Silvio Guarnieri Storia minore illustrazioni di Vico Calabrò . Verona, Bertani, 1986 pp. 522, lire 32.000 P erché Storia minore è un'opera veramente conclusiva? In che modo si manifesta in essa, in quanto racconto frantumato e insieme fluente, la con-elusività, sempre per altro «aperta», come un «punto di approdo» che è - contemporaneamente - un «'inizio» (p. 521)? Essa è conclusiva perché si presenta come il vertice in cui acquistano significato e si aprono alla piena luce del senso tutte le tappe narrative precedenti di Guarnieri scrittore, tutti gli «approdi» precedenti: da Autobiografia giovanile di anonimo scrittore contemporaneo (1941, e recentemente ristampata, a Feltre, presso la Libreria Pilotto, 1984), a Utopia e realtà (Torino, Einaudi, 1955), a Cronache feltrine (Vicenza, Neri Pozza, 1969). Guarnieri, andando alla ricerca del Sé, mirando al fondo del proprio Io, con il pensiero rivolto ad una inesauribile e introvabile autenticità, andava in realtà, già da sempre, alla ricerca dell'Altro. Era, ed è sempre stata questa, la memoria: la sua scrittura di memoria, che è, in fondo, il gesto essenziale riposto in ogni atto di scrittura. Storia minore, nascendo nella solitudine e nel silenzio di chi si sente ormai fuori dalla storia in quanto soggetto attivo, ritrova il senso dell'esperienza proprio là dove quest'ultima sembrava perduta: nella realtà «minore», appunto, che si rivela come unico oggetto possibile di storia, laddove la «grande storia», trascurando la concretezza dell'ex-sistere, lo abbandona all'oblio, alla dimenticanza, ma garantisce anche il suo «segreto», ne rende possibile l'emersione grazie all'illuminazione della scrittura. Se dunque nei libri di narrativa precedenti il racconto aveva teso a far luce sulla realtà dell'Io, per così dire, immediatamente, in modo che l'altro apparisse sempre in funzione di questa strenua ricerca di identità, qui Guarnieri approda all'Io attraverso l'esperienza dell'alterità: scopre se stesso negli altri e gli altri in se stesso. Le vicende raccontate in questo libro, proprio perché si snodano lungo un arco di tempo che abbraccia anche anni non vissuti direttamente dallo scrittore, lo costringono a servirsi di esperienze indirette: di echi, di fatti narrati, di immagini tramandate nel tempo. Si tratta di fugaci episodi accaduti nell'area del Feltrino. in un piccolo angolo di mondo, tra la fine del Sette~ cento e i giorni nostri. Naturalmente, proprio perché Guarnieri deve far sua la storia, per poterla raccontare, a mano a ..... mano che ci si avvicina alla con- ...., c::s temporaneità, al qui e ora del mo- .s mento presente, l'analisi di fatti e ~ c:i,. personaggi si fa sempre più insii€ stente, minuziosa. La pervicacia ~ della ricostruzione tende a divenire ~ com-passione, nel momento in cui ~ un volto, un carattere, o un gesto, ·Ò<l devono essere compresi per quello ~ che sono: espressioni di un travai;: glio esistenziale culminante nel ~ «sogno di una cosa», oppure - che -e è lo stesso - nell'intensità istanta- ~ ~ nea del desiderio. - . - Storiaminore I personaggi, colti nel momento in cui sono «sfiorati» dalla grande storia, pur essendone i protagonisti inconsapevoli, vivono e sanno di vivere, grazie a questo Attimo irripetibile: può essere il gesto della nobildonna di Billesimo che, danzando nuda attorno all'«albero della libertà» durante gli anni delle «rivoluzioni giacobine», anticipa lo scacco di ogni speranza liberatoria; e può essere il gesto dei comandanti partigiani che vivono pienamente solo in quanto si fanno carico dell'utopia; o può essere, ancora, il semplice gesto dell'operaio che, rivendicando il diritto di bere un bicchiere di vino nel bar frequentato dalla borghesia, a Liberazione avvenuta, se ne va tra l'indifferenza generale: atto eroico, rivendicazione di una propria legittimità umana dopo gli anni della dittatura, che rivela però il carattere sotterraneo, e ben più corrosivo della: «nuova» violenza perpetrata dal potere nei confronti degli esclusi: «Ora invece quella indifferenza annoiata, appena seccata, stava a significare un'esclusione più grave; non solo a lui, alla sua affermazione non era ve- · nuta alcuna risposta; ma gli si era fatto capire che egli non meritava nessuna risposta, che in nessun modo, per nessuna via a loro era possibile mettersi, - scendere - al suo livello» (p. 335). Il nuovo potere che si va profilando non esclude per discriminazione, per differenza, ma per in-differenza, perché ha assorbito ogni ragione di diversità. Q uesta folla di figure emerge a mano a mano che la memoria si fa scrittura: tutte hanno un carattere, una misura del comportamento, una ragione che Alberto Folin ne giustifica la vicenda. Ma tutte possiedono, anche, un nome proprio. L'ostinazione con cùi Guarnieri riferisce fonti e testimonianze, l'esatta definizione di nomi e di parentele, non ha il mero scopo di rivendicare la veridicità del racconto: Guarnieri è troppo grande narratore per cadere in vecchie e stantie chiacchiere sul primato della «cronaca» e della «realtà vissuta»: infine, egli non è mai stato uno scrittore realista. · Piuttosto, questa ossessione di dire il nome proprio, risponde ad un'intima necessità di scrittura. C'è infatti, dice Guarnieri, «semK. Seligman, L'ultra-meuble, 1938 pre nell'uomo, in qualunque uomo, una zona profonda, e per lui la più valida, quella per la quale egli è veramente uomo, che gli permette, che gli rende possibile la partecipazione, la solidarietà con l'altro uomo; anche con quello che pare