va e duratura». Nel caso in questione, l'accostamento provocato tocca altre forme artistiche. La prima, è la musica. Partendo dalla così importante e conosciuta formazione musicale di Montale, Biasin individua uno stabile e duraturo rapporto tra certo impressionismo in musica (primo tra tutti, quello di Debussy) e alcuni testi montaliani. Il legame con la sperimentazione musicale debussyiana, valutata suprattutto come scardinatrice del sistema tonale tradizionale, è ravvisabile, nello scrittore ligure, in quella ricerca della dissonanza musicale, nella continua cura verso una parola analogica, parallela all'esperienza della grande musica del Novecento. La ricerca di Biasin acquista tratti di ancora maggiore ed esplicita opzione metodologica nell'esame di un'altra «risonanza» culturale che la poesia montaliana rivela: quella con la pittura a lui contemporanea, e in particolare con l'opera di Giorgio Morandi. In riferimento ad alcuni modelli interpretativi di Marin e Lyotard, Biasin delimita il terreno metodologico S a/man Rushdie, riconosciuto astro della letteratura inglese, o per meglio dire anglo-indiana - e su questa precisazione sarà necessario fare ritorno - ha raccolto in Italia con il suo più celebre romanzo I figli della mezzanotte (Garzanti 1984, ed. or. 1980) un successo che è stato solo una pallida eco di quello, clamoroso, tributatogli in Inghilterra, dove gli è valso il Booker Mc Connell Prize for Fiction nel 1981, il James Tait Black Memoria[ Book Prize,J English Speaking Union Literary Award e l'attribuzione di un contributo dell'Arts Council of Great Britain, che gli ha consentito di dedicarsi alla stesura di un'altra opera. Questa, che non è il suo secondo ma terzo romanzo, essendo il primo Grimus (mai tradotto in italiano), è apparsa nel 1983 a Londra per i tipi di Jonathan Cape, con il titolo Shame, ed è giunta quest'anno in Italia pubblicata anch'essa da Garzanti. Anche La vergogna, come I figli della mezzanotte, è un romanzo fantastico, visionario, favoloso, satirico ed autobiografico insieme, rutilante di odori, colori, visioni, grandante sarcasmo più che ironia, la cui irrisione è tanto maggiore quanto più profonda è la pena che l'autore sceglie di risolvere in ghigno. Qui, infatti, l'autobiografia è scoperta, palesata dagli interventi diretti, in prima persona dell'autore in quanto autore, non più sotto le spoglie di io narrante, in moltissime parti dell'opera (all'inizio del secondo capitolo, alla fine del quarto, inframmezzato al quinto, alla fine del sesto, all'inizio del settimo, alla fine dell'ottavo, all'inizio e nel corso del dodicesimo). Interventi in cui si parla del presente di qualcuno che, pur vivendo da inglese in Inghilterra, partecipa alle vicende di suoi ex conterranei: gli immigrati, la cui integrazione resta incompiuta, e gli altri, quelli rimasti nel subcontinente, a pagare le conseguenze di una separazione che è stata lacerazione, tragedia che non si compone e lascia il segno soprattutto sulla parte più debole e più incerta della propria identità, vittima della sua stessa ragione di esistere nello strenuo quanto vano tentativo di realizzare un'idea che può essere solo come sogno, lo «stato dei puri», il Pakistan. necessario per un'indagine che, partendo del resto dalle ipotesi di semiotica della cultura di Lotman e, prima ancora, dalla grande suggestione della «dialogicità» di origine bachtiniana, faccia luce, in termini di procedimenti espressivi, sui legami costruttivi tra musica e pittura: «... è possibile paragonare la letteratura e le arti visive come testi, come sistemi di modellizzazione che sono autonomi in sé, ma anche parti - e parti omologhe - di quell'altro sistema di modellizzazione che chiamiamo cultura». In quest'ottica, i rapporti che legano Montale e Morandi possono essere agevolmente colti. A livello generale, le incisioni morandiane di nature morte e