulo- .s sa confusa ma violenta. Su un ae- ~ Cl., reo il radical ebreo di New York, abbonato al settimanale The Nation, ha paura quanto il suo connazionale reaganiano della Virginia. Molti dei morti e dei sequestrati americani all'Università di Beirut appartenevano alla corrente progressista della politica Usa. Quel che ha atterrito gli ameri- ~ cani - per il modo particolare con l cui essi, gente comune o sofisticati ~ analisti, guardano alla politica-è il manicheismo del terrorismo. Gli Stati Uniti sono un paese dove nei licei si insegna ancora che Machiavelli rappresenta il «male» in politica, e che gli Usa hanno introdotto con la propria costituzione la dimensione etica («la ricerca della felicità») nella politica mondiale. Sul settimanale The New Republic il giornalista e critico dei media Michael Massing scriveva a proposito del nuovo ambasciatore Usa all'Onu, generale Vernon Walters: «La sua concezione del ruolo americano nel mondo è ancora legata alla seconda guerra mondiale, sorridenti soldati Usa che passano in giro tavolette di cioccolata agli europei». Come è possibile, una volta rimossa la sindrome Vietnam, capire che un giovane islamico può guidare un camion imbottito di esplosivo contro la caserma che ospita i nipoti dei distributori di cioccolata? e on la stessa pervicacia con cui l'opinione pubblica europea s'è accontentata di bollare per anni il presidente Ronald Reagan come un «cow boy», perdendo di vista la sua operazione globale di spostamento al centro dell'asse politico americano, adesso sembra soddisfatta di fare ironia per «l'americano codardo e guerrafondaio». Leggendo gli atti di un recente convegno di «falchi» sul tema antiterrorismo (Terrorism: how the West can win, edited by Benjamin Netanyahu, Farrar-Strauss-Giroux editori, New York 1986, pp. 254, $ 18,95) questo errore e le sue possibili conseguenze politiche e persino «antr<?PC?_iog~chsea»ltano agli Gianni Riotta occhi. Benjamin Netanyahu, per anni ufficiale delle forze speciali di Israele, è oggi ambasciatore all'Onu. Suo fratello Jonathan era a capo del commando israeliano che nel 1976 liberò gli ostaggi detenuti in un aereo dirottato ad Entebbe. In quell'azione-che diventò il sim- •bolo della risposta dura al terrorismo - Jonathan Netanyahu fu ucciso e da allora il fratello amba datore e il padre Benzion, docente di storia all'università di Cornell, hanno lanciato una serie di forum per analizzare la risposta dell'Occidente al terrorismo. Nel volume appaiono tra gli altri interventi del segretario di stato Claudio Parmiggiani, 1981 americano George Shultz, dello studioso Leszek Kolakowski, del ministro della giustizia Edwin Meese, dei giornalisti americani Bob Woodward e George Will, ma il senso di tutti i lavori è già nel titolo: come può vincere l'Occidente? La battuta condensa protagonisti e strategia dello scontro. La battaglia è tra Occidente, costituito dalla centrale americana, con il vigore di Israèle, e la sapienza un po' sorniona d'Europa, e il resto del mondo, comunisti, islamici e terzomondisti, padrini, in un modo o nell'altro, del terrore. La strategia di successo consiste nel battersi insieme in una nuova crociata. Ad un'opinione pubblica spaventata come quella americana questa chiamata alle «coorti» può apparire come estremamente appealing, e una prima prova l'abbiamo avuta nel consenso pressoché assoluto (liberals compresi) ricevuto da Reagan dopo il raid sulla Libia. È stato, quasi da solo, il critico della Columbia University, Edward Said, a rilevare in una sua recensione di Terrorism: how the West can win il senso globale di questa strategia di «muro contro muro», ma Said, di origine palestinese e intellettuale riconosciuto, esprime posizioni tanto raffinate quanto solitarie negli Usa. Lo schema della risposta occidentale al terrorismo «i buoni contro i cattivi» ha tutte le premesse per riuscire convincente, se non sul piano politico-diplomatico, almeno su quello dell'immagine e della comunicazione. Ma, come ha scritto l'ex direttore del Bilancio, il reaganiano pentito David Stockman nel