La crisi di unmodello culturale Romano Luperini e redo anch'io che entrerò in quest'ultimo discorso, però solo allafine. Invece, mi interesserebberiprendere uno spunto della relazione di Maria Corti perché toccava un nodo che da varie parti è venuto al pettine, sia da parte dei confrères francesi, sia da parte degli italiani. Vale a dire il problema della crisi dei generi. Quando da varie parti, soprattutto nell'intervento della· Sallenave di stamane (ma poi ne hanno parlato anche Pontiggia, Porta e Gargani), veniva posta questa questione, e si parlava ovviamente della crisi del genere lirico e della crisi soprattutto, su cui hanno posto l'accento i francesi, del genere romanzesco, io mi chiedevo se non c'è qualche cosa in comune tra questa doppia crisi, se non dobbiamo comincia-, re a domandarci cosa c'è a monte di questa doppia crisi, della crisi dei generi, quella crisi che noi sperimentiamo, ad esempio, nel percorso di Montale (che va appunto dal simbolismo alla crisi del simbolismo) oppure in Gadda quando , vediamo che La cognizione del dolore non è affatto, come diceva Contini, un'opera lirico-simbolica, bensì è un'opera di sorpassamento dei generi e di critica-superamento del simbolismo. Allora io mi chiedevo qual è il modello culturale che è entrato in crisi e come rispostaprovvisoria io tenderei a dire che il modello culturale che è entrato in crisi e che sottende alla crisi dei generi principali, il genere lirico e il genere romanzesco, è il modello culturale del simbolismo. Ovviamente quando dico questo mi ricollego ad una polemica che è venuta fuori a Palermo contro quanti riproponevano allegramente la tradizione lirica, come se niente fosse successo negli ultimi anni. Voglio dire che oggi il lirismo esiste - prendiamo il caso di Sanguineti - sotto laforma dell'autoritratto sfregiato del poeta lirico oppure nella narrativa - prendiamo il caso di Malerba o il caso di Leonetti - faccio secondo me i casi più significativi della ricerca attuale - sotto forma di criticadel romanzesco. Mi pare chiaro che, in questi casi, la crisi dei significati è la crisi del significato simbolico, con un ritorno assai frequente, che mi interessamolto, ali'allegoria. C'è un ritorno ali'allegoriaoggi, mentre è in crisi il simbolismo. C'è questo ritorno nell'ultimo Fortini, a esempio, in Leonetti, in Di Marco. Allora mi chiedo cosa c'è sotto questa crisi di un modello culturale che ha avuto il suo momento trionfante nell'asse Baudelaire-Nietzsche, vale a dire in un asse che sottolineava proprio il lato mondano-contingente, le correspondances, il rapporto orizzontale tra il soggetto e le cose. Questo rapporto orizzontale e confidenziale tra il soggetto e la realtà, questo rapporto sensuale con le cose è alla base della teoria dell'eterno ritorno. E mi chiedevo, anche perché qui bisogna dar conto della nostra ricerca, la ragione profonda della critica che Nietzsche fa alla civiltà e al modello culturale ebraico-cristiano. Q uando Nietzsche e sostanzialmente, implicitamente, anche Baudelaire, portano avanti l'attacco al modello ebraico-cristiano e gli contrappongono il modello greco, contrappongono il modello del viaggio di Ulisse, che infatti costituisce la base - mi pare - del pensiero «debolista», oggi. Cioè l'idea che la vita sia un ritorno appunto alle origini e quindi sia un ritorno al nulla, l'unica soluzione essendo la danza sull'abisso di questo nulla. Bene, il viaggio di Ulisse, il ritorno alle origini, è secondo me fondativo di una delle grandi concezioni della cultura occidentale che è appunto quella simbolica. Cioè il viaggio orizzontale, quello che dà un significato orizzontale e sensuale al rapporto con la realtà, esaltandone la contingenza, la immediatezza mondana, l'animalità gaia. Però, nella nostra civiltà, c'è un'altra