Alfabeta - anno VIII - n. 85 - giugno 1986

porti di forza tra essi siano «non troppo» squilibrati. Spesso gli analisti distinguono tra negoziato conflittuale e negoziato cooperativo; la distinzione ha un'utilità dubbia: infatti se consideriamo il primo, detto anche distributivo, come la ripartizione vincite/perdite di un gioco a som- · ma nulla, tale situazione non ha niente del negoziato, se non nella preliminare accettazione delle regole del game, ma l'accettare di «stare al gioco» non può chiamarsi negoziato. Solo attribuendo ai due termini il significato rispettivamente di trattativa tra avversari ostili, interessati e disponibili alla lotta, ma costretti al compromesso o che utilizzano subdolamente la trattativa per migliorare le proprie posizioni (conflittuale), e di trattativa tra avversari amichevoli, cioè avversari che «in realtà» tali non sono e che pertanto uno scambio di informazioni porterà a riconoscersi ·come alleati (cooperativo), questa distinzione può avere un senso utile. E poi non si può dimenticare che la tecnica del negoziato può produrre effetti al di là delle intenzioni: un negoziato conflittuale può anch'esso stabilizzare una situazione, un «falso» sorriso può imporre l'abitudine al sorriso, lo scambio di informazioni può ridurre la paura del diverso. Un negoziato simulato può riuscire, oltre le volontà, ad esempio per gli aspetti di immagine ingigantiti dai media, a mutare un conflitto in un altro (una vera e propria speciazione) e persino ad eliminare la situazione di conflitto, può cioè divenire un negoziato cooperativo. E inversamente un negoziato che si pretende cooperativo può far nascere e sviluppare atteggiamenti conflittuali, creare antagonismi, ad esempio per una iniqua distribuzione dei vantaggi pur ottenuti da entrambi durante il negoziato. [... ] e i resta da analizzare in dettaglio dove, all'interno delle varie modalità di conflitto, può insorgere il negoziato (si vedano anche le figg. 1-3). Tatticamente sarà usato nelle lotte o perché costretti dai rapporti di forza o come tecnica manipolatoria; sarà invece usato come componente strutturale del dibattito, benché non sempre: infatti sono frequenti i dibattiti che pongono i principi al primo posto, opzione questa che esclude il negoziato dato che sui principi non si tratta; sarà un passaggio obbligato di diversi game. Nei game a 2 persone: guelli a somma non nulla, anzitutto, in cui il negoziato potrà evitare gli esiti disastrosi dell'equilibrio dettato dalle pavide scelte «razionali», come nel dilemma del prigioniero (Axelrod 1985), quelli-poi-in cui la matrice dei pay-off è dinamica e vi è una totale incertezza sui suoi cambiamenti oppure tali cambiamenti dipendono dalle scelte dei giocatori (è il caso della celebre, inarrestabile ascesa del dollaro nel noto game del dollaro ali'asta) e quelli in cui variano le strategie possibili e quindi le regole. Nei game a n persone (n>2) il negoziato è_quasisempre una componente strutturale nel determinare le compensazioni necessarie per consentire di costruire le coalizioni tra i giocatori (D'Amore 1976). Appare evidente che, non appena un game modellizzi in modo solo un po' adeguato una situazione reale di conflitto, non si può evitare il ricorso al negoziato; sicché la pretesa di fare della Theory of Games una Teoria Generale dei Conflitti ha anche questo limite interno: l'inevitabile insorgere del negoziato, fase questa certamente modellizzabile e codificabile, ma essenzialmente creativa; creativa non vuol dire affidata a miracolosi processi descrivibili soltanto liricamente. Poiché «il negoziatore deve combinare la rapidità di un ottimo schermitore con la sensibilità dell'artista» (Nierenberg 1970) e assomiglia molto a Don !sidro Parodi di Borges al quale, impegnato nella sua cella alla soluzione di casi misteriosi, «la fredda intelligenza speculatrice viene a conferma della geniale intuizione dell'artista». Don !sidro è della razza dei grandi detective in cui la tecnica si sposa alla capacità di inferenze audaci, in quel crescendo vertiginoso che dalla singola ardita abduzione (Eco e Sebeock 1983, Eco 1985) porta alla serendipity (Wutki 1977, Cerulli 1975), fragile e gigantesco castello alla cui precaria edificazione indulgono i grandi «segugi»: dal capostipite A. Dupin di Poe a Sherlock Holmes di Conan Doyle a Nero Wolfe di R. Stout al «mastino» Guglielmo di Baskerville di U. Eco, per citare solo alcuni dei più famosi: E la minaccia? A che punto insorge nel negoziato e nel conflitto? A quale scopo? Con quali possibili esiti? In termini tecnici la minaccia è «il delitto commesso da chi provoca in altri il timore di un ingiusto danno, prospettando un male futuro, il cui avverarsi dipende dalla volontà