Alfabeta - anno VIII - n. 86/87 - lug./ago. 1986

ADELPHI Porfirio L'ANTRO DELLE NINFE • A cura di Laura Simonini «Classici», pp. 286, L. 40.000 Henry Corbin CORPOSPIRITUALE E TERRA CELESTE Dall'Iran mazdeo all'Iran sciita « Il ramo d'oro», con tre tavole a colori, pp. 336, L. 35.000 Frederic Prokosch GLI ASIATICI «Biblioteca Adelphi », pp. 364, L. 25.000 Ernst Junger UN INCONTRO PERICOLOSO «Biblioteca Adelphi », pp. 200, L. 16.500 Jonathan D. Spence IMPERATORE DELLA CINA Autoritratto di K'ang-hsi «Biblioteca Adelphi », pp. 258, 5 tavv.f.t., L. 20.000 losif Brodskij POESIE Edizione con testo russo a fronte, ' a cura di Giovanni Buttafava « Biblioteca Adelphi », pp. 224, L. 22.000 Anna Maria Ortese L'IGUANA Seconda edizione «Fabula», pp. 204, L.16.000 lngeborg Bachmann TRE SENTIERI PER IL ~AGO Seconda edizione «Fabula», pp. 234, L. 16.000 Colette LA NASCITA DEL GIORNO «Piccola Biblioteca Adelphi », pp. 152, L. 9.500 Gottfried Benn CERVELLI A cura di Maria Fancelli Con un saggio di Roberto Calasso «Piccola Biblioteca Adelphi », pp. 128, L. 9.000 Arthur Schnitzler BEATE E SUO FIGLIO Seconda edizione «Piccola Biblioteca Adelphi », pp. 124, L. 7.500 Ristampe: EdgarWind MISTERI PAGANI NEL RINASCIMENTO Terza edizione riveduta «Il ramo d'oro», pp. 482, 102 ili. f. t., L. 60.000 Max Stirner L'UNICO E LA SUA PROPRIETÀ Seconda edizione Con unsaggiodi RobertoCalasso « Biblioteca Adelphi », pp. 432, L. 25.000 tà, a sottopormi al supplizio?». Ma devo anche dire che questa smania di autopunizione non mi dura a lungo. Anzi, certi giorni, senza che me ne siano chiari i motivi, mi sollevo d'istinto e per quella improvvisa sommossa interna mi viene voglia di sfogare altrimenti questa paziente maestria da spadaccino, archibugiere, mannaiolo, e non so quant'altro, che ho nel tempo acquisita, esercitandola con inaudita spietatezza su di me. Confesso che mi balena in quegli attimi l'assassinio come una soluzione quasi allegra, dopo così tanti tormenti. Una serie di coincidenze sembra innescarsi in mio favore ed io, dovunque, vedo delittuose possibilità. L'altra sera, ero entrata per caso in un cinema, in cerca di un qualche refrigerio a quelle ossessioni. Ed invece il caso volle che io scegliessi di vedere Lucida follia, dove ad un certo punto c'è un assassinio immaginato, come anche a me capita cento volte di immaginarne. Dallo schermo la sagoma di un improbabile impiccato penzolava davanti ai miei occhi: tale e quale le azioni che so che non commetterò mai. Ma quando fantastico di compiere quei misfatti, un urlo selvaggiomi esce dalla gola come mi fossi liberata di un peso, come dopo aver gettato un sacco di pietre col classico cadavere, al fiume. «Non son io, non son io la colpevole!» mi sembra di gridare in quei momenti.«Ora vi mostrerò, signori, da chi dipende ogni male». E quasi mi metto a danzare dalla gioia brandendo un qualsiasi pesante oggetto d'offesa davanti all'ignara ma non innocente persona, che mi sta davanti, e che senza nulla sospettare non smette di parlarmi delle sue recenti insonnie, oppure davanti a quell'altra che ha preso l'energica decisione di salvarmi, e che a tutti i costi vuole prendermi sottobraccio per condurmi verso la vera vita. Ma è solo un momento. Il tempo di un breve lampo assassino, come lo sfogo di un gatto che subito faccia rientrare le grinfie troppo precipitosamente sfoderate. Mi ritiro, allora, con la compostezza che mi distingue, silenziosamente ritorno ad occuparmi dell'unico oggetto che mal si distingue da me, e che, solo,·non m'abbandona. Ritorno buona buona ad esporre la mia piag<;dl a S. Sebastiano offeso, come un fotografo che apparecchi la sensazionale esposiziçme di un'immagine, da cui si attenda grandi esiti. Non sfugge alla mia mente, è naturale, la grande richiesta di abilità che di questi tempi se ne va in giro con visibilissima alterigia. Divisa come sono tra due mondi, certe volte la paragono, questa perentoria richiesta, ad una matrona meridionale dai tratti forti, consapevoli a fondo di come va la vita, e che, per questo, getta in scena conferoce determinazione la propria pro~ le, prima che l'offa sia da altri acchiappata. Altre volte, invece, quest'immagine mi appare un ridicolo cimelio, un mio inchino di serva al folclore che ci impone - si fa per dire - l'Occhio