forma di viaggio, il viaggio di Abramo, vale a dire non il viaggio orizzontale ma il viaggio verticale, e questo viaggio invece fonda, secondo me, il sistema dell'allegoria, non il sistema dei sensi, dello scambio confidenziale e orizzontale ma dello scambio concettuale e verticale. Ovviamente Dante Alighieri è la manifestazione maggiore di questo viaggio verticale ed il modo in cui esalta e condanna in Ulisse il viaggio orizzontale (qui c'è un f amosissimo saggio di Lotmann su queste due figure, l'orizzontale e il verticale, nel canto XXVI dell'Inferno) mi sembra estremamente significativo proprio di questo scontro di culture, la cultura simbolica e la cultura allegorica, che cominciava allora a profilarsi. Comincia allora, cioè, un conflitto che nell'800 viene risolto in maniera clamorosa con il trionfo dell'asse Nietzsche-Baudelaire. Tanto che viene il sospetto che il trionfo della borghesia e il trionfo del simbolismo siano la stessa cosa. Niente è più simbolico della merce, niente è meno allegorico della merce. Quando Fortini nell'intervento di ieriponeva il problema dei tentativi fallimentari dell'ultimo secolo di superare la tradizione simbolista, poneva - ed era esplicito nella sua conclusione - il problema di superare, lui diceva, il capitale. Ovviamente qui si confrontano anche fra di noi due linee, tant'è vero che il simbolismo ottocentesco ha dalla sua Lukacs, e infatti il capitolo finale dell'Estetica è l'elogio del simbolo contro l'allegoria. Benjamin, invece, implicitamente rispondeva teorizzando l'allegoria, e parlando per il Novecento (e qui ci potrebbe essere del tutto casualmente una connessione con quello che diceva Agosti) di allegoria vuota, cioè di un'allegoria non più piena di significati. Per chiudere, il problema che poneva la Corti finendo: come mai non si danno le grandi opere, non si ritorna al sublime?, si potrebbe ritradurre così: come mai dobbiamo aggirarci tra le macerie del simbolismo? Diceva giustamente la Corti che la volontà dell'opera non dipende dalla nostra ragione, è una volontà cieca; io posso essere d'accordo su questo, e tuttavia la volontà_dell'opera è sì cieca, ma questa cecità corrisponde a quella delle pulsioni appunto cieche che l'attraversano. Ebbene, questa pulsione inconscia e cieca è la pulsione storica. • Parafrasando l'ultimo libro di Jemeson si potrebbe dire che ormai sappiamo che anche l'inconscio è politico. Detto in altri termini, riprendendo quello che giustamente diceva Porta e che giustamente diceva Leonetti, bisogna ricominciare a dire che è il mondo delle Coseche crea il mondo delle parole, non viceversa. Il vismltoe lo scrittore Angelo Guglielmi A bbiamo ascoltato ieri e oggi scrittor_iconfessare la propria poetica, lapropria idea di arte, che poi è quella che ciascuno cerca di mettere in pratica nella propria opera. Ne è venuto fuori un panorama molto vario e anche contraddittorio come è giusto che sia trattandosi di prese di posizione di scrittori ciascuno dei quali ha una propria personalità e soprattutto un proprio modo di essere scrittore. A me tuttavia che non sono scrittore èpermesso di guardare alla situazione certo dal di fuori ma anche da più lontano, e cioè da un punto di osservazione privilegiato che mi consente di rintracciare, nella varietà delle opzioni e confessioni, un qualche punto in comune, un minimo comune denominatore che se non definisce i singoli autori certo definisce il tempo in cui operano. La ricerca del denominatore comune certo comporta seri rischi: soprattutto il rischio di cadere nel semplicismo e nell'approssimazione. Tuttavia è un rischio che voglio affrontare convinto che l'incertezza e l'oscurità che caratterizzano la situazione di oggi esigano di essere contrastate anche a rischio di farsi male. Sulle pagine «Libri» di Le