dell'agente». Stando a questa definizione dunque, se in un conflitto di tipo game un giocatore annuncia l'intenzione di adottare una strategia ammessa secondo le regole del gioco (che so, in un conflitto di lavoro, la strategia Scioperare) ciò non costituisce in senso proprio una minaccia, per quanto temibile possa risultare tale azione per gli avversari. Nel linguaggio corrente per minaccia si infende: «espressione di un'intenzione di infliggere male, ingiurie o danno ad un altro, spesso come retribuzione o punizione per qualcosa di fatto o non fatto; nuocere ad un altro con mezzi illegali, spesso implicanti coercizione o durezza; incutere timore». Anche in questa definizione emerge con chiarezza che non solo la minaccia non è un'azione, come è ovvio, ma anche il fatto che non si tratta neppure tanto di un'azione in potenza, ma di un condizionamento all'azione altrui; l'annuncio di una futura azione è fatto con lo scopo di non porla in atto, è parte anch'esso di una strategia comunicativa, come il negoziato, e perciò ad esso si apparenta, come diversa articolazione della medesima strategia. [... ] P er avere efficacia una minaccia (Lover 1982) deve: 1. essere credibile e/o essere percepita come credibile 2. essere basata su informazioni pre.cise 3. essere capace di nascondere informazioni ed intenzioni (di dissimulazione, cioè) 4. essere basata su rapporti di forza non troppo squilibrati 5. riuscire a nascondere la «velocità» della propria azione 6. aver tempo a disposizione 7. non attribuire un'importanza eccessiva alla posta in gioco. Qualche considerazione su questi punti è opportuna; in particolare il punto 4 va attentamente valu- . tato: le azioni con possibile esito suicida hanno in realtà l'effetto di aumentare, in modo disperato ma non inefficiente, la forza di un contendente, riequilibrando a volte in maniera eccezionale i rapporti; ciò perché il valore di rischio per l'at-· taccante è da lui considerato assai piccolo, il che rende comparativamente alto il valore della sua strategia di minaccia. Il che ci porta al punto 7 che introduce un (ulteriore) elemento di soggettività nel conflitto; taluni giochi, apparentemente a somma nulla, in realtà non lo sono proprio per questa ragione: i contendenti attribuiscono un valore nettamente diverso al guadagno di una certa somma e/o alla perdita della stessa somma; è il caso, nel gioco del poker - indiscutibilmente a somma nulla dal punto di vista monetario - di avversari con disponibilità di risorse eccessivamente squilibrata oppure con una psicologia orientata al massimo guadagno ovvero alla minima perdita, massimo guadagno o minima perdita non essendo la stessa cosa, come suggerirebbe l'analisi algebrica, proprio perché un milione vinto non è percepito come avente lo stesso valore di un milione perso. Per definire in quali situazioni di conflitto insorge la minaccia osserveremo che, come detto, essa può accompagnare ogni negoziato; poi in una lotta, ma in tal caso può essere una simulazione di minaccia, cioè una minaccia che vuole trovare le condizioni per realizzarsi: è il caso del meta-bluff o della provocazione, per costringere l'avversario al cimento; e infine nel dibattito: ricordiamo che le armi dei diC. Parmiggiani, Pelle-mondo, 1968 battiti verbali sono comprese nell'insieme di tecniche codificate della Retorica; tra tali tecniche particolarmente efficaci, ancorché «scorrette», sono le fallacie logiche e gli entimemi. Alcuni degli argomenti fallaci si configurano come vere e proprie minacce (ricorderemo solo che uno di tali argomenti si chiama ad baculum per convincerne): «se non credi a quel che dico, farai soffrire il tuo innamorato; ricordati che l'ha detto Aristotele; andrai all'inferno». La pragmatica ha prevalente funzione informativa solo nelle pie intenzioni dei logici illuminati. Nel campionario delle tecniche «sporche» usate nei dibattiti, infatti, troviamo: gli attacchi personali, la calunnia, il processo alle intenzioni, la tesi sostenuta in mala fede, l'intimidazione, l'ironia, la de- . risione, la corruzione, la diffamazione, lo scandalo, le voci false e tendenziose, il menare il can per l'aia, il ricatto, il ricorso al double bind (Bateson 1986) e così via sino . lutazioni evidenziata nel saggio di alla tortura e alla soppressione fisi- A. Cecchini. ca tout court. LJ ultima questione riguarda l'emergere progressivo di un nuovo tipo-di minaccia, benché l'uso del termine sia pm evocativo che esatto in questo caso. Si tratta della minaccia usata in situazioni di conflitto tipo lotta, in cui un antagonista è convinto dell'assoluta e irriducibile e malvagia in sé diversità dell'avversario: la lotta sarà comunque ingaggiata per quanto svantaggiosi possano essere i rapporti di