Alfabeta - anno VIII - n. 85 - giugno 1986

conflitto: non però risolvendoli, ma fissandoli al senso e dunque riscattandoli attraverso lo stesso riconoscimento della loro ultimità e inoltrepassabilità, dal momento che Dio non spiega il male e la sofferenza ma li prende su di sé. La lezione di Dostoevskij sta essenzialmente in ciò. O meglio, in ciò sta la lezione che secondo Pareyson occorre «svolgere» da Dostoevskij, andando oltre Dostoevskij stesso. Fino a identificare il pensiero tragico con l'ermeneutica della «tragedia cristiana». Scrive Pareyson: «È un mistero grande e terribile, profondo e insondabile, che per un verso l'atto con cui Dio riscatta il dolore prendendolo su di sé sia anche l'atto con cui Dio si oppone a se stesso, insorge contro di sé, infierisce sul Figlio, cioè aggrava, aumenta, estende il dolore nel mondo al punto da renderlo, da umano che era, addirittura cosmico e teogonico; e che per l'altro verso l'atto con cui Dio si oppone a se stesso, e vuol soffrire e morire, e abbandona il Figlio tacendo di fronte al suo massimo dolore e anzi si distrugge da sé consegnandosi alle potenze trionfanti del dolore e della morte, sia anche quello con cui egli vince la sofferenza, redime Il «Io decisi (. .. ) di non lot- '' tare affatto contro un torrente che bisognava far passare, ma di tenermi en situation e in grado di concorrere a salvare ciò che poteva essere salvato, di noh elevare ostacoli tra l'occasione e me, riservandomi per essa.» Così Talleyrand nelle sue· Memorie, citate da Mario Pernio/a nel suo ultimo libro, Presa diretta (Cluva, 1986) e che in sostanza è il completamento del suo precedente Transiti (Cappelli, 1985). Nell'atteggiamento del vescovo, principe e statista francese vituperato per tutto l'Ottocent(I e in parte ancora oggi («Talleyrand, principe di. Indignarsi contro», Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni) risiede il nocciolo dei rapporti tra sapere e potere indagati da Pernio/a in questi due libri importanti (ma a ben vedere nella tetralogia composta da essi e da La società dei simulacri, 1980, e Dopo Heidegger, 1982). Talleyrand era ed è odiato perché la sua attività politica fu ispirata ali'opportunismo. E l'etica del mondo moderno, basata principalmente sufi' enfasi della razionalità e della moralità come progetto, è proprio il contrario del saper cogliere le occasioni; chi si affida ali'istante favorevole è o un esteta, o un debole, o un delinquente, nel caso ne tragga dei benefici. È una legge generale che vale persino per l'arte (c'è su questo punto un aneddoto riportato da Gadamer in Verità e metodo: sotto l'impressione e la norma dell'estetica del genio che si abbatté sul 'Europa romantica grosso modo con l'idealismo, si decise di amputare nella edizione del 1826 delle liriche di Holderlin una dedica a Sinclair nell'inno al Reno, e lo si presentò come un frammento; meglio scempiare un testo che esporlo all'imperdonabile accusa di occasionalità). Eppure, «non lottare contro il to"ente» (rivoluzionario o controrivoluzionario), tenersi en situation non significa forse esercitare l'attività eminentemente 'filosofica della mediazione? Mediare non significa in fin dei conti far transitare, lasciar passare? Sì, certo. Ma in filosofia la mediazione deve avere un fondamento e un fine, quindi un progetto. L' enciclopedia delle scienze filosofiche acl'umanità, conferma se stesso. Il momento ateo della divinità è anche il momento teistico». G ià nell'introduzione all'ultima edizione di Esistenza e persona Pareyson faceva notare come l'ermeneutica dia luogo a una teoria dell'ambiguità originaria che trova in Dio stesso il principio dell'incontenibile sdoppiarsi e convertirsi d'ogni sguardo gettato sul mondo. Ma appunto lo trova in Dio; perciò un pensiero consapevole del doppio, tragicamente doppio movimento che lo divarica deve tuttavia decidersi di fronte ali' «opposizione radicale fra l'attribuzione d'un senso al mondo e l'affermazione della sua assurdità, dilemma al quale senza residuo si riduce quello dell'affermazione o negazione dell'esistenza di Dio». Certo, la realtà può apparire con un volto benefico, luminoso, positivo e un volto malefico, tenebroso, negativo e sempre con la possibilità che l'uno trapassi nell'altro; anzi, quando la realtà sia accolta . come donq gratuito. e generoso.