Alfabeta - anno VIII - n. 84 - maggio 1986

che «gliirregolari, gli eccentrici, gli atipici finiscono per rivelarsi le figure più rappresentative del loro tempo». Come dire che, secondo Calvino, oggi in epoca fortemente tecnologicizzata, la manifestazione del bello, del sublime come del comico, del poeticamente bizzarro è fugace e perciò la sua espressione artistica non può assumere antiche dimensioni grandiose. Si può postillare qualcosa alla ripartizione calviniana. Si può affiancare al gruppo degli irregolari, degli eccentrici, quello di altri scrittori italiani che alla razionalità tecnologica risultano bene omologabili: ad essi si devono libri molto acutamente costruiti, retti da forte e costante intelligenza, che si ammirano anche e soprattutto si vendono benissimo, ma sotto i quali non si sente quella cosa che una volta si chiamava anima, o vuoi spirito, poesia. La sua assenza suscita continuamente il desiderio che se ne rinnovi la presenza. Anche perché in questa categoria di scritti che vorrebbero indicare la via del futuro scientifico-tecnologico dell'umanità solo i libri scritti con questa anima dentro risultano liricamente profetici: chi mai ha celebrato con ironico realismo i riti tragici della tecnologia avanzata e della bomba atomica meglio di Matthew P. Shiel in The Purple Cloud del 1901 nientemeno? Come si ricorderà Adelphi ne diede traduzione col titolo La nube purpurea nel 1967. Chi su questa tematica ha scritto qualcosa di altrettanto sublime? I n questa prospettiva di produzione italiana, poiché è di Italia che si sta parlando, qualche problema rimane, uno soprattutto a cui si accenna nel chiudere e che si potrà riprendere nella discussione: se oggi crescesse un genio pieno di fecondità e di istintiva grandezza, che farebbe? Si adeguerebbe agli eccentrici, agli atipici, che scrivono il suggestivo, sottilmente fantasioso libretto oppure si adeguerebbe a quegli altri che per una ben asettica civiltà tecnologica del domani costruiscono, a seconda delle loro forze, cappellette o templi? Saremmo cioè in un'epoca che impedisce per sua costituzione l'esistenza dei Dostoevskij o dei Proust? Ho citato scrittori fra quelli che facevano credere che il .sublimeappartenesse alla storia umana. Saremmo allora in un'epoca che finisce col rendere rispettabili e ammirabili i propri limiti? O forse si dovrà -dire con Goethe che il tempo trascorso dal seme sotto terra, quindi invisibile, è parte integrante della vifa della pianta? A queste domande è difficile rispondere, ma non credo che porsele sia come credere di colpire un chiodo e dare. invece solo martellate su un muro. Una storia cinese Gérard Macé Il • Per il principe Yang fu co- '' -sa facile r~ndere omaggio al cadavere di suo padre, e cavalcando tra le orifiamme estendere· il, proprio impero su tutte le ten:e conosciute. La prova più terribile fu l.;inoia, quando decise di lasciarsi andare ai piaceri, nella cittadella splendiclacome una montagna candida costruita per lui dal1'architetto Lao. Dopo giorni di malinconia passati a colