Alfabeta - anno VIII - n. 86/87 - lug./ago. 1986

- • Severinoe,f~!reo tempo Emanuele Severino Destino della necessità Milano, Adelphi, 1980 pp. 597, lire 50.000 Emanuele Severino Gli abitatori del tempo Roma, Armando, 1981 pp. 200, lire 10.000 Hans Jonas Lo gnosticismo tr. it. Torino, Sei, 1975 pp. 381, lire 27.600 Francesco Calvo voce ~Progetto~ in Enciclopedia Einaudi, vol. 11 L a riflessione filosofica sulle origini della modernità sembra esposta a un singolare destino: le origini slittano verso un passato sempre più remoto, fino a perdersi in quella che non sarebbe improprio chiamare «la notte dei tempi». Se già il cristianesimo è moderno per aver decretato il passaggio da un tempo ciclico a un tempo lineare (Lowith), e già Platone è moderno per aver inaugurato la stagione della metafisica (Heidegger), non sarebbe sorprendente scoprire che, in ultima analisi, siamo moderni da sempre. L'immagine imperante di una modernità secolarizzata e «disincantata», che si definisce in antitesi al mondo statico della vecchia Europa, sarebbe allora il frutto di una illusione ottica. La discontinuità apparente nasconderebbe una continuità sotterranea, un processo millenario e graduale di cui percepiamo oggi la fase acuta: «Il senso del mondo dal quale è posseduta la civiltà della tecnica non è una deviazione dallo spirito della cultura europea tradizionale, ma proviene dal passato più lontano di questa tradizione» ( Gli abitatori, p. 14). La genealogia proposta da Severino ha però la natura di un passaggio al limite: di un salto qualitativo per cui la riflessione sulle origini dell'Occidente sembra sconfinare nel terreno del mito. L'atto di nascita dell'Occidente sarebbe, com'è noto, quello che stabilisce l'evidenza (presunta) del divenire, riducendo l'ente al rango di puro non essere, nato dal nulla e destinato al nulla. Ma l'ostinato rigore logico del discorso non attenua l'impressione di avere di fronte una versione per così dire laica del mito della caduta. Sullo sfondo della temporalità come illusione ontologicafondamentale si disegna infatti l'immagine vuota di uno stato di natura pre-storico che appare avvolto da un alone favoloso, o appunto mitico, quasi un'età dell'oro «all'inizio dei tempi». All'immagine della caduta alludono del resto le pagine, estremamente suggestive, che il Destino della necessità · dedica all'origine del linguaggionel segno del nichilismo. L'abbandono dell'essere per il divenire si inscrivenella struttura stessa delle lingue indoeuropee attraverso il fenomeno della flessione - il «piegarsi»dell'ente alla possibilità dell'azione e quindi della tecnica - e se la grammatica descrive il fenomeno della variazione desinenziale come effetto di una «caduta» (il casus o la ptosis), questa assume decisamente la valenza di una «caduta originaria» (di una «caduta dell'essere»; p. 258). Come se il linguaggioregistrasse, perfino nella sua nomenclatura tecnica, la memoria inconscia dell'evento da cui trae origine. La stessa direzione interpretativa sembra confermata dall'immagine, si direbbe scelta apposta, del- • la «falla» nella nave ( Gli abitatori, p. 24). «Falla» (come anche «fallo», «falso») rimanda a una famiglia semantica - la stessa per esempio del greco sphallein, inciampare - che in tutta l'area indoeuropea comporta significati come «cadere», «errare», «ingannare» con una mossa astuta e fatale. La falla è in questo caso l'assunto metafisico della realtà del divenire, percepito come incrinatura nascosta da cui procede l'apertura del nichilismo. Siamo alle radici della volontà di potenza. Per effetto della falla invisibile «l'uomo ha bisogno di Dio (o della prassi rivoluzionaria, o della tecnica), ossia ha bisogno di un fondamento dell'ente» (p. 32, s.n. ), o, in altre parole: cercalapotenza per colmare il vuoto del- /' ente. Che questa ricerca si configuri all'inizio come una «ricerca della salvezza» mostra come il divenire non sia separabile da un'esperienlative. L'impresa del razionalismo classico va già in questa direzione (la riduzione cartesiana dell'animale a macchina è funzionale a una mathesis tecnico-scientifica in cui la natura risulti totalmente trasparente allo sguardo dell'analisi). Ma gli sviluppi dell'epistemologia novecentesca - Severino ha in mente soprattutto il neoempirismo logico - rappresentano un passo ulteriore. Le stesse leggi fisiche si trasformano infatti da descrizioni del corso necessario degli eventi in previsioni probabilistiche sempre suscettibili di smentita. È evidente che una forma può essere riprodotta, e quindi «dominata», solo a condizione di poterla analizzare in una somma di parti senza residui, come l'immagine televisiva che a distanza appare continua, pur essendo una