è la stessa meraviglia a suscitare orrore per il nulla, mentre quando la realtà incombe con il suo carico di pena e d'ingiustizia è la stessa angoscia a far rimpiangere il non essere. Viceversa: l'essere è oggetto di stupore, ma prima ancora è oggetto d'un sentimento di paralisi e di vertigine, già per il semplice fatto di essere, senza fondamento, senza presupposto, senza destinazione, ma· esso stesso presupposto e destinazione di sé. Così all'infinito, tanto che inevitabilmente la «condizione umana» appare «quella d'instabilità e problematicità che non cessa un istante d'essere tragica». Tuttavia - ciò senza di -cui l' «esser tragica» di questa «condizione» non si darebbe - la stessa convertibilità degli opposti postula Dio ossia la decisione per o contro il senso, pena il suo appiattimento e dissolvimento nel gioco d'una sempre incompiuta semiosi. "" Ma come dire Dio? Come concepirlo filosoficamente? Come trattarlo alla stre~ua d'un contenuto del pensiero? E questa, evidentemente, la difficoltà maggiore che un discorso arduo e controcorrente come quello di Pareyson deve affrontare. Il che accade nel saggio d'apertura ( «Filosofia ed esperien- . za religiosa») dell'Annuario filosofico da Pareyson recentemente fondato. Pareyson esordisce affermando, senza esitazione, che «il problema dell'esperienza religiosa non è il problema metafisico di Dio». Del Dio metafisico, del Dio.dei filosofi (e dei teologi), del Dio come principio e fondamento della realtà la filosofia in definitiva· non sa che farsene, in quanto la realtà non ha bisogno d'essere fondata: non è eh' essa esista perché possibile o necessaria, ma appare possibile o necessaria perché esis~e. La realtà è questo librarsi su di sé, è questo libero, stupefacente e terribile stare, è questo essere assolutamente primo e abissale, la cui essenza è la libertà. Ora, come chiamare tutto ciò se non Dio? Naturalmente, un pensiero che s'accinga a nominare Dio non può in alcun modo prospettare una «teoria esplicitamente concettuale della divinità», perché muove dal riconoscimento che il divino, cioè il reale, non si dà se non là dove il concetto, inflettendosi sul proprio movimento d'astrazione, testimonia l'inafferrabilità di ciò che lo sovrasta. Tale pensiero deve raggiungere il divino dov'~sso si _manifesta nell'unico modo ad esso adeguato: nel mito. Infatti è nel mito che il divino appare come identico a sé e come assolutamente altro da sé, P • I • • • ern10a ·1n.s1hlaz1one coglie ogni cosa nel proprio corpus, ma la giustifica, la finalizza, conferisce validità e moralità. Un processo laborioso e in realtà infinito che ha come risultato più evidente il ritardo costitutivo della filosofia rispetto alla realtà. Il razionale è reqle, tutte le occasioni hanno una spiegazione filosofica, ma la filosofia-nottola di Minerva· giunge a mediare solo quando le cose si sono già compiute, al calar della sera, a conti fatti, alla fine della battaglia. Che i filosofi avessero cattivi rapporti con la realtà proprio a causa del ritardo costitutivo della mediazione filosofica è materia di aneddoti popolari, ed è dimostrato · storicamente dalla modestia dei ruoli istituzionali che essi hanno ricoperto. Per un progetto (mancato) di filosofo-re in Platone, la storia è piena di filosofi precettori (talora di principi, spesso di privati poco influenti), segretari, artigiani, piccoli proprietari, pensionati. Kant, nel Conflitto delle facoltà, mise in chiaro con gusto rococò lo statuto della facoltà di filosofia come «facoltà inferiore» nei confronti delle facoltà «superiori» (giurisprudenza, teologia, medicina). La filosofia quindi non solo pare subordinata al potere, ma persino a altre forme di sapere. E il Novecento arricchisce la casistica: disavventure di Heidegger con Hitler, di Gentile con Mussolini, probabilmente anche di Dewey con Roosevelt. Alla