gibile fra uomo e natura. Come scrive Hertz nel saggio «The Notion of Blockage in the Literature of the Sublime» (saggio che è stato tra i più influenti degli ultimi anni), la mente, posta davanti a ciò che la eccede, «fa blocco» con esso, cioè si allarga a comprenderlo lasciandosi nel medesimo istante assorbire da esso. Esposto a un oggetto che minaccia di sopraffarlo e disintegrarlo, il soggetto salva e anzi potenzia la propria integrità identificandosi con tale oggetto e inglobandolo in sé. Ora, difficilmente questo «blocco», questa fusione di uomo e natura in cui consiste il sublime «egotistico» wordsworthiano, possono essere assimilati al sublime kantiano, dove la superiorità dell'uomo rispetto alla natura implica sempre - classicamente - la loro alterità. Leggere tale «blocco» e tale fusione nella Critica del Giudizio, come fanno Hertz e Most, significa semplicemente leggere Wordsworth in Kant - significa disleggere wordsworthianamente Kant. Se il sublime romantico fosse solo questo, tuttavia, si potrebbe convenire che esso discende, sia pure a prezzo di una dislettura, da Kant. Esiste però un'altra forma di sublime romantico che non si pone Romano Luperini Storia di Montale Roma-Bari, Laterza, 1986 pp. 262, lire 18.000 Gian Paolo Biasin II vento di Debussy La poesia di Montale ne1lacultura del Novecento Bologna, il Mulino, 1985 pp. 123, lire 12.000 Marco Forti • Il nome di Clizia Eugenio Montale, vita, opere, ispiratrici Milano, Scheiwiller, 1985 pp. 94, lire 15.000 Emerico Giachery Metamorfosi dell'orto e altri scritti montaliani Roma, Bonacci, 1985 pp. 179, lire 18.000 Giulio Nascimbeni Eugenio Montale Biografia di un poeta Milano, Longanesi, 1986 pp. 171, lire 20.000 L a critica montaliana, in questi ultimi mesi, si è arricchita di numerosi titoli, quanto solo a un autore ormai saldamente legato all'idea stessa della poesia del Novecento è concesso. I «posteri in sede letteraria», da Montale a suo tempo messi in guardia, non hanno accolto il cauto invito, e oggi più che mai assistiamo al moltiplicarsi di commenti, interpretazioni, chiose alla sua opera, delucidazioni e chiarimenti alla sua vita: vita «letteraria», prima d'altro, dove l'«autore reale», se vale una definizione del genere, è scomparso. La poesia di Montale si presenta oggi sempre più come un «grande testo» unitario, culturalmente rilevante, all'interno del quale sono possibili diversi commenti e tentativi di interpretazione. Se c'è un dato che accomuna i recenti contributi di critica al riguardo, è forse proprio l'esigenza di «attraversare» tutta la sua produzione letteraria: al di là dalla scansione temporale data dalle singole raccolte, è l'intera esperienza poetica di Monaffatto sotto il segno del potenziamento del soggetto, ma, al contrario, sotto quello del suo depotenziamento. Most si sofferma su La ginestra di Leopardi e cita anche L'infinito - per ritrovarvi ciò che ha trovato in Wordsworth e, ancora prima, in Kant. Ora, a me sembra che proprio L'infinito sia esemplare di una versione del sublime romantico antitetica a quella wordsworthiana, una versione in cui la soggettività s'indebolisce e declina fino al limite della perdita di sé. È la versione che ci offrono certi paesaggi di Turner e certi quadri di Friedrich, nei quali - lo rilevano giustamente Ronald Paulson in New Literary History e Alfredo De Paz negli Studi di estetica - la presenza di figure umane serve solo a marcare l'insignificanza dell'uomo rispetto alla natura, e la «passione» che essi mettono in scena, che attivano nello spettatore, è quella di una deriva verso la morte e di una dissoluzione della soggettività nell'altro da sé. Qui non c'è ritorno a sé del soggetto, né come affermazione kantiana della superiorità dell'uomo sulla natura, né come assorbimento wordsworthiano dell'universo nella mente. Qui