costellazione discontinua di punti luminosi. Allo stesso modo il ripetersi regolare di un evento fisico non sarà più il manifestarsi di un'unica forma coerente (la legge), ma un succedersi incoerente di fatti puntuali da cui la legge è di volta in volta confermata o smentita. -•~'Quadrimestrale del Centro di Ricerca sulla Tradizione Manoscriua di Autori Contemporanei. Uni1·ersitàdi Pl11·ù1 Nell'ottavo numero Intervista a Ernesto Sabato a cura di Cesare Segre Una prosa inedita di Umberto Saba Il «Fondo Carlo Levi» dell'Università di Pavia Saggi di Fredi Chiappelli, Paolo Giovannetti, Giuseppina Restivo, Franco Loi Inlibreriaa lire I0.000 Abbonamento per un anno (3 numeri) Lire 28.000 Inviare l'importo a Cooperativa Intrapresa Via Caposilc 2. 201.H Milano Conto Corrente Postale 15431208 za di angoscia e di vertigine, e si potrà dire allora che il senso recondito della tecnica come forma suprema della volontà di potenza è quello di un grandioso esorcismo collettivo contro l'horror vacui: la ricerca sempre rinnovata di un sostegno assoluto che trattenga il «mortale» dal precipitare nel niente. La corsa della volontà di potenza è però fatale come un voyage au bout de la nuit: il divenire sfugge per definizione alla presa, e il tentativo di fermarlo è destinato allo scacco. Di qui il carattere inesorabilmente cumulativo dell'avventura tecnica, il suo procedere verso forme via via più potenti di potenza (p. 32). L'affondare, si direbbe, è direttamente proporzionale allo sforzo di non affondare. (Ma una figura metaforica non meno pertinente sarebbe l'immagine di una mano che stringe tanto più la presa quanto più l'oggetto si volatilizza). Cf è un altro aspetto decisivo: la logica della volontà di potenza è una logicadel divide et impera. Il progetto di un dominio illimitato sulle cose esige la distruzione di ogni vincolo che possa limitàre il progetto, e il limite per eccellenza è la forma, intesa come nesso organico di parti correTenendo fermo questo esito - l'atomizzazione analitica dell'esperienza come condizione di un potere illimitato - e le considerazioni iniziali sul pathos della caduta e della vertigine, vorrei proporre un altro scenario arcaico. Nessuna dottrina mitico-religiosa ha meditato l'evento della caduta con l'insistenza dello gnosticismo tardoantico. Ma soprattutto: la percezione della forma - legge, struttura - come vincolo oppressivo è un carattere dominante della tradizione gnostica. Il cosiddetto «acosmismo» gnostico oolpisce non solo e non tanto il mondo materiale quanto l'universo fisico e umano nel suo aspetto di realtà ordinata, nei suoi ritmi e nelle sue leggi. La categoria classica di «cosmicità» cambia radicalmente di segno, perché «anche qui il cosmo è ordine e legge, ma un ordine rigido e nemico, una legge tirannica e malvagia» (Jonas, p. • 269). Se Dio e mondo sono domini incompatibili, l'harmonia mundi diventa la voce delle sirene a cui lo spirituale deve sottrarsi per raccogliersi nell'identità immutabile del principio. Naturalmente il rifiuto gnostico non pare finalizzato al dominio (p. 344): se mai alla rottura di ogni legame con le potenze terrene. E nondimeno la valutazione gnostica della natura esprime un'insofferenza del limite come ostacolo (illusorio) al Pleroma che appare del tutto analoga, nel suo ordine, alla progressiva riduzione del limite come forma oggettiva messa in atto dalla moderna volontà di potenza. La persistenza sotterranea di temi gnostici nel pensiero occidentale è un capitolo già esplorato e tutt'altro che concluso. A titolo indicativo potrà essere utile rammentare due punti: 1) la continuità tra l'acosmismo gnostico e taluni aspetti delle teologie riformate (si pensi al principio luterano della giustificazione per fede e alla tesi gnostica riportata da Ireneo, Adversus Haereses I 6, 2-3, secondo cui gli spirituali «sarebbero salvi ( ... ) non per le opere, ma per il semplice fatto di essere "spirituali"»; 2) la complicità paradossale, messa in luce dalle analisi ormai classiche di MaxWeber, tra l'«acosmismo» delle teologie riformate, e in particolare di quella calvinista, e la moderna espansione tecnico-capitalistica.1 È proprio il distacco dai beni mondani (il rifiuto di ogni compromesso «estetico») a promuovere qui l'accumulo del capitale e quella crescente razionalizzazione del lavoro che porterà alla verwaltete Welt di adorniana memoria. Il moderno razionalismo presuppone insomma una frattura tra uomo e mondo (qualità soggettive e oggettive, sostanza pensante e sostana estesa) che è anche, col suo appannaggio di miti angosciosi, la «fondamentale esperienza» dello gnosticismo antico. 