Alfabeta - anno VIII - n. 86/87 - lug./ago. 1986

costituzione del procedimento rousselliano?), Leiris è riuscito a smontarne quelle che risultano esserne le tre fasi (l'invenzione di giochi di parole, la «stesura di una trama logica che unisca questi elementi tra di loro», la «formulazione di questi rapporti [... ] in un testo», p. 41), percependo inoltre quanto fecondo e liberatorio potesse essere nelle sue costrizioni. In polemica - ritardata - con i surrealisti sottolineò infatti quanto «l'ubbidienza ad una regola si accompagnava di conseguenza alla disattenzione per tutto il resto, provocando una rimozione della censura ottenuta più facilmente grazie a questo mezzo indiretto piuttosto che tramite un procedimento quale la scrittura automatica nella quale si cerca di abolire la censura direttamente, con la passività[ ... ]» (p. 44). In questo felice intreccio di immaginario e di costruzione formale, Leiris ritrovava una sua lontana esigenza che il meraviglioso di Breton non fu mai in grado di soddisfare pienamente e che spiega gran parte del suo allontanamento dal gruppo della rue du Chàteau («Rue Blomet 45», Il Verri, 3-4, 1984). Lo stesso tono insolitamente enfatico per un Leiris critico di solito inolto misurato anima i due saggi successivi. La sottilissima lettura delle enigmatiche Nouvelles Impressions d'Afrique (pp. 47-60)nella quale viene analizzato l'ambiguo rapporto testo poetico-illustrazioni (illustrazioni ordinate tramite un'agenzia di polizia privata ad un artista che lavorò non a partire del testo che non lesse mai ma sulla base delle indicazioni fornite da Roussel) è l'occasione, per Leiris, di precisare che qualsiasi tecnica o procedumento usasse, Roussel non aveva altro scopo che di «disintegrare il linguaggio» e la visione del mondo ad esso connessa per sostituirgliene un'altra del tutto immaginaria. E proprio su questa opposizione tra il mondo dell'invenzione e quello della realtà è costruito l'ultimo saggio del 1954, Concezione e realtàin Raymond Roussel (pp. 6192). Vi troviamo la paradossale affermazione «per me l'immaginazione è tutto» - paradossale fin quando essa non diventa l'espressione ultima di un assoluto rifiuto $ enso comune e nonsense, paradosso e razionalità sono da sempre, e per conclamata de-. finizione, concetti e forme mentali simmetricamente antitetiche. La ragione del paradosso e, di riflesso, la paradossalità della ragione, ricorrono però di frequente negli artifici e nelle fantasie narrative della letteratura occidentale, in particolare di lingua inglese, del nostro secolo. In modo così sistematico da rappresentare, atto di trasgressione per eccellenza, la messa in crisi del reale davanti ali'evasione fantastica e l'«attonita sorpresa dinanzi alla forma delle cose e alla loro esuberante indipendenza dai nostri princìpi intellettuali e dalle nostre definizioni». Il nonsense nasconde perciò, per continuare a citare uno dei massimi teorici di questo genere, «il concetto di evasione, una sorta di fuga in un mondo in cui le cose non sono orribilmente fisse in una eterna appropriatezza, dove le mele crescono sui peri e ogni strano tipo che incontri ha tre gambe». Il virgolettato è di Chesterton, e il volume da cui sono tratti i brani,· The Defendant, è il più recente esemplare in versione italiana (Il bello del brutto) di questa geniale e inesauribile attitudine letteraria che è della realtà di una pressante necessità di sottrarsi al suo peso attraverso una serie di scatti, distacchi, prese di distanza, operati appunto da tutti gli accorgimenti retorici che attraggono o invece respingono il lettore a seconda della sua disponi- · bilità ad intravedere quanto di coatto e di angoscioso c'è dietro tanto arbitrio e tanto gioco: «Puntando ad un distacco pressoché totale da tutto ciò che è natura, sentimento e umanità, e lavorando con fatica su materiali talmente gratuiti da non apparire sospetti neppure a lui, Raymond Roussel [... ] giungeva alla creazione di miti autentici, nei quali la sua affettività si riflette in maniera più o meno diretta o simbolica[ ... ]» (p. 77). I n tutt'altro modo procede Giancarlo