Alfabeta - anno VIII - n. 86/87 - lug./ago. 1986

semplicemte che ne ha cura, è il sedentario. Dunque primo gesto: una rivista, questa, che si immagina come un fare assieme per creare un luogo - un fare perché l'altro faccia, un porgere parola perché l'altro la riprenda, e in questo tessuto di parole si componga un luogo, o se volete un contenitore. E ra necessariofare questa rivista. Avremmo, ognuno di noi, potuto frequentare alberghi occasionali, lasciarci ospitare altrove, come abbiamo anche fatto, e facciamo. Ma c'è un impegno, è chiaro, assolutamente diverso nell'apprestare un 1uogodove una parola che amo, è in particolarela parola de_lla'ltro che amo, possa essere salvata - e intendo questa parola al modo di Canetti, o al modo di T.S. Eliot. Dove salvare suggerisce l'operazione di salvataggio dal naufragio, e dunque è un raccogliereciò che resta; ma si tratta anche di poter raccogliere nel dire ciò che non è stato ancora detto, apprestare un luogo perché la parola non ancorapronunciata possa dirsi e risuonare. Io, vedete, non ho un problema di teoria - io credo, con Luzi, che «sopravanzano le cose il loro nome». Credo che vi sia una volontà di dire - «e sentii in me la volontà di dire», dice Dante - e non a caso Luzi apre Per un battesimo dei nostri frammenti con Dizione. C'è un voler dire, la poesia nasce dal voler dire. C'è, cioè, una parola che irrompe, che è questo salto. Una parola che sceglie di cominciare, ed è cosmogonia - ogni volta. Il critico, colui che ascolta, ha a mio avviso questo compito etico prima che estetico - si dice di un saggio nella rivista, a proposito di Ady - «lo spazio estetico della poesia viene ad essere occupato dal gesto etico della parola» - Ecco, io credo che sia così anche per il critico, o il lettore che sia mosso dalla volontà di salvaguardare il tempo di quell'inizio. Così, per me, nel mio libro, che è un libro di lettura, si è trattato di fronte a ogni testo di stabilire, innanzi tutto, un tono dell'incontro. Non avvicino il testo che accogliendolo, stando paziente nel campo della sua forza; c'è una techne, se volete, anche per questo - solo che questa techne è una disciplina, non un armamentario teorico, né un dispositivo. La parola è un atto. Noi siamo confrontati con un fatto, che non è un fatto del mondo, ma qualcosa piuttosto che testimonia un incremento di realtà. Bonnefoy parla di valore testimoniale della parola, proprio in questo senso - la parola circoscrive e raccoglie la presenza - ma questa ptesenza bisogna staccarla dal!'evidenza. «Non c'è interrogazione», si dice in un altro saggio della rivista, «se non per chi rompa le maglie del!'evidenza». Piegarsi alla legge dell'evidenza vorrebbe dire piegarsi al mondo; cioè, all'illusorio. Ci sono profeti di questo, che si augurano con massima felicità lo stare nell'atlante di questo mondo di evidenze semplici, descrivibili - come se gli oggetti fossero lì, a disposizione. E a disposizione fosse il linguaggio, per descrivere le cose. M a la nostra riflessione più vera - c'è chi ce lo ha insegnato - nasce nel punto in cui si scopre l'impensabilità di ciò che è evidente. È questa intelligenza delle cose - di ciò che è insieme impensabile e evidente - che la lettura dell'opera esige, e noi dobbiamo favorire. Perché l'atto di lettura sia insieme pathos, ovvero desiderio, investimento soggettivo; ed ethos, ovvero uno stare nel luogo, in ciò che è, così com'è. Se si è dato vita a Finisterre è dunque in virtù di questa fedeltà, questo voler stare, questo attento sbstare presso il luogo dellaparola. Attenzione, si è detto. A chi può apparire poco va ricordato il valore che ali'attenzione attribuiva Simone Weil. La Weil, ma a guardare bene anche Canetti, per il quale l'attenzione è - diciamo così - la base che alimenta «la forza impetuosa della speranza», la base stessa della «metamorfosi». È appunto il valore dell'attenzione a districarcidal nulla, a dare vigore alla «resistenza alla morte», resistenza che ogni atto di parola testimonia. Nella disposizione del!'attenzione ogni nome richiama la differenza. Se l'immagine non risulta eccessiva direi che il nome stesso nasce da~'effervescenza, dall'incontenibile esuberanza della differenza. A questa esuberanza Finisterre si