di paesaggi offrono allo scrittore ligure un esempio compiuto di riduzione del mezzo espressivo ad una dimensione stilistica che ha ormai abbandonato la possibilità di descrizione a tutto tondo, la parola, appunto «che squadri da ogni lato». Alla diminutio antiaulica esplicita in Morandi nella predilezione verso oggetti d'uso quotidiano, o verso intensi e sobri paesaggi, spogli di figure umane, fa da pendant, in Montale, la riduzione del linguaggio poetico tradizionale da forme di elocuzione «alta» (modello comunque, specie nell'exemplum dannunziano, ampiamente usato, sia pure in funzione a volte oppositiva) alla registrazione di ~-- una visualità quotidiana e comune che non è bozzettistica, non è fatta di «decorativi» quadretti (se non nel senso, così importante per Montale, e per gran parte della poesia italiana del Novecento, della mirabile myrica pascoliana), ma è indizio sorvegliatissimo di una precisa scelta di stile, intenta a un denso progetto di conoscenza del reale attraverso la peculiare cognitività del linguaggio poetico. (E, a proposito dell'insistente presenza di oggetti in Montale, si pensi a quale ruolo centrale abbia; nella sua ricerca stilistica, proprio quella «poetica dell'oggetto» di derivazione sempre pascoliana, ampiamente discussa dalla critica più avveduta, Anceschi, Contini, Mengaldo e altri). Ancora una volta, una· grande poesia, come quella di Montale, porta il critico a moltiplicare il discorso interpretativo verso prospettive più ampie, verso dense riflessioni sulla letteratura stessa, sui modi possibili di interpretarla. È forse utile sottolineare, come riconoscimento di un merito indiscutibile, quanto di Bachtin filtri attraverso l'ipotesi di «relazione culturale» tra testi di natura diversa. La nozione bachtiniana di «dialogo» costituisce oggi la chiave di lettura forse più idonea per mettere in contatto la letteratura con Terminini diani Il tono coinvolto, appassionato, personale, emotivo induce a pensare che forse il titolo del romanzo, oltre che dalle vicende della narrazione, derivi da questa scelta dichiaratamente autobiografica. Come ha affermato Guido Almansi (la Repubblica 17 luglio 1985) e a proposito di un convegno sull'autobiografia, «La scrittura è sempre svergognata, una offesa contro la sola decenza che è il silenzio. Quindi, infamia per infamia, meglio fare le cose allagrande, in maniera oltraggiosa, mentendo spudoratamente, esagerando, falsificando, fantasticando». Osservazione quanto mai pertinente nel caso di questo romanzo e questo autore, che mette spudoratamente in piazza la vergogna di parlare di sé, mescolata alla vergogna di non parlare di sé, poiché ricorre alla sua straordinaria capacità di figurazione fantastica per travestire, svelandone per paradosso l'identità più riposta, luoghi, persone, eventi dolorosamente vicini e reali. Infatti, le saghe parallele.delle famiglie degli ultimi due governanti di quello che è e non è il Pakistan, così trattate, perdono il carattereprivato per allargarsi a storia di tutto un paese, recente ed immune dalla mummificazione dell'ufficialità e della scientificità, e carica, invece, di grottesco e di sublime, di scurrile e di epico, di reale insomma. ' uttavia, a proposito di questa versione italiana del romanzo, dispiace rilevare che, in traduzione, perde molta della sua forza espressiva, della sua dirompente vitalità, della sua immediatezza corrosiva, della sua rabbiosa e ghignante compassione. Impresa ardua è, infatti, la resa del linguaggio di questo autore, che, come si accennava poc'anzi, più che inglese si potrebbe dire anglo-indiano. Egli è infatti partecipe di due culiure, due mondi, due retaggifantastico-letterari, e li trasmette con immediatezza nel suo linguaggio misto, polivalente, composito, in cui le lingue si mescolano e si amalgamano senza stridori, grazie anche al fatto che l'anglo-indiano è riconosciuto