Roscioni che evita di ripercorrere i filoni più ripetutamente indagati dalla critica rousselliana: non il destino e nemmeno il fin troppo famoso «procédé» ma gli stessi testi ancora oggi «in larga misura terra incognita» sono l'oggetto di una serie di saggi tutti originati (e lì sta il perfetto equilibrio di un libro per altri versi sottilmente articolato) da una prolungata interrogazione sul problema del «liberio arbitrio» in letteratura quale lo pone un'opera come quella di Roussel: «Questo libro vuole essere un'indagine sull'incerto discrimine che separa, nell'invenzione, il territorio della "libertà" da quello della "costrizione"». E di fatto l'indagine parte dalla disagiata situazione nella quale si trova ogni lettore di Roussel, confrontato con la contraddizione che oppone da una parte gli assunti teorici (e la loro proclamata libertà} e dall'altra la loro esemplificazione pratica (e la sua subita costrizione). Con la differenza che questa situazione Roscioni non si accontenta di registrarla ma cerca invece di chiarirla con numerose aperture extra-testuali che pure rispettandone la peculiarità e la specificità ne riducono (senza anullarlo) il carattere enigmatico. Che il procedimento adottato da Roussel non fosse così originale come egli lo proclamò era cosa ben nota. Tramite le teorie di Max Miiller, secondo le quali i miti avrebbero origine in una specie di «malattia del linguaggio», lo stesso Leiris aveva, fin dall'inizio, riallacciato la creazione rousselliana a «una delle abitudini mentali più antiche e ùniversali del genio umano: l'elaborazione dei miti a partire dalle parole» (p. 42). Nel saggio introduttivo, Come nacquero i miti (pp. 2-20), Roscioni allarga però il campo referenzia~ le non solo all'interrogazione ottocentesca sulla funzione mitopoietica del linguaggio (in una tradizione che tramite Bréal e Saussure risale da Miiller fino a Sklovski} ma ad alcune premesse essenziali all'esperimento rousselliano: da una parte gli esercizi retorici come i bouts rimés o il «metodo immaginativo» che sfruttavano con procedimenti totalmente artificiali il po- .. tere creativo della rima, esercizi giustamente ricollegati al processo che Roussel chiamerà «creazione imprevista dovuta a combinazioni foniche» (p. 13); dall'altra la diffusione delle teorie sulla immaginazione di Condillac e delle problematiche legate all'associazionismo psicologico e alle sue applicazioni metodologiche e didattiche (molto interessante a questo proposito il riferimento al Cours complet de langue française et de style di Pierre Larousse, già oggetto di un saggio pubblicato su Saggi e ricerche di Letteratura francese, XXI, 1981). Tutto ciò ovviamente non per sminuire l'originalità di Roussel (riscattata anzi dalla sua consapevolezza) ma per meglio mettere in rilievo l'eredità retorica di un'opera della quale si è per tanto tempo esaltata l'assoluta novità. Nel secondo capitolo, La parodia necessaria (pp. 21-30) Roscioni descrive dunque il carattere vertiginosamente parodistico della scrittura rousselliana che attinge, nella forma del contenuto come in quella dell'espressione, ai vari generi popolari già avocati da Leiris. Va però precisato che apparentemente affascinato dalla «chiarezza con cui i racconti di Roussel denunciano i propri archetipi» (p. 22) il critico non si interessa tanto alla catalogazione degli innumerevoli sa non sempre consapevoli esercizi di varianti ai quali Roussel potrebbe essersi divertito quanto all'uso creativo che di essi lo scrittore ha saputo fare: «[... ] la ripetizione è esercizio, e l'esercizio è sempre, in certa misura, creazione perché è cercando di riprodurre il già detto che accade di scoprire il nuovo» (p. 31). Si può vedere a questo proposito, favorito da una vera e propria mania scopica, il geniale sfruttamento della descrizione di quadri o di ogni forma di realtà in qualche modo incorniciata e di questi clichés per eccellenza che sono la vignetta satirica, l'oleografia, l'illustrazione dei fatti di cronaca. M a l'arbitrio proclamato non si scontra soltanto contro il peso della memoria intertestuale. Un'altra