Monde da qualche tempo appaiono articoli in cui gli estensori - senza nascondere un certo stupore - ci informano che alcuni dei maggiori rappresentanti della cultura formalista e di avangua;dia (almeno quelli che abbiamo finora considerato tali) stanno recuperando posizioni che fino adesso avevano spregiato (e contro cui avevano combattuto), restituendo credito ai valori cosiddetti umanistici e alla scrittura di rappresentazione. L'informazione ha riguardato dapprima Tzvetan Todorov, che tutti conosciamo (anzi conoscevamo) come uno dei più noti studiosi della scienza del linguaggio. Sapevamo che era interessato a comprendere come nascono i testi, non a valutare il loro contenuto. Ma ecco che nel suo nuovo libro (Critique de la critique appena uscito) lo scopriamo tutto preso dai problemi della verità: «Non soltanto di quella dell'autore (considerato), ma della sua, dei fini ultimi dell'uomo, ecc. Ragioni di questo capovolgimento: l'assenza di dogmi universali, la nuova familiarità con altre culture, dovuta ai media e ai charters, l'esplosione tecnologica, i massacri del mezzo secolo, la rinascita del culto per i diritti dell'uomo». Poi è toccato a Sollers che già con Femmes e poi con il recentissimo Portrait du joueur ha gettato alle ortiche la scelta per così dire dell'illeggibilità, tornando alla scrittura distesa e al racconto di fatti; epoi alla Sarraute, a Le Clezio, alla Duras che con l' Amant e La douleur non esita a farci partecipi dei suoi amori giovanili e del suo erotismo (sanguinolento) di partigiana; e infine a Robbe-Grillet che «fino a ieri nemico dell'io, oggi (con Le miroir que revient) ci racconta la sua vita, i suoi boccoli di ~ambino, i suoi sogni umanistici, ecc.». Sembra, conclude Le Monde nel suo ultimo articolo sul fenomeno, a firma di Poirot-Delpech, che, «l'intelletto-show 1985 debba essere dominato da coloro che cambiano di parere, da coloro che ritornano: di preferenza dal comunismo, ma qualsiasi altra disillusione è buona allo scopo». e on meno chiasso che in Francia, dove gli eventi fanno rumore per il solo fatto di accadere, il fenomeno si ripropone anche in Italia: basti pensare a Invasioni di Antonio Porta, in cui, come lo stesso autore confessa, l'interesse per la comunicazione prevale sull'ossessione della costruzione; agli ultimi Sonetti di Sanguineti che, come scrive Alfonso Belardinelli, si annover(,lno tra i pochi tentativi riusciti di «sottrarre la poesia al dominio della poetica informale e tardo-avanguardista», all'ultimo romanzo di Giuseppe Pontiggia che a un autore certo fine come Arbasino (che peraltro in questa occasione sbaglia ma commette un errore significativo) appare come una riesumazione della narrativa anni '50; a Il nome della rosa, best-seller dei best-sellers; a Vassalii o Del Giudice che pur di raccontare una storia interessante (dominata da un solido referente) si fanno biografi di illustri (e stravaganti) personaggi realmente vissuti; a Celati che con Narratori delle pianure recupera la narrativa come oralità e sfiora l'evidenza del cinema; a Tondelli, Busi, Pazzi le cui ultime opere non esitano a mettersi in gara con il romanzo tradizionale. Dunque il fenomeno esiste ed è obiettivo: importante è allora capire (tentare di capire) le.ragioni che lo sostengono anche al di là di quelle che i singoli autori portano a giustificazione - e che sono minate da troppa soggettività, trascorrendo da atteggiamenti di difesa (per esempio Robbe-Grillet che a chi gli rimprovera il nuovo corso risponde: «Non ho mai parlato d'altro che di me»), a atteggiamenti di sfida (Sollers: «Sefaccio di tutto è per interesse»), di ravvedimento (nel senso di conquista di una nuova soglia di consapevolezza: Todorov). Intanto considerando le motivazioni espresse dai singoli autori è con spavento che mi