Alleato. Capisco, allora, quanto più netta e rigorosa quella grande richiesta di abilità si imponga, ad esempio, anche nel più infimo film americano, che naturalmente io guardo in estatica adorazione. Spoglio, efficace, spietato. «Mors tua vita mea», è il motto virile dell'eroe anche quando non sa il latino. In mezzo a tutto ciò, alla lotta per sopravvivere, la tenerezza risulta uno struggente animale arcaico rimasto per caso inéollato alla faccia, come Humphrey Bogart mi ha fatto capire megliQdi tutti. Ed allora ritorno all'abilità. Mi chiudo in casa per prepararmi degnamente. Io non sono di quelle che si sottraggono. Rispondo con lo zelo che mi è abituale. Ascolto i consigli. «Dica tutto quello che vuole, ma lo dica bene. Che divenga vero spettacolo. Che dia almeno un po' di piacere. Si vive una sola volta, non le pare?». Sono state queste le ultime parole che mi sono sentita dire davanti al solito S. Sebastiano raggiunto da quel numero inaudito di frecce. «Niente sbavature, però. Dia l'idea della sofferenza, ma si guardi bene dall'infliggerla a chi la guarda. Non glielo perdonerebbe mai. È, del resto, una questione di delicatezza, di civiltà, a mio parere», conclude il distinto signore in abito scuro, che ha avuto la bontà di concedermi un rapido appuntamento. Insomma, come a tavola, a letto, anche qui ci sono delle regole. E forse che non lo sapevo già? Dovevo forse aspettare che qualcun altro mi svelasse tutto il ridicolo, lo specchio fangoso in cui può far precipitare il più piccolo gesto maldestro? • Ma sì, mi pare di aver capito. Del resto, che altro posso fare se ho voglia di comparire? Piegarmi alla dura legge. Dura lex sed lex. Dirò come gli altri, i saggi: «Non abbiate paura, avvicinatevi al mio S. Sebastiano. Non c'è nient'altro na a raccattare oggetti caduti di mano, io mi dico pensando sempre agli altri: «Loro non si sono piegati! Certo, ora sono rigidi, immobili come tante mummie, come me li conserva il museo egizio di Torino, ogni volta che supero la leggera nausea e lo rivisito. Ma, intanto, quelli, a suo tempo, non si sono piegati!». Non riesco a non pensarci. Soprattutto nei passaggi di stagione. Come un male dentro di me. Ma dirò qualcosa di più. Da anni scrivere è per me diventato una specie di vizio segreto. Tra un S. Sebastiano e l'altro, nei ritagli che mi lasciano quelle grondanti apparizioni, un po' dovunque, dove capita, io scrivo. Pezzi di carta, involtini, scatolette, tutto riesco a imbrattare. Certe volte, quando vado a Napoli, mi escono fiumi e fiumi di scrittura in questa città, nonostante che l'Occhio Alleato vi si sia fatto troppo sgradevolmente presente per i miei gusti. Quasi più del terremoto. Altre volte, mi precipito a tracciare i miei chilometri di scrittura tra Palermo e Milano, Milano e Torino. Veri e propri chilometrÌ, come percorsi ferroviari. Ma dove mi porteranno? Non me lo chiedo nemmeno più. Non conto nemmeno più le ore in cui sto seduta al mio «Anima Mercurii», Solidonius, Ms. Parigi né dietro né davanti né sotto né sopra né dentro né fuori, tranne questa apparizione, hic et nunc, il mio S. Sebastiano doloroso, come se grondasse veramente sangue. Ma lo capirebbe persino un bambino: non gronda veramente sangue. È solo la mia bella apparizione di supplizio, così legata a tutte quelle che l'hanno preceduta, e sicuramente a quelle che ancora verranno, che mio malgrado riesce ad essere cti tutti, a dar piacere al maggior numero di persone, alla maniera di una sacra e beninteso gagliarda prostituta, che sappia tutto sui pozzi». Ho già detto che i tempi sono quelli che sono, e lo ripeto. Ed è ormai chiaro che mi piego, mi piego al potente occhio degli Alleati. Mi sembra di piegarmi tantissimo. E non so se resisterò a lungo a far tutte queste acrobazie per rimanere in piedi. Il fatto è che quelli che sono riusciti a non piegarsi mi lasciano sempre pensosa. Che posso farci? Non li dimentico. Mi metto alla finestra e vedendo tutta questa gente che sale e scende, che si chitavolo di legno scuro, quando riesco a rinchiudermi nella mia grande casa, tentata di farmi legare da qualche anima buona alla sedia di paglia che la mia gatta ha quasi del tutto rovinata. Asserragliata, subisco inenarrabili attacchi strutturali, che mi procurano non poche vertigini. Poi