forza, pm ms1diosa nelle sue esigenze espressive, intralcia il libero funzionamento del meccanismo creativo attivato dall'immaginazione, un'immaginazione tra l'altro estremamente connotata e veicolo anche lei di un pesante nucleo di stereotipi retorici e affettivi. Ne Il potere dell'ispirazione (p. 38-53), Roscioni mette in moto, illustrandola, la «continua osmosi tra giochi verbali e ossessioni fantasmatiche» che feconda l'opera rousselliana. Poiché se, molto spesso, «la forma linguistica viene sacrificata all'esigenza dell'intreccio, o alla ricerca di un «effetto» (p. 44), lo è altrettanto spesso dalla spinta a dire «se non una sola, certo pochissime cose» (p. 49) che vincola lo scrittore entro stretti limiti. A questo potere dell'ispirazione Roscioni riallaccia il carattere oracolare della poetica rousselliana («[... ] l'oracolo, genere ambiguo per definizione, non si distacca molto da un discorso formulato sulla base delle indicazioni del "procédé" [... ]», p. 51) - il suo lato segreto - e, altrettanto sottilmente, l'uso ricorrente dell'allusione e dell'analogia che inseriscono l'opera dello scrittore in una «tradizione ermeneutica cui la sua concezione del linguaggio e della scrittura manifestamente si apparenta» (p. 52). Da lì al meraviglioso il passo è breve ed è subito compiuto dal critico nei due capitoli successivi (La sala delle formule magiche scadute, pp. 54-70 e Fantasmi di libri, pp. 71-85) che esplorano «l'immenso padiglione delle meraviglie di un circo» (Macchia, p. 18) allestito dall'inesaustiva fantasia dello scrittore-demiurgo. Sorprendente inventario delle più inattese «miraParadossdiiChesterton l'elaborazione di paradossi. Sorgono spontanee due curiosità di carattere, per così dire, editoriale: perché attendere tanti anni (fhe Defendanf è del 1901) per la traduzione italiana de~'opera di un autore pure molto fortunatamente conosciuto nel nostro paese (si pensi ai racconti di padre Brown)? E ancora: come mai inserirla a cominciamento di una collana, la selleriana Diagonale, che annovera tragli altri titoli Il cristianesimo felice di Ludovico Antonio Muratori e La sentenza di Luciano Canfora, ossia un trattato sulla missione dei gesuiti in Paraguay e un racconto-inchiesta su un'azione partigiana del '44? Tentare di rispondere a questo secondo interrogativo, il primo è palesemente retorico, consente probabilmente di comprendere il carattere autentico del paradosso e della ragione letteraria. Che sono appunto i soggetti di Chesterton. L'ipotesi più probabile: perché tutti e tre i volumi racchiudono, diversamente miscelate, una forte dose di irragionevolezza (che è quella, per esempio, che unisce autori e conniventi dell'omicidio Gentile o quella che ispiragli ideatori della «società felice» paraguaiana) e un marcato senso di raPaolo Varvaro gione comune (che sovrintende le indagini di Canfora e la curiosità di Muratori). Come dire, per tornare a Chesterton, che «il mondo correperennemente il rischio di essere travisato». Che è quanto occorre per giustificare un uso spregiudicato e malevolo della ragione e dello spirito di contraddizione, in una parola del nonsense. Basta soltanto enumerare i temi delle argomentazioni difensive di Chesterton: difesa dei romanzi d'appendice, dei voti avventati, degli scheletri, delle pastorelle di porcellana, delle informazioni utili, dei racconti polizieschi... Sembrerebbe non mancare niente, tranne forse una difesa della difesa, per un nuovo dizionario dei luoghi comuni, per un campionario della scemenza più completo di quello di Flaubert e più verosimile di quello, alquanto scriteriato, recentemente tentato da Fruttero & Lucentini. Sembrerebbe, ma come dimostra l'argomentare di Chesterton, non lo è. Si prenda, a titolo di esempio, la difesa dei romanzi di appendice. Quel è il paradosso di Chesterton? Che la letteratura popolare, lungi da~'essere diseducativa, rappresenta la forma più nobile del sentire letterario impersonato dalla società. È una perorazione bella e buona: «La pura e semplice necessità di un mondo ideale in cui creature immaginarie recitino una parte affrancata da ogni coercizione