domanda: che cosa aveva Hitler che mancasse a Heidegger, .uomo colto, probo e intelligentissimo? - la risposta è sempre uguale: Hitler era infinitamente più veloce. O ra la situazione sembra anche peggiorata. Di fronte alla legge e a/potere, i filosofi del passato potevano almeno illu- . dersi di archiviare, spiegare, accumulare, mettere in sistema. Ma da Hegel in avanti si è progressivamente affermata la convinzione per cui il sistema non si. realizza, l'enciclopedia non si chiude, il sapere assoluto è irraggiungibile. La filosofia, da secoli rassegnatasi al-_ la impotenza, deve ora mettere da parte anche la pretesa a una giustificazione razionale (per quanto tardiva) del reale. Se seguiamo la prospettiva, per Maurizio Ferraris esempio, dei neo-pragmatisti americani/come Richard Rorty o Stanley Fish,. l'antifondazionalismo è veramente l'ultimo discorso della filosofia, perché non solo mostra come le cose siano andate sempre benissimo in assenza di filosofia, ma potranno farne del tutto a meno anche in futuro; per cui la fil~sofia diventerebbe più o meno un tipo di scrittura, come il dramma borghese o la ./irica - cose da cui ci si può dispensare, certo meno importanti, per es.empio, della politica liberale ·o della economia (questo discorso sembra tanto più radicale in quanto la esclusione della effettualità della filosofia è qui condotta da pragmatisti). Ma che non ci siano enciclopedie autotrasparenti, saperi assoluti e fondazioni certe non necessariamente si risolve in una catastrofe filosofica. Forse è persino la premessa paradossale per una forza della filosofia, per una energia molto maggiore di quella possibile ai tempi delle metafisiche e dei fondazionalismi. Senza il sistema, la fondazione e la giustificazione, diviene anzitutto realizzabile, come mostra bene Pernio/a, la presa diretta. Qui Pernio/a sgancia il concetto di mediazione da quello, che gli è stato sistematicamente correlato, di totalità. Chi ha detto che solo la totalità giustifichi la singola mediazione? E se si fosse in grado, filosoficamente, di mediare cogliendo il kairòs, il momento opportuno, come più o meno sperava Zarathustra (<fSedersisulla soglia del/' attimo») e come riuscì sistematicamente al detestato vescovo-principe? Nella prospettiva della presa diretta, la mediazione filosofica non avviene attraverso il calcolo laborioso delle cause e degli effetti, che la pongono in uno stato di patetico disaccordo rispetto alla realtà - ma di volta in volta secondo l' occasion~. Si capisce perché qui Perniol(l congiunga l'estetica alla politica. In entrambi i casi, non esistono condizioni enciclopediche esplicite, regole, canoni e precetti che valgano normativamente - ma solo situazioni concrete, scelte politiche il cui esito non è troppo prevedibile, e opere d'arte la cui riuscita non è garantita da regole precedenti, ma dal loro concreto realizzarsi, dal loro porsi in opera. Non per questo si tratta di attività acefale, in cui la mediazione semplicemente si dilegui; prova ne sia che non tutti sono capaci di porsi en situation, e quindi non tutti sono politici o pittori. O anche cuochi, per esempio;. /o mostra bene Kant, riprendendo Hume nella Critica del giudizio: «... sebbene, com~ dice Hume, i critici possano ragionare più plausibil'mente dei cuochi, hanno con questi un comune destino. Non possono aspettarsi il fondamento determinante del loro giudizio dalla forza degli argomenti, ma soltanto dalla riflessione del soggetto sul proprio stato (di piacere o dispiacere), prescindendo da ogni precetto o regola». E in effetti molta filosofia contemporanea ha tratto dalla fine degli ideali epistemologico-fondazionalisti le ragioni per una ripresa del modello del giudizio riflettente: il giudizio filosofico non si formula muovendo da un universale dato, ma si esercita sul caso singolo, e da quello risale a un universale che di volta in volta gli corrisponda. R ispetto alla ripresa del giudizio riflettente, la filosofia del kairòs e della presa diretta di Pernio/a sembra presentare, però, una tonalità più «affermativa». Vale a dire: non