nel mondo anglofono come una variante dell'inglese che ha una dignità letteraria, frutto dell'interazione culturale dovuta, come moltissimi altri fenomeni, alla lunga dominazione coloniale britannica sull'Asia meridionale, e di Daniela Bredi cui esiste anche un dizionario, lo Hobson-Jobson. Questa lingua, assai vicina a quella spesso utilizzata da scrittori inglesi con una produzione «indiana», quali il famosissimo Kipling, il Forster di A passage to India, il Broomfield di The rains carne, attualizzati dalle trasposizioni cinematografiche, ma· anche George Orwell, il cui primo romanzo Burmese days (1934) vi si inserisce a pieno titolo, e Leonard Woolf (il marito della più celebre Virginia) nella cui bibliografia figurano The village in the jungle (1913) e Stories from the East (1915), ne è per così dire il versante opposto. Nell'uso degli autori dell'Asia meridionale, dalla modesta Zeb un-Nissa Hamidullah di The young wife (1958) al più incisivo Prakash Tandon di Punjabi century (1961) e Beyond Punjab (1971) fino al prodigioso Sa/man Rushdie, la lingua inglese è stata piegata, rimodellata, ricostruita, integrata e arricchita, più o meno consapevolrr0 rite, facendone uno strumento auatto ad esprimere realtà, emozioni, usi, fantasie, miti, credenze, insomma la vita di un popolo le cui lingue, molteplici, avevano espresso per secoli e secoli diverse idee e concetti suoi propri. Nel momento in cui l'esperienza coloniale modificava tutto un modo di concepire la vita, oltre che di viverla materialmente, si gettavano le basi perché una nuova lingua, originariamente estranea come gli uomini che in India l'avevano portata, f asse accolta, accettata e reinventata a descrivere il risultato della mutazione, psicologica ed emozionale non meno che tecnica, economica, sociologica, e così via. Con Rushdie, più che con Naipul, che indiano è soltanto di origini e scrive da un punto di vista esterno, «occidentale», come gli è stato rinfacciato dal Times of India a proposito di An area of darkness: an experience of India, di India: a wounded civilization e di Among the believers: an Islamic ' joumey (Sunday Review del 29 novembre 1981), questa lingua acquisisce definitivamente, nel mondo e non solo nel subcontinente,· dignità letterariadi altissimo livello. E' grazie a questo linguaggio che le vicende e i personaggi si fanno tanto più reali quanto più appaiono fantastici, coinvolgendo il lettore e trasportandolo in una dimensione in cui è possibile, anzi necessario, credere all'esistenza di grigi uomini marginali figli di tre madri, di debosciati-santi impiccati senza che il cappio lasciasse segni sul loro collo, di angeli-guerriglieri dalle ali forate che emergono dalla montagna anziché scendere dal cielo, di donne prive di velo e di sopracciglia perseguitate dal vento caldo, di ragazze minorate capaci di assorbire la vergogna del mondo che le circonda per poi rovesciarla ali'esterno con violenza e brutalità catartiche. ' utto questo non risulta più così naturale nella traduzione italiana, la cui lettura induce un continuo senso di irritazione per i termini non tradotti, per il glossario impreciso e sommario, per la mancanza di qualche noticina esplicativa in margine, che fornisca ad un lettore tanto sprovveduto in materia di realtàpost-coloniale nel subcontinente indo-pakistano qual è solitamente quello italiano, una chiave di comprensione che renda ali'autore la giustizia che merita. Infatti, se nel testo originale la massiccia presenza di termini indiani - urdu per lo più - la cui trascrizione non scientifica, ma fonetica (secondo la fonetica inglese) rivela la quotidianità del loro uso tra gli anglofoni, per lo meno in Inghilterra, dove si coltivano con affetto le memorie della «perla de/- I' Impero», l'India, trova la sua ragione d'essere nel linguaggio in cui l'autore ha deciso di esprimersi, altrettanto non si può dire per il