c'è solo, hegelianamente, uno svanire del finito nell'infinito che è pura, assoluta perdita dell'io. Ora, questa forma di sublime romantico può vedersi come un ritorno del sublime (e insieme del bello) burkiano. Non, certo, per quanto riguarda il terrore, che qui è assente (ma il terrore è anche l'elemento più caduco, sebbene storicamente importante, del sublime burkiano), bensì per quanto riguarda lo (s)morire della soggettività. Se il sublime wordsworthiano è il frutto di una dislettura romantica del neoclassicista Kant, il sublime di questo romanticismo «leopardiano» è una rivincita postuma di Burke contro Kant - secondo una linea che, passando per Hegel e Schopenhauer, arriva a Freud. Non però al Freud del saggio sul perturbante (che Bloom in Agon definisce «laversione freudiana del sublime»), ma al Freud della teoria delle pulsioni di morte (come indica Steven Z. Levine, «Seascapesof the Sublime: Vernet, Monet, and the Oceanic Feeling», in New Literary History). La tendenza dell'organismo a regredire allo stato inorganico è infatti l'esito ultimo del sublime come passione di annientamento evocato da Burke nell' Enquiry. 3 Così (ri)articolata, la categoria del sublime può of- • frire uno strumento efficace per ripercorrere la «vita storica dell'arte» dal '700 al '900. Il luogo comune secondo cui la vicenda teorica del sublime si concluderebbe con Kant, quasi la Critica del Giudizio fosse la «meta inconscia» di tutta la riflessione settecentesca (Monk, Cassirer), deve essere cassato. Al contrario, quella vicenda continua dopo e, anzi, contro Kant; la forbice di stupro e apoteosi, che egli ha voluto chiudere con un gesto imperioso, si riapre dopo di lui e accompagna l'intero arco della modernità. Introducendo il numero di New Literary History, Gary Shapiro fa il nome (prevedibilmente) di Bloom e (meno prevedibilmente) di Heidegger, la cui poetica ontologica sarebbe una ripresa dèll'estetica del sublime. Lo spunto è suggestivo e varrebbe la pena svilupparlo. Non però al modo di Shapiro, secondo cui Blom fornirebbe «una versione psicoanalitica dell'ontologia del sublime heideggeriano», bensì utilizzando l'antitesi potenziamento-depotenziamento del soggetto e opponendo, allora, Bloom a Heidegger. Come ha osservato Paul de Man in uno dei suoi ultimi saggi (e come StoriadiMontale tale che viene accolta come liber, canzoniere assunto, in quanto tale, per la sua esemplarità. Anche la sua vita è in fondo oggi un testo, dimensione letteraria che genera altra letteratura. Il nome di Clizia di Marco Forti esprime bene questa situazione: una «corretta» biografia di Montale deve necessariamente essere descrizione del suo itinerario poetico; o almeno così pare al lettore, ed è giusto che lo sia. Il pregio del volumetto di Forti sta proprio nel restituire ad un modello di rappresentatività poetica la vicenda biografica, nel fare agevolmente conciliare la storia «anagrafica» di Montale con quella della sua poesia. La seconda dimostra, ~piega, certifica o sembra certificare la prima: la giovinezza ligure in alcuni aspri testi degli Ossi, l'esperienza drammaticamente civile della guerra ne La bufera, le persone conosciute da Montale m quelle significative sembianze umane con insistenza presenti nella sua opera. S udi un altro piano, più strettamente biografico, cioè, si può collocare il lavoro di Nascimbeni, senz'altro la più nota - e ormai classica - biografia di Montale. L'edizione aggiornata al 1981 - anno della morte del poeta - che ci viene adesso riproposta conferma al lettore la sua tipica natura di libro ricco di numerose informazioni, che la vicinanza per molti anni - chez Corriere della Sera - di Nascimbeni con Montale, oltre che la loro amicizia, rende minuziosa ed allo stesso modo discreta, mai eccessiva, offrendo un documento umano di sincero e concreto