richiama. Da questa rivista non si potrà attendere un arricchimento metodico o un incremento conoscitivo, né l'indicazione di una nuova territorialitàdella parola. Finisterre non dà luogo a particolariprocedure critiche. Non vive se non nelle circostanze dei propri problemi. E non ha altro da dire - e forse è poco - se non questa disposizione allaparola, e la sua affezione. Interrogazioni al linguaggio Stefano Agosti A partire da alcuni interventi che ho sentito ieri e stamane, mi pare di poter circoscrivere un «soubassement» comune a un certo gruppo di scrittori che sono convenuti qui: e cioè l'interrogazione che questi scrittori pongono al linguaggio. Dato che non posso citare tutti, mi soffermerò in particolare su Risset, Sanguineti, Jean-Paul Goux e Lucette Finas. Posso anche aggiungere che sono sensibilissimo alle questioni d'ordine tecnico, quando vengono poste da uno scrittore. Quando lo scrittore parla dell'aspetto tecnico del proprio lavoro, bisogna drizzare le orecchie perché senz'altro ha colto un luogo centrale del problema. Così, per esempio, Risset, fra le molte altre cose che ha detto, ha toccato un punto di grande momento quando afferma che lafamosa pagina bianca si configura, per lei, non tanto come un vuoto da riempire quanto come un pieno, un eccesso da «sgombrare». Il primo gesto dello scrittore sarebbe perciò non tanto quello d'una inscrizione quanto quello di una cancellazione, e corrisponderebbe alla volontà di attivare un'energia, per così dire, allo stato puro, e cioè non (o non ancora) semantizzata. Di qui, in positivo, lafunzione capitale assegnata agli elementi transitivi del linguaggio (i cosiddetti «mots vides»), suscettibili di trattenere il massimo di energia espressiva in quanto sottratti, per definizione, a quella massa di senso codificato (storicizzato) che ingombra il Soggetto. Quanto a Sanguineti, l'idea del suo percorso poetico come una lunga frase interminabile e continuamente interrotta e ripresa, ai cui estremi si situano, .rispettivamente, Laborintus e, per ora, i Rebus, mi sembra già di per sé indicativa di tutta una problematica d'ordine tecnico. E quanto ai Rebus e al loro riferimento etimologico-operativo alla «res», non posso non sottolineare (del resto glielo dicevo ieri sera) una straordinaria coincidenza con la famosa formulazione che Lacan deduce da Freud: «Rebus, c'est par vous que je communique». E cioè: comunico attraverso parole che sono cose, attraversoparole e cose che sono enigmi. Anche dalla relazione di Jean-Paul Goux si possono ricavare spunti di grande interesse tecnico: e per esempio, le sue osservazioni sulla complessità sintattica in quanto opacizzazione dei significati. La complessità dell'ordine sintattico comporterebbe un disordine introdotto nelle relazioni consuete (codificate e semplificate) che organizzano lafrase. In realtà, è proprio la frase codificata (semplificata) che è opaca, in quanto indebitamente riduttiva rispetto alla complessità del reale, il quale può essere restituito solo attraverso sistemi sempre più complessi di relazioni fra gli elementi verbali. Sono queste relazioni che fondano il senso, a scapito della trasparenza, che è fa/sa. Capitali altresì alcune affermazioni di Lucette Finas, nella sua relazione incentrata sostanzialmente sulla lettura del testo. Più che di lettura, Lucette Finas parla di un «tete-àtete» col testo, di una collisione ostinata, la quale fa emergere dal testo figure che non sono legate ai significati che il testo veicola. Il «tete-à-tete» non segue infatti l'ordine dei significati (l'ordine semantico-sintattico) ma si sviluppa su diversi livelli,anche simultaneamente: livello fonico, livello lessematico, livello della distribuzione (o della posizione) degli elementi, ecc., nel tentativo di trovare dei punti di relazione fra questi livelli diversi, punti che sono responsabili della produzione di effetti di senso non compatibili con la lettura lineare. Un'indicazione fondamentale relativa a questo tipo di approccio è la seguente: il calcolo del!'autore nei riguardi di un determinato testo da costruire, si doppia (o si sdoppia) nel calcolo che il testo fa su se stesso, o che il testo impone a partire da sé. Arrivo adesso alla parte più propriamente interpretativa