testo italiano. L'effetto provocato dal mantenimento sic et simpliciter di termini come zenana, dupatta, bulbul, ayah, badmash, ecc., sembra consistere solo nell'evocazione di un certo esotismo, del tutto estraneo al clima dell'opera. Senza contare che la mancanza di spiegazioni quando si giunge a termini come gai-wallah (p. 55) rende oscura la vicenda narrata, poiché questa parola composta, che ben traduce cow-boy, in ambito indiano si carica di significati politici e polemici a causa della sacertà della vacca, antico motivo di contesa tra indù e musulmani. E lo stesso si può dire dell' AAnsu ki Wadì, la Valle delle Lacrime kashmira (p. 71), perché, in traduzione, il gioco di parole, senza un cenno esplicativo, risulta stiracchiato e faticoso. Non si capisce, poi, il motivo di quell' «altro da sé» con il quale, nei suoi esiti migliori, è sempre e peculiarmente in rapporto. Certo, i rischi di ridurre ad analogie feferenziali la tipicità di procedimenti stilistici che possono essere colti solo in termini di specificità sono consistenti, ma, a partire dal riconoscimento di ciò, molte strade, in questa direzione, appaiono percorribili. ,, L'idea di un possibile dialogo, nel sistema della cultura, tra testi di differente costituzione, la cui presenza, proprio come in una vera situazione dialogica, si fa sentire, costituisce oggi la risposta più potente, e insieme la più umile proposta di lavoro, alla diffusa esigenza di «far parlare» i testi, di aprirli al libero (libero, non incontrollato) gioco dell'interpretazione, di valutare la loro tanto necessaria presenza, e di fruire di questa. Che uno scrittore come Montale possa favorire una simile discussione, è certo indizio, e non ultimo, della sua importanza. Lectio esemplare nel nostro povero tempo, foriera di auspicabilissimidiscorsi fu~ turi. lasciare il termine Quran così com' è, come se in italiano non fosse comunemente indicato come il Corano, mentre invece si mettono tranquillamente, in trascrizione italiana non scientifica, ginn e urì. Moltissime sono, inoltre, le inesattezze del glossario, che non solo tralascia di fornire il .significatodi molti termini (afrit, dumbir, saranda, per esempio) ed espressioni (ek dum, fut-a-fut, roohafza) per lo più totalmente ignote al pubblico italiano, ma dà indicazioni fuorvianti: jawan significa «giovane», «giovanotto» ed è usato anche, ma non solo, per «soldato»; hubshee non vuol dire «demonio», ma «abissino, negro», ed è piuttosto spregiativo; takht non significa «stuoia», ma «pedana, piattaforma sopraelevata», e così via. Molte altre potrebbero essere le osservazioni, se, non volendo apparire eccessivamente pedanti, non ci si volesse limitare ad una scelta casuale, stimolata, oltre che dalla deformazione professionale, dall'affermazione di Filippo Macaluso (L'Indice n. 6/7) che esistono tre condizioni necessarie perché chi traducepossa fare un buon lavoro. Tali condizioni sono: la conoscenza della lingua di partenza; la conoscenza dell'argomento o della materia dell'opera da tradurre; la conoscenza della lingua di arrivo. Ora, nel caso di La vergogna, non sembra che esse siano state rispettate, soprattutto per. quanto riguarda la seconda, che, in questo caso, si intreccia strettamente con la prima condizione, come si è cercato di mettere in evidenza. Il minor successo italiano di autori come Rushdie, quindi, è imputabile anche a questo motivo, e non solo allo scarso interesseche il pubblico di casa nostra sembrerebbe nutrire per argomenti e tematiche del terzo mondo, tanto più che il successo degli autori latino-americani, da Borges a Vargas Llosa passando per Amado, smentisce, talepresunta indifferenza, una volta validamente superato l'ostacolo linguistico. Salman Rushdie La vergogna traduzione dall'ingiese di Ettore Capriolo Milano, Garzanti, 1985 pp. 258, lire 18.000
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