accorgo che le più convincenti (o almeno quelle che a me paiono tali) sono anche le più ingenue, voglio dire quelle portate da Tzvetan Todorov. Con spavento giacché mentre so che l'ingenuità è il rischio che occorre correre per avvicinarsi alla comprensione di fenomeni particolarmente complessi, non ignoro che l'ingenuità è perdonata • soltanto a chi ha la grandezza di non sentirla come vergogna. Cosa di cui pochi sono capaci e io non sono tra questi. . Che cosa dice Todorov? Afferma che il mondo è cambiato: che non è più quello di solo quarant'anni, cinquant'anni, sessant'anni fa, quando un formidabile processo di mistificazione operava, come tarlo silenzioso, nella nostra vita, condizionando (senza che ne avessimo per intero coscienza) i nostri comportamenti, i nostri pensieri, i nostri sentimenti; quando tutto il fronte della società soggiaceva a impulsi devianti, originati dalla doppia violenza della tecnica e dell'ideologia; quando l'impatto con le prime rivoluzioni industriali sembrava dovere essere sostenuto dall'autoritarismo delle forme di governo; quando l'agitarsi di tante pressioni sotterranee scuoteva la coerenza del sistema vigente di rapporti, valori e solidarietà, azzerando ogni credibile metro di misura e di apprezzamento. Questo mondo non c'è più: ciò che lo caratterizzava non era di riuscire a tenere a freno (a governare) le spinte eversive da cui era pressato ma piuttosto di tenerle nascoste così che potevano, al riparo di ogni reale vigilanza, fare avanzare la loro opera di sfiguramento e di corrosione. Della quale noi avremmo avuto piena consapevolezza a cose fatte, cioè oggi a processo compiuto, oggi che, come dice il mio amico Alfredo Giuliani, il mondo sembra finalmente esploso, oggi che si è rinunciato perfino ali'accortezza di mascherarsi, oggi che i contenuti della mistificazione scorrono a vista, oggi che il corso della storia ha rinunciato agli omissis, oggi che nulla più ci meraviglia e la nostra indignazione tende a spegnersi e non perché mancano le situazioni in grado di provocarla (anzi!) ma perché queste ci vengono tranquillamente incontro sfidando il nostro stupore che allora è costretto a trasformarsi in (allucinata) indifferenza. A l mutamento delle condizioni del mondo non può non corrispondere il mutamento dei comportamenti espressivi. Di fronte a un mondo che si arrotolava nelle sue inconfessabili ipocrisie, inquinando ogni manifestazione del vissuto - qual è quello in cui ci si poteva imbattere negli anni '50 e '60- non vi era altrasceltaper lo scrittore che denunciare la mistificazione, rifiutandosi di lavorare con i materiali dell'esperienza (in quanto irrimediabilmente equivoci) e concentrare tutta l'attenzione sui meccanismi che presiedono alla formazione dell'oggetto-letteratura, sui congegni che ne assicurano la vita, sulle strutture che ne fondano lafunzionalità. Non vi era altrascelta, come allora si diceva, che impegnarsi a tenere in funzione il linguaggio. Tenerlo in funzione (come un motore acceso) in attesa che, cadute le ragioni che lo costringevano a non compromettersi, potesse tornare a essere immediatamente comunicativo (a confrontarsi con i materiali dell'esperienza). Oggi quelle ragioni sono cadute. Oggi non si corre più il rischio (che negli anni '60 si correva) di scambiare la bontà di un romanzo con la bontà dei sentimenti e la nobiltà delle idee che in esso vengono celebrate. Cioè non si corre più il rischio di non accorgersi che quella bontà e quella nobiltà non erano che mascherature, prese in prestito a culture ormai tramontate, a copertura di una realtà b~n altrimenti crudele e drammatica. Oggi quella realtà, con il suo carico di impossibilità, di imbroglio e di follia, è emersa in superficie, vincendo le
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