di quanto ho accennato sin qui relativamente agli autori nominati. E bbene: tutte queste interrogazioni poste in vari modi al linguaggio, mi pare che comportino (tutte quante) un al-di-là del Discorso. Si riaffaccia qui, insomma, l'opposizione su cui ho insistito tante volte, fra Discorso e Testo. Mentre il Discorso è depositario di quelle che io chiamo le «figure della realtà» (o dell'ideologia di realtà), il Testo è invece depositario di quelle che io chiamo le figure (senza figura) del Reale (intendo, qui, il Reale nell'accezione lecaniana). Il Reale è una figura che non si pronuncia mai in termini di figura. Se volete, è un po' come quelle «figure» che si stagliano in un assembramento di oggetti, fra i loro profili. I profili codificati degli oggetti sono il supporto, la condizione di formazione di queste altre figure («altre» in tutti i sensi), la possibilità stessa della loro emergenza dal fondo (sono figure del fondo): tale è la «figura» del Reale, quale si compone nel lavoro del Testo e grazie al supporto del Discorso (si ricordino sempre i profili codificati degli oggetti). Ma più pertinente potrebbe essere l'immagine di un tappeto, le cui figure mimetiche (fiori, uccelli, ecc.) compongono, alle intersezioni, altre figure, astratte, non codificabili, che vanno oltre gli schemi della rappresentazione. Vi è dunque un lavoro testuale che produce delle «figure» all'interno del Discorso, le quali sono suscettibili di farsi depositarie di un senso che va al di là dellasemanticità di cui sono depositarie le figure di significato. Denomineremo queste figure testuali: figure· dell'«origine» (metto questa parola tra virgolette) in quanto presuppongono un «prima» rispetto al Discorso, .dato che il senso di cui sono depositarie non rientra nei codici del Discorso. E tuttavia, proprio perché si appoggiano al Discorso, e non sono concepibili né formulabili al di fuori di esso, queste figure «originarie» si dànno solo come un effetto del postumo ( di qui le virgolette): il prima è, insomma, un prodotto del dopo. S i innesterebbe qui una problematica molto attuale, di moda soprattutto in America, e cioè la problematica - uscita dai lavori di Derrida - della «decostruzione». In questa sede basterà dire che, applicata al Discorso, la decostruzione comporta, simultaneamente, la costruzione del Testo: è l'operazione che permette la costruzione del Testo. Solo decostruendo il Discorso posso far emergere le figure testuali di cui parlavo prima. Ma perché- mi potreste chiedere-, perché privilegiare, da un punto di vista assiologico, queste figure (lefigure testuali, che non sono figure ideologiche ecc.) e non le figure del Discorso (le figure di significato, le figure dell'ideologia di realtà, ecc.), che ne costituiscono, di fatto, il supporto? Ebbene, per un motivo molto semplice: perché le figure del Testo, le figure senza figura del Testo, sono delle figure intraducibili. Non sopportano la traduzione. Per questo, sono figure originarie (stavolta, senza virgolette). E quando dico traduzione non intendo la traduzione come passaggio da un istituto linguistico a un altro, bensì la traduzione all'interno di uno stesso istituto linguistico. Al contrario, le figure del Discorso comportano incessantemente la traduzione (sipuò dire che la richiedono) da un livello all'altro, o da un codice all'altro, del sistema stesso entro il quale si producono. Faccio un solo esempio, che è facilissimo. Il senso prodotto da due o più parole vincolate dalla rima è un senso intraducibile; questa figura testuale non sopporta nessuna traduzione all'interno del codice entro il quale si manifesta. Naturalmente essa si regge e si compone su due o più unità di significato che appartengono al dizionario: ma il senso che ne è il prodotto (e lo stesso vale per l'allitterazione, le figure ritmiche, ecc.) non si trova nel dizionario.' Si tratta, in definitiva, di quello che Mallarmé designava come il «mistero nelle lettere», o anche come l'«espansione totale della lettera». Lettera dell'alfabeto o gruppo di lettere, parola o metafora, sintagma o segmento di frase, la «lettera» si intenderà come tutto ciò che fa nodo nel Discorso: punto di opacità del significato e luogo di produzione del senso, ma anche