interesse. Il punto di partenza per un'indagine sulla massiccia presenza, letterariamente e culturalmente rilevante, di Montale nella poesia italiana del Novecento è, ad ogni modo, riconoscimento della centralità del suo linguaggio poetico e della dimensi.one stilistica ad esso inerente, colta sia ad una ricerca limitata ad alcuni testi cronologicamente affini, sia, soprattutto, ad una lettura che attraversi tutta l'opera montaliana. È verso questa Rocco Carbone strada che i più importanti contributi critici al riguardo, apparsi recentemente, sembrano volersi indirizzare. Nel volume di Romano Luperini appare, da questo punto di vita, l'intento complessivo (nel senso migliore, e spesso dimenticato del termine) in una precisa esposizione dell'itinerario stilistico di quest'opera. Per Luperini, Montale costituisce terreno emblematico per la modificazione di un percorso critico che, abbandonate precedenti ipotesi metodologiche, di carattere grosso modo storicistico, si offre principalmente all'indagine - necessaria in un autore per il quale, in fin dei conti, non esistono altri referenti alla propria elaborazione letteraria che questa stessa - sui modi stilisticamente rilevanti della poesia montaliana. Così, la descrizione attenta del retroterra culturale e ideologico dello scrittore è intesa come propedeutica all'indicazione di un sistema espressivo individuale, autonomamente organizzato, che viene ben circoscritto, scandendo in singoli capitoli le differenti stagioni poetiche dell'autore, dagli Ossi alle Occasioni, alla Bufera, e così via. Che il tessuto descrittivo su tale retroterra sia continuamente teso •alla volontà di indicare gli elementi letterariamente significativi della ricerca poetica in questione, e che d'altra parte i due poli dell'indagine non si trovino in un meccanico rapporto di causa-effetto, ma al contrario si pongano, semplicemente, a diversi livelli gerarchici, dove in fondo è sempre l'esame dei testi ad avere maggiore spazio e respiro, è ben dimostrato, ad esempio, dal primo capitolo del libro di ·Luperini («L'avanguardista malinconico»), dove la descrizione della situazione culturale e storica del primo Montale - all'altezza degli Ossi - diventa in primo luogo informazione su quelle fonti e suggestioni culturali poi effettivamente attualizzate in alcuni noti testi montaliani. Tra i punti centrali emergenti dal saggio di Luperini uno appare, forse più degli altri, importante: l'immagine di una ricerca letteraria, cioè, che attraverso varie e traumatiche vicende giunge a definirsi in modo autonomo, autosufficiente, a costituirsi, insomma, come unico referente di se stessa, come prima dicevamo; situazione tipica del tardo Montale del Diario del '71 e del '72 o del Quaderno di quattro anni, dove, prendendo ad esempio le osservazioni di Riccardo Scrivano, Luperini accortamente segnala che «la poesia diventa metapoesia, attraverso il riuso, perlopiù straniato e straniante, del proprio linguaggio poetico» (Storia di Montale, p. 237). A nche il libro di Emerico Giachery appare come un grande tentativo di lettura, che tramite la puntuale indicazione di alcuni aspetti, stilisticamente rilevanti di quest'opera, tende a ricostruire un complessivo percorso evolutivo, e da qui collocare l'esperienza poetica montaliana in insistente dialogo, nel campo della cultura letteraria novecentesca, con gli altri grandi autori europei. Il capitolo iniziale, «Metamorfosi dell'orto», che dà il titolo al volume, è da questo punto di vista esemplare per l'ipotesi di indagine stilistica per mezzo della quale i nodi centrali dell'opera montaliana appaiono in tutta la loro evidenza, nella complessa evoluzione delle loro forme. L'«orto», emblema di una particolarmente attiva dimensione spaziale, è già presente, come biglietto da visita, nella tanto nota