forza (almeno nell'aldiquà). La minaccia è in questo caso nel preludio alla trattativa, se non (e raramente) in senso tattico e occasionale; è sì strategia comunicativa, ma di un'intenzione immodificabile di nuocere, informazione terroristica in senso proprio; in questo caso ogni criterio di razionalità è reso vano dall'incommensurabilità dei guadagni e delle perdite, èome nella scommessa di Pascal: se la posta in gioco è Paradiso vs Inferno la matrice dei pay-off perde· senso anche in una partita, anche in una mossa. Come reagire di fronte a questo tipo di conflitto è questione, a nostro avviso, oggetto di puro pragmatismo; di sperimentazione e di modellizzazione, a tutt'oggi, non si è in grado di parlare. E vano appare pure l'esercizio se ci riferiamo all'irrazionale dinamica della corsa agli armamenti: l'escalation· degli arsenali aveva una giustificazione razionale, ahimé, indiscutibile, ma ha preso vita propria ed autonoma diventando pura ed incontrollata follia; l'unica strategia razionale appare essere quella utopica del disarmo nucleare totale e senza condizioni. C'è da riparlarne. Conflitto senza negoziato Francesco Indovina I n queste note avanzo qualche osservazione con riferimento ad alcune esperienze concrete di conflitto senza negoziato. Questo mi obbliga a presentare qualche altro elemento rispetto alla ricca intersezione di azioni, fattori e vaIl conflitto sindacale prevede i seguenti passaggi che poi costituiscono, anche se presentate in modo schematico, le regole del gioco accettate, ancorché non scritte: - fissazione degli obiettivi; - scontro sugli obiettivi con la controparte; - conflitto; - trattativa; - accordo. Tralasciamo il fatto che tali «regole» prevedano come accettabili solo le manifestazioni di lotta da parte dei lavoratori (scioperi), mentre generalmente sono giudicate non accettabili quelle padronali (serrate); e ancora, che in tale ·diversa considerazione entrano in gioco elementi di valutazione relativi alla capacità di «resistenza», al pay-off, ecc. Quello che importa mettere in luce è che se le modalità del conflitto sono stabilite (regole del gioco) de tutto indefinito è il rapporto obiettivo/accordo (risultato); la cosa è apparentemente ovvia ma non è così. La distanza tra i due dipende infatti, in modo congiunto: a) dalla «ragionevolezza» degli obiettivi, cioè dalla valutazione circa cosa, quanto e quando l'avversario può (è disposto a) concederti; b) dal livello di resistenza, anche qua come 'elemento di fatto (durata e intensità della lotta) ecome previsione; . c) dal livello di consenso che all'interno di ciascun soggetto collettivo gli obiettivi ricevono (che poi si traduce in «partecipazione» alla lotta); d) infine dal consenso di altri soggetti (elementi di solidarietà). S i tratta, ovviamente, di una schematizzazione, anche se realistica, che rende conto del come in casi concreti possono funzionare le regole del gioco. Tale schema può essere arricchito di elementi collaterali non privi di peso nel determinare il rapporto conflitto/accordo. Intanto i «contendenti», in senso stretto, non sono due, ma almeno quattro, ciascuno dei due fronti è infatti distinto tra chi «tratta» e chi «lotta»; c'è un rapporto di reciprocità, certo, ma c'è anche differenza, soprattutto quando si professionalizza il ruolo di chi tratta (dirigenza sindacale, per esempio). Lavorando sulla differenza si può sostenere che se è vero che chi lotta «paga», è sempre chi lotta che «guadagna» dall'accordo. Tuttavia la valutazione di tale «guadagno» è complessa; per esempio l'eventuale accordo salariale ricolloca la distribuzione (della ricchezza) al punto del precedente accordo? La migliora? Di quanto migliora una parte rispetto all'altra? ecc. Tutti elementi che, anche se può non essere difficile tenere in conto sepa- -ratamente, possono, presi insieme, dar luogo ad infinite valutaziòni. È proprio per questo, ma non solo, che alla fine la valutazione dipenderà soltanto ed esclusivamente dalla distanza che intercorre tra obiettivo e accordo. Ma ecco che qui entra in gioco un altro elemento, il successo/insuccesso di chi tratta è misurabile proprio dalla distanza/vicinanza che intercorre tra obiettivo e accordo. In sostanza il giudizio prescinde dal livello a cui è stato posto l'obiettivo, per basarsi (quasi) esclusivamente su quanto si è strappato (accordo) rispetto a quanto si è chiesto; il giudizio, cioè, si relativizza. Ma se fosse così allora il successo dipenderebbe sia da quanto si riesce a innalzare il punto di accordo rispetto all'obiettivo, sia dalla definizione dell'obiettivo nei riguardi di una previsione di mediazione (si dovrebbe cioè tenere basso l'obiettivo). Di

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