convergenza, accumulo (nodo, appunto) di relazioni, impuntatura della trama testuale all'interno del Discorso e sui cui, come dicevo prima, le ragioni interpretative, le ragioni della Ragione, non hanno alcun potere. Per tutte queste ragioni, vorrei allora sigillare il presente intervento - che bisognerebbe prolungare molto di più e, soprattutto, corroborare di molti altri esempi - con una citazione da Lacan, che fa davvero il punto, al di fuori della lettera: «Les prétentions de l'esprit pourtant demeureraient irréductibles, si la lettre n' avait fait lapreuve qu' elle produit tous ses effets de vérité dans l'homme, sans que l'esprit ait le moins du monde à s'en meler». Intervento Antonio Porta N adia Fusini ha detto due cose; una citando Luzi: sopravanzano le cose il loro nome, quindi questa preponderanza dell'esistenza sulla nominazione, e ha anche detto se tutte le cose avessero un nome, parlare equivarrebbe a tacere. A questo punto pongo una domanda ad Agosti. Se tutto è lettera, anzi se tutto è la lettera, se la letteratura si riduce ad un'interrogazione al linguaggio, chiedo, chi interroga il linguaggio? Il linguaggio stesso? Questa sarebbe appunto una tautologia. Ho questo sospetto perché è stato citato Sanguineti; voglio dire, se allafine di questa lunga frase c'è ancora il rebus iniziale, questo lo sapevamo già; Freud ha scoperto che il linguaggio è un come se e che il reale è inattingibile. Ma ha scoperto anche che questa dialettica, chiamiamola così, ha a che fare col corpo. I Allora il corpo dove lo mettiamo? cioè, l'esistenza dove la mettiamo? A questo punto, non sarà forse il corpo ad interrogare il linguaggio? Non sarà forse l'esistenza che si mette in campo? • Intervento Francesco Leonetti P remetto in breve che considero gli interventi dei ricercatori critici nel pomeriggio di oggi assolutamente simili agli interventi e alle comunicazioni degli scrittori degli altri giorni. Il loro punto di vista è in partenza una generalizzazione nella quale bisogna scavare, così come il nostro punto di vista in partenza è un approfondimento sul proprio della ricerca in corso, a partire dalla quale, come da un sondaggio, bisogna generalizzare. Però è vero che nel dibattito abbiamo cominciato a toccare un punto, per Agosti riferito a diversi scrittori, prevalentemente francesi ma anche italiani, centrato sul linguaggio. Ora, noi ricordiamo che la problematica del linguaggio centrale in tutto il Novecento ha due o tre estrazioni teoriche. Anzitutto quella heideggeriana, il linguaggio è la casa; successivamente e profondamente quella legata allo strutturalismo linguistico. Ora, mi sembra che la questione sia stata ben posta da Porta perché emerge in un'attenzione ad un altrofattore; che per esempio presso Porta viene chiamato prelinguistico, che per esempio presso me, già nel colloquio diciamo espistemologico iniziale di Palermo (e anche qui nel mio intervento di ieri) veniva chiamato come il non certo. Cioè considero l'operazione dello scrittore e in generale del ricercatorecome un atto cognitivo sul non certo. Invece mi pare di sentire spesso in Agosti, tendenzialmente, uno svuotamento per il quale la partenza sul linguaggio sfiora il nominalismo; la partenza dal linguaggio è la partenza dal verbo. Nell'impostazione che diamo noi, sempre tendenzialmente, quindi senza voler fare una critica precisa, senza voler polemizzare assolutamente ma per proporre un accertamento di due posizioni della nostra discussione (e mi sembra che ciò risulti anche nell'intervento di Maria Corti, non per evidenziare un gruppo dell'Alfa beta, scusate, che non c'è, /'Alfabeta è un'équipe, non è un gruppo) c'è l'accentuazione de~'esistenza di un referente, nel senso di Aristotele... il reale, vale a dire il referente per un linguista, esiste? o il referente non esiste?A me pare che presso alcuni non esiste il referente. Forse ci contraddistingue oggi l'accentuazione del/'esistenza del referente, nella ricerca non solo letterariama anche filosofica ed epistemologica. Se il reale esiste è in qualche modo approssimativamente riconoscibile attraverso atti linguistici oppure no. Questi mi sembra che siano i_due termini divergenti della questione.

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