a lui più lontano» (p. 386). Questa «zona profonda» è la zona del «nome proprio», quella dimensione abissale, enigmatica e sconosciuta, che sottrae il Tu alla de-finizione generalizzante e astraente: lo contraddistingue come individualità, ad un tempo, irripetibile e inter-detta alla conoscenza; e sulla quale, tuttavia, la scrittura inesauribilmente si interroga. «... ho cercato di cogliere in loro, quasi senza propormelo - afferma Guarnieri- un loro piglio, un loro estro che manifestavano, che denunciavano una ragione più fonda del loro essere, persino al di là di quella del loro agire» (p. 521). Ed ecco che di fronte alla morte, sconosciuta e miserabile, di tale Rizzieri Raveane «Nicolotto per nome di battaglia», lo scrittore è colto da una grande tristezza perché si era «perdut[ a] l'ultima occasione», per «ridargli quel volto, per riaffermare quella presenza nei quali egli aveva espresso il meglio di sé» (p. 423). L'esperienza partigiana rappresenta allora non solo e non tanto un fatto, politicamente valutabile, ma I' «occasione dell'esistenza», il momento in cui la decisione si rivela possibile, e riverbera di luce il volto: attimo al quale si guarderà per sempre con nostalgia, perché solo allora ciascuno di questi personaggi è stato per ciò che egli è: «... e certamente, in ogni int~rvento, in ogni scritto, in ogni discorso, elemento preminente era una arrovellata nostalgia, era il senso di essere stati, anche per un lungo tratto, depositari di una ricchezza che poi si era perduta, che si era rapidamente vanificata; ed era ancor più la convinzione, velata od evidente, accettata o respinta, che quell'occasione ad un certo momento era sfuggita e mai più si sarebbe offerta; e restavano il rammarico, la profonda amarezza di non essersene neppure resi conto, di non averlo nemmeno preveduto, infine di essere stati beffati dalla realtà; e dalla più meschina, dalla più squallida realtà» (p. 456). Il nome proprio è dunque, semplicemente, il volto dell'Altro, la sua irriducibile alterità. In questa zona, in questo tratto che separa · l'Io dal Tu, in modo tale che, però, il volto si intravvede soltanto nella profondità dell'Io stesso, sta, propriamente, la dimensione etica della scrittura di Guarnieri: quello che è stato definito da molti come il suo tratto distintivo. Ed è proprio qui, grazie a questo primato dell'etica, sostenuto da un'intransigenza talvolta «assillante», che ne ha fatto, per usare un'espressione di Elio Vittorini «un pubblico accusatore della cultura italiana», che Guarnieri appare come uno scrittore esemplare dell'intera vicenda letteraria novecentesca. Questa Storia minore porta infatti a evidenza una tendenza latente nella letteratura del Novecento (e non solo italiana), iniziata negli anni de La Ronda e di So/aria, ma già prima formatasi nell'ambiente triestino di Svevo, Slataper, Stuparich, Michelstaedter: una tendenza cui non sembra estraneo Proust, e che ci richiama alla mente quel famoso Scarico di coscienza con cui Vittorini sulla fine degli anni Venti andava alla ricerca di maestri per la nuova generazione: accanto a La Ronda, «Proustdiceva Vittorini - è il nostro maestro più genuino, più spontaneo, più caro, di cui non sapremmo privarci senza abbandonare i nostri medesimi pensieri, senza sacrificare il nostro mestiere». Guarnieri, proprio perché ha attraversato tutte queste esperienze, rimanendo rigorosamente fedele a questa sua formazione, chiarisce, forse, sul finire del secolo, questa latenza, questa invariante della letteratura novecentesca: la dissidenza insita nella scrittura moderna nei confronti della modernità stessa, l'estenuante tentativo di andare alla ricerca di un residuo di quella memoria, risolta in forma etica, che la modernità ha reso inattuale. La scrittura diviene, così, il fine di ogni interrogazione ontologica: della sola interrogazione che valga la pena di porre e di pensare. Non è un caso che Svevo e Comisso siano riconosciuti da Guarnieri come due scrittori a lui «cari ed esemplari»; non è un caso che una profonda amicizia lo leghi ad un poeta come Andrea Zanzotto. Dietro questa vicenda intravvediamo in fondo lo scacco del realismo e del solipsismo, che hanno guidato tanta letteratura di memoria, da Pratolini a Pavese, a un certo Vittorini; la falsa alternativa tra «pubblico» e «privato» che ha avvelenato tanti anni della cultura contemporanea; infine il nucleo profondo della vicenda entro cui si dibatte l'immaginario collettivo contemporaneo. Riflettendo su ciò, ci viene dunque da ribattere a Carlo Bo, il quale ha definito Guarnieri «il guardiano del faro di anni lontani», che questo ruolo è ben vivo; che «guardiano del faro» Guarnieri lo è ancora; e comprendiamo, anche, estendendolo ad un'area più vasta, collettiva, ciò che oscuramente Calvino voleva intendere, scrivendo: «C'è una "zona Guarnieri" nella mia mappa dello scrivibile: lazona dell'esperienza vissuta e riflettuta fino in fondo giorno per giorno, la zona dei fatti che danno forma e senso alla vita. La chiamo "zona Guarnieri" perché Silvio Guarnieri scrittore ha praticato questo tipo di prosa insieme narrativa e saggistica e perché Silvio Guarnieri critico ha sempre identificatò il valore nella ricerca d'una verità morale ed esistenziale. La lezione di Guarnieri ha contato per me fin dagli anni della mia formazione letteraria perché mi è giunta attraverso la vibrazione morale e la calorosa fiducia umana che egli ~ sempre riuscito a comunicare».
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