è di gran lunga più profonda e antica delle regole della buona arte, nonché assaipiù importante». Ma non si pensi per questo che l'argomento forte sia quello del buon senso, o per meglio dire del senso comune: «Tutto lo sconcertanteprofluvio di letteratura volgare tratta di avventure, incongruenti, sconnesse ed interminabili». La motivazione invece è realisticamente sociale, nel riconoscimento che queste pubblicazioni «esprimono gli ottimistici ed eroici assiomi su cui si basa la civiltà; è· infatti evidente che se la civiltà non poggia su verità lapalissiane, non si regge affatto». Per cui, conclude Chesterton, l'eccezione malsana è rappresentata dalla letteratura colta, non già da quella popolare (chi. vuole saperne di più non ha che da acquistare il volume). Ma cosa c'è di manifestamente insensato in tutto ciò? Si obietterà: il grottesco è nella scelta de~'argomento, non nel/'argomentazione; nella solennità della boutade, non nelle motivazioni. Che è vero solo in parte, perché bilia» (che si tratti di oggetti o di situazioni), l'opera di Roussel, formatosi non a caso in un'epoca di divulgazione esotica e scientifica, assomiglia ad uno di quei magazin pittoresque nei quali, alla fine del1'800, si cercava un facile spaesamento. Con la complice disponibilità di una guida orgogliosa dei suoi tesori, Roscioni ci conduce in questo straordinario museo di cose inesistenti nel quale «gli oggetti più numerosi non sono certamente né le macchine, né i fossilio le reliquie o le piante: sono i libri» (p. 71), libri i cui personaggi evocati da una titologia apparentata alla tradizione maccheronica della «paradossografia» (p. 75), appartengono al mondo dell'immaginario quanto a quello dell'immaginabile. Infatti «lo sviluppo e la trasformazione dei titoli in storie (effettivamente narrate o ipotetiche)» costituiscono uno dei modi in cui «Roussel realizza o suggerisce il processo di dilatazione dei segni e delle parole» (p. 86). Il più diffuso dei quali è certamente legato alla descrizione o al tentativo di descrizione degli incerti oggetti di una altrettanto incerta percezione visi- • va, oggetto del capitolo La visione senza oggetto (p. 80-101)nel quale Roscioni affronta il difficile problema posto da un'opera che «esalta e al tempo stesso mortifica lo sguardo». Shifter narrativo per eccellenza, l'occhio rousselliano è però privo della posizione centrale che gli avrebbe assicurato una giusta ed inglobante visione del mondo. Costretto a focalizzare non delle vedute d'insieme, omogenee e leggibili, ma dei dettagli abnormi e enigmatici nella loro eterogenea frammentarietà, egl{ offre del mondo una lettura lacunosa, il più delle volte congetturale, le cui faglie sono però sempre colmate da parole che hanno il preciso compito di rendere visibile- ma allo stesso tempo finzionale o (e) fantastico -ciò che per natura non lo è. Nulla di casuale dunque: «La concezione del dettaglio come fabula è parallela a quella della parola come discorso, sottesa al "procédé" di Roussel» (p. 98). Come le manipolazioni di Leiris, le dislocazioni rousselliane operano sempre a vantaggio del testo. Adorno avrebbe ricordato che «chi vuole evitare i clichés non deve limitarsi alle singole parole, se non vuole cadere nella civetteria volgare». Ma soprattutto perché, • come eccepisce lo stesso Chesterton, la chiave del grottesco è nel- /' ingiustizia che «l'umanità si accanisce senza requie a chiamare cattive quelle cose che sono state tanto buone da farne apparire migliori altre, e si ostina a buttar continuamente giù la scala che è stata usataper salire». Come dire che il trionfo del cattivo gusto, del kitsch per dirla con Dorfles, è proprio della schizofrenica realtà quotidiana, non del suo sovvertimento paradossale. Che il nonsense è nelle cose, non nella letteratura e nella scelta degli argomenti. Almeno quando, nel bello del brutto come in molti altri casi, la letteraturadel nonsense è soprattutto ironia del mondo e misura del buon vivere. G.K. Chesterton Il bello del brutto Palermo, Selleria, 1985, pp. 97, lire 8.000

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