2 L a diagnosi del nichilismo proposta da Severino richiama con forza questa possibile lettura «gnostica» della tecnica moderna. La «persuasione che l'ente sia niente» è, come si è visto, acosmica, porta alla distruzione progressiva dei nessi organici - della natura come ordine - sacrificati alla volontà di potenza. Ma la via d'uscita indicata da Severino è, di fatto, la negazione del divenire, il risveglio della falsa evidenza del tempo come «alienazione essenziale». E qui tutto si complica, le carte in tavola sembrano mescolarsi. La metafora del risveglio, le figure dell'alienazione, della prigionia in un mondo consegnato al principio ostile della ripetizione frustrante, non appartengono anche loro, e anzi soprattutto loro, al bagaglio mitico dello gnosticismo? «Vedi, o figlio, attraverso quanti corpi, quanti ordini di demoni, quante concatenazioni e rivoluzioni di stelle dobbiamo aprirci il cammino?» (cfr. Jonas, p. 72). Il cammino fatale della volontà di potenza è incatenato, come l'anima gnostica progioniera, al labirinto del tempo: è il tempo l'illusione essenziale, il senso fondamentale dell'idea gnostica di salvezza è quello appunto di una salvezza dal tempo, di un atto che interrompa la continuità temporale immettendo «qui ed ora» nella pienezza atemporale dello spirito. Ma il gesto metafisico con cui Severino smaschera l'inganno del tempo (una sorta di «rivoluzione copernicana» dove lo scorrere delle cose, come in quella il movimento del sole, viene ridotto a pura apparenza), risulta allora identico al gesto con cui lo spirituale si libera dal labirinto dell'apparire e si riscatta dal proprio peccato d'origine: la credenza nella realtà del finito. Se il tempo esprime la finitezza costitutiva delle cose, il loro compromesso col nulla, la posizione di Severino comporta, come la metafisica gnostica, un rifiuto radicale della finitezza. Quella caduta originaria che Severino interpreta come l'aprirsi illusorio del divenire, è intesa dalla mitologia gnostica come il gesto aberrante di prendere sul serio la distanza da Dio, di credere possibile un mondo che non sia Dio: e il fantasma evocato prende corpo (per lo gnostico come per Severino) per una serie indefinita di secoli. Con un singolare colpo di scena il persecutore sembra trasformarsi in eresiarca. Come decifrare allora la strana ambiguità di questo nichilismo, che Severino sembra descrivere in superba e sdegnosa solitudine - in una scena che Blumenberg definirebbe «naufragio con spettatore» - quando poi gli esiti di quel nichilismo, cioè la negazione radicale del limite come valore, coincidono paradossalmente col presupposto ultimo del suo pensiero: la negazione radicale del tempo come finitezza? Converrà forse ricordare che lo gnosticismo antico esplica la sua condanna del saeculum in termini fortemente ambivalenti. La negazione del valore relativo del mondo oscilla tra due esiti opposti: tra una variante ascetica e una variante libertina, tra il rifiuto sdegnoso di ogni commercio col mondo e l'uso indiscriminato dello stesso.3 Ora, la distanza fra libertinismo e ascesi come possibilità interne alla gnosi antica non è forse meno ingannevole di quella che sembra separare Severino dall'oggetto della sua diagnosi. L' «astinenza» totale dall'uso del mondo (la negazione del dominio) discende infatti dallo stesso assunto metafisico che spingerebbe l'Occidente a rincorrere un fantasma di potenza senza limiti: eritis sicut deus. In termini più rigorosi, questo assunto è l'impossibilità della mediazione, o l'impossibilità di pensare il mondo come espressione di un principio, come realtà modalmente (assiologicamente) altra dal principio ma non opposta e non esterna a quello: l'assenza di una concezione graduata, analogica, dell'essere. Per una ontologia così radical- . mente binaria (verrebbe da dire «digitale») la finitezza non sarà una modalità ontologica relativa, ma pura e semplice negazione dell'essere. Essere e finitezza (essere e tempo) sono scomparti separati, il fuoco dello spirito dissolve la lettera e risplende nell'autosufficienza vittoriosa dell'istante. M a il tempo è anche, per la metafisica platonica e ago- "° stiniana, la dimensione 1:1 .5 propria dell'anima, intesa come ~ mediazione tra l'intelletto indiviso c:i.. e lo spazio fisicodivisibile: il tempo ~ imago aeternitatis e l'anima mundi ...., rivestono, già nel Timeo, una fun- .9 zione affine. È allora del tutto con- ~ ---.r seguente che il dualismo gnostico ~ comporti una netta svalutazione } della psyché a favore dello spirito, t-.. • nel quadro di un antagonismo lu- ~ ce/tenebra che non concede vir- ~ i:: tualmente spazio alle potenze intermedie (Jonas, p. 347). Né può ~ essere motivo di sorpresa che l'in- l quisitore implacabile della follia ~

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