poesia posta in limine agli Ossi di seppia, immagine di uno spazio conchiuso all'interno del quale agisce la dinamica del linguaggio poetico, luogo la cui importanza è stata riconosciuta esplicitamente dallo stesso Montale nell'Intervista immaginaria del 1946: «Suscettibile di passare da segno di morte a segno di vita, l'orto, nel lessico montaliano e nella sua accezione di base, è lo spazio protetto, l'angoscia della vita e delle sue abitudini, il chiuso». A partire dalla rilevanza metatestuale di questa topologia letteraria, dal significato riflessivo che l'indicazione di uno spazio limitato nota, del resto, lo stesso Shapiro), la concezione bloomiana del sublime rimane kantiana, e se su di essa si modella la dinamica del processo poetico riassunta nell'espressione anxiety of influence, tale dinamica ricalca la «struttura narrativa minimale» che la Critica del Giudizio ascrive all'esperienza del sublime (struttura che in Bloom diventa, con l'innesto di Freud su Kant, quella del «romanzo famigliare» della psicoanalisi). Per questa concezione - tanto più se Kant viene disletto attraverso Wordsworth - vale certamente l'equazione sublime = (neoromanticismo =) soggettività forte. Ma essa è solo una declinazione del sublime, a fianco della quale corre l'altra, quella burkiana e post-kantiana, a cui semmai andrebbe riallacciato Heidegger e per cui, al contrario, vale l'equazione sublime = soggettività debole. Si colloca anche questa declinazione all'interno di un «orizzonte neoromantico»? Può darsi. Ma si tratta, allora, di due diverse forme di neoromanticismo che vanno tenute distinte non solo per genealogia ma perché rimodulano in chiave contrapposta il tema della modernità: lo statuto e il destino del Soggetto. e «sorvegliato» esibisce per tanta poesia montaliana (significato del resto appartenente alla densità programmatica, per la poesia degli Ossi, di in limine), Giachery prova a saggiare la persistenza di questo topos nel corso della successiva poesia montaliana. Esso appare allora, e con grande evidenza, indizio di mutamenti complessivi, giungendo, attraverso Le occasioni, a La bufera e altro, dove il testo chiamato appunto L'orto restituisce al lettore la simbolicità di uno spazio come nucleo originario di una tensione «metafisica» (o di ciò che così gran parte della critica ha comunemente denominato) tipica di questa stagione montaliana, quasi «proemiale selva dantesca», per poi apparire, dopo Satura, in Come Zaccheo, testo centrale del Diario del '71, interamente privo di «ogni possibile tensione e intenzione metafisica»: adesso, il superamento del confine emblematicamente rappresentato dal muro (quel dantesco «muro della terra» presente in un altro autore del Novecento, Giorgio Caproni) diviene registrazione di una · già incredibile condizione giornaliera, dove il «grande evento» è rappresentato dalla stessa azione quotidiana (memorabile in questo senso un altro testo, ancora più tardo, dagli Altri versi, Notiziario ore 9 a. m. : «Quel bischero del merlo è arrivato tardi. / I piccioni hanno già mangiato tutto»). 11 riconoscimento dell'esemplarità montaliana, intesa in primo luogo come indagine sulla ~ dimensione stilistica della sua poe- c::s .s sia, conduce, con passo breve, a ~ concepire tale opera in rapporto al- c:i.. le altre grandi e diverse presenze ~ culturali contemporanee. ....., È da questa consapevolezza che S ha inizio il discorso critico di Gian i Paolo Biasin nel suo Il vento di ~ Debussy: «La poesia di Montale è "oo ~ tale che suscita non solo lunghe "- fedeltà, ma ampie risonanze, ri- ao verberi, accostamenti che la dila- OQ \Q tano e la prolungano oltre i confini I:! suoi propri, coinvolgendola nella ~ cultura europea del Novecento in ;g_ maniera sottile e massiccia, elusi- ~
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