si tratta tanto di trovare modelli da far valere faute de mieux in mancanza di fondazioni chiare; piuttosto, il venir meno delle fondazioni è un vantaggio oggettivo, una crescita per la filosofia. Anche nei confronti del potere. Una filosofia del transito è sicuramente più forte, nei confronti di qualsiasi potere, che non una filosofia della fondazione. Come? Più o meno nel senso, mi pare, che in una società contemporanea il software è sempre più forte dello hardware. «Il vero conflitto è tra un pensiero che può anche sembrare povero e misero, ma che è essenzialmente forte ed effettivo, ed una effettualità che può anche sembrare forte e potente, ma che è essenzialmente il colmo dell'impotenza e dell'indigenza» (Presa diretta, p. 92). Non è necessario sapere tutto per sapere qualcosa, ed è comunque meglio che non sapere nulla. Pernio/a recupera, nella nozione di transito, uno dei significati delI;erperché la mitica coincidenza di segno e significato non solo non toglie, ma esige l'ulteriorità del proprio oggetto nel momento in cui lo assorbe completamente in sé. È nel mito per esempio che Dio si fa presente e parla e s'immedesima con la sua stessa parola, ma (divina ironia dell' «io sono chi sono») restando anche al di là d'ogni parola. Filosofia come interpretazione del mito, dunque, filosofia come ermeneutica della tragedia della divinità: cos'altro si esprime, infatti, nel mito, se non questa tragedia? E qui Pareyson stringe l'anello del suo discorso nel punto più delicato. Se il mito non è che tragedia divina - e non c'è infatti racconto mitico che ·non ne faccia il proprio tema o almeno non alluda ad essa - allora l'ermeneutica, come interpretazione del mito consapevole della sua originaria solidarietà col mito stesso, non potrà essere che pensiero tragico. Perciò il nesso di ermeneutica e pensiero tragico è fondamentale. Salvaguardare questo nesso è un compito che, sulla scorta di questi .ultimi, dec:isivi, lampeggianti sviluppi della riflessione pareysoniana, si presenta oggi alla filosofia nella sua radicalità. meneutica su cui si è meno riflettuto, con l'eccezione, forse, di Miche/ Serres: Hermes è il dio degli incroci e degli scambi. La filosofia, proprio nella misura in cui non ha più scrupoli f ondazionalistici, non si trova più nella patetica condizione di perenne ritardo che affliggeva la nottola di Minerva; può mettersi en situation, regolare i flussi di qualsiasi torrente. Ciò che si è perso in termini di fondazione, del resto illusoria, viene ripagato a usura dalla accelerazior,.edei tempi permessa e richiesta da un pensiero del transito, della presa diretta, del kairòs. «La grandezza dei pittori del passato consiste appunto paradossalmente nella loro occasionalità, nella loro modernità, nel rapporto di profonda congenialità che essi seppero instaurare con la loro epoca. Il poeta e l'artista deve perciò essere non uno specialista di parole e di colori, ma innanzitutto un uomo di mondo, un homme du monde, vale a dire "uomo del mondo intero, uomo che comprende il mondo intero e le ragioni misteriose e legittime .di tutti i suoi usi"» (Transiti, p. 175). Probabilmente, e credo che Pernio/a sarebbe d'accordo con me, la filosofia, per quanto incamminata verso il transito, non ha ancora raggiunto pienamente questa condizione, che è invece precisamente quella dei pittori, antichi e moderni. Valga per tutti il caso di Andy Warhol, che per trent'anni è stato en situation a produrre transiti e a fare scambi in presa diretta con il reale, effettivamente indipendente e forse più potente del potere industriale che celebrava Marylin, Liz Taylor, zuppe Campbell, sedie elettriche. Simile mi sembra anche il caso di Duchamp, pittore, filosofo e industriale. (E qui .mi sembra che Deleuze vedesse bene· quand() anni fa enfatizzava il nocciolo filosofico della attività di Warhol e di Duchamp). Mario Perniola Transiti. Comesi va dallo~ allostes.w Bologna, Cappelli, 1985 pp. 245, lire 19.800 Presa diretta. &tetica e politica Venezia, Cluva, 1986 pp. 170, s.i.p.

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