suo libro The Triumph of politics: «L'immagine è tutto quello che interessa agli uomini del presidente». L e proposte di Netanyahu vanno tutte in questa direzione, dal blocco delle informazioni ai mass media, ad un ufficio di consultazione tra gli alleati in tema di terrorismo: c'è la guerra e il nemico è il terrorismo. Non si tratta di posizioni estreme. Il polemologo Edward Luttwak, autore del celebre Il Pentagono e l'arte dellaguerra, forse il consigliere della Casa Bianca più aggiornato, in una intervista per L'Espresso mi diceva esattamente le stesse cose: il terrorismo arabo ha come nemico l'Occidente, l'Occidente deve difendersi e se voi europei nicchiate gli americani dovranno lasciarvi galleggiare da soli, verso un declino terzomondista, un po' come accadde all'impero ottomano. Una volta che si lega in un nesso ideologico sovietismo, islamismo, integralismo il risultato è la contee ' zione di un nemico compatto, cui opporre un fronte che si auspica altrettanto coeso. Per arrivare a questo esito servono un paio di capriole storiche, per esempio lasciar fuori da questo schema ogni terrorismo di matrice nazista o nazionalista (baschi e irlandesi, per esempio) o dimenticare la battaglia teorica antiterrorista del primo leninismo, ma tutto viene superato grazie ad un algoritmo preciso: le lotte di liberazione occidentali, la resistenza francese per esempio, non hanno mai fatto ricorso al terrore contro i civili e hanno generato democrazie. L'Algeria, che ha usato il terrore contro i civili, ha invece generato un regim~ non democratico. U n'altra definizione viene dall'ex direttore della Cia William Colby, oggi consigliere alla International Business Government Counselors (che spiega alle aziende i rischi che corrono nei vari paesi). Secondo Colby «terrorismo è una tattica di violenza indiscriminata usata contro terzi innocenti per raggiungere effetti politici e deve perciò essere distinta dall'uso di violenza contro i simboli e le istituzioni di un potere contestato, contro i simboli e le istituzioni di un potere contestato, che è sfortunatamente la regola della vita politica internazionale». La distinzione di Colby è sottile ma interessante: se la violenza colpisce «simboli» politici non è terrorismo, se colpisce passanti lo è. La Br entrano in una categoria con la morte di Aldo Moro, Prima Linea in un'altra con la morte dello studente torinese Emanuele Jurilli. Si potrebbero contrapporre a queste tesi altri argomenti, ricordare il terrorismo «filoccidentale» del secolo scorso in Russia, opporre una lettura non manichea del rapporto stato-terrore (l'ha fatto benissimo Hans Magnus Enzensberger a proposito della polizia segreta zarista e dei bombaroli ottocenteschi) che va avanti ancora oggi, come ha dimostrato lo scrittore e giornalista Peter Maas (autore di Serpico) nel suo ultimo libro Manhunt, caccia all'uomo: il primo alleato del colonnello Gheddafi negli Usa era un ex agente della Cia, che forniva armi e segreti ai libici. Queste risposte, teoriche o politiche, potranno venire in altra sede. Qui basti rintracciare nelle due ansie che agitano l'America, quella della gente comune per gli attacchi terroristici e quella dei think tank conservatori per la chiamata alla battaglia «panoccidentale», le fonti di un sommovimento che potrebbe non essere superficiale: la chiusura dell'America in un ritrovato isolazionismo, questa volta condiviso anche dal partito democratico; l'unificazione di un fronte islamico (magari sotto l'astuta e religiosamente improbabile guida della Siria, retta dagli Alawiti eretici del presidente Assad); l'irresolutezza di un'Europa malmostosa e incerta; lo scivolare fuori scenario dell'Urss di Gorbaciov. Per ora si tratta solo di ipotesi, ma vari fatti vanno già addensandosi attorno a ciascuna e gli scherzi europei dell'estate '86 (sapete come si balla la rumba di Rambo? danzando di gran corsa all'indietro) potrebbero presto lasciare il posto a meno divertenti realtà. pagina a cura di Paolo Valesio e Stefano Rosso

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