distruggo tutto. Per non lasciare traccia. Ma certe volte, mentre me ne sto con la penna in aria, una bella stilografica nera, dal pennino d'oro, e con la testa svagata alla rincorsa di un inafferrabile meglio, più introvabile di un uccello migratore nella stagione inadatta, io mi rivedo d'improvviso com'ero qualche anno fa. La speranza di un tempo mi ritorna in corpo come un fiotto di sangue, con la stessa forza, con lo stesso impeto: ma è un sangue ormai acido, contrariato. Sono questi i momenti in cui mi ricordo così intensamente di com'ero, che mi sento offuscare la vista dalle lacrime che mi salgono agli occhi, e tutto mi vacilla intorno. Abbandonando il mio naturale orgoglio, non privo del resto di qualche fondamento, sarei tentata di rivolgermi in quei momenti di sconforto a qualche sicura fonte di saggezza, come si dice che debbano fare le donne: affidarsi al sapere di cui mancano, appoggiarsi ai puntelli di barbe brizzolate, meglio se già imbiancate, che già di per sé sono appannaggio di una qualche maestà. Ah, non so cosa darei per poter sperare ancora come sapevo un tempo. Non poi, così tanto t,empo fa! Per questo, qualche volta, quando rivedo certe immagini, o rileggo certe pagine, o magari solo per la strada incrocio qualche faccia di quei tempi che sembrano così lontani, non posso fare a meno di trasalire. Mi pare allora di intravedere qualche cosa oltre il mio povero S. Sebastiano che sono intenta a far grondare, senza mai fargli veramente grondar sangue. Come se d'improvviso il mio martoriato si mettesse a parlare, come ci ricorda ancora qualche canuto conferenziere nelle accademie, citando quegli antichi poeti che nelle piazze declamavano grandi cose, tenendosi la testa fasciata per un qualche colpo realmente ricevuto. • Perché non dirlo? Ho nostalgia di questa barbara ricerca di felicità che serpeggiò non poi così a lungo, ml così intensamente alcuni anni fa. Mi stupiscono talvolta, di quella stagione, incontri, progetti, brani di immaginazione cinep1atografica, che a differenza della caverna platonica, sono, essi, più veri di quanto mi aspetterà fuori. Tutto questo mi ritorna davanti agli occhi nei momenti più impensati. Come l'altra volta al caffè, mentre bevevo non so che liquore per tirarmi su (faceva freddo). Due donne, giovani, non molto lontano dal mio tavolo, parlavano a bassa voce, ma dovrei dire piuttosto, si toccavano parlando. E non so perché mi sono rivista davanti agli occhi le due donne divine che danzano la stupenda brasileira di Villa-Lobos in un film del fu Glauber Rocha. Forse, Antonio das mortes. Una così forsennata voglia di essere giustamente felici, che la mia abituale compostezza, il mio ritegno a chiedere felicità, ne sono oggi ancora sconvolti. Ed io che posso dire oggi? Fu errore? Follia? Forse si volle troppo? O forse troppo poco? Io non so rispondere. La delusione ancora mi confonde. Sono in grado, tuttavia, tra un pensiero e l'altro, di porgere l'orecchio a quanto si dice in giro. Circolano insistenti voci circa l'esistenza di una Foresta Nera, di non precisabile collocazione geografica, luogo di sicura perdizione di chi soggiace al richiamo dell'assoluto. Molti, sempre secondo queste voci, vi hanno trovato la morte, ovvero, ottenebrati dal fanatismo, l'hanno barbaramente inflitta a quelli che ormai consideravano i loro schiavi. Come sempre capita dopo una sciagura, con più moderazione e sconsolata saggezza, compaiono cauti inviti a coltivare la superficie: ne ho trovato per caso uno persino al caffè dove mi siedo abitualmente, un altro in una stazione ferroviaria, accuratamente avvolto in un giornale. Qualcuno, io credo, si dà quotidianamente la pena di mettere in guardia la gente contro le tentazioni del profondo. E non a torto, dal suo punto di vista. Le arti del diavolo della Foresta Nera sono arti molto sottili, capaci di far salire una nausea mortale dalle viscere del malcapitato, che non gli consente più di sopportare quelle innocenti apparenze, che andrebbero invece ogni mattina accettate almeno con la stessa umiltà della prima colazione. Passando la maggior parte del mio tempo come il passero solitario, io non so proprio che dire di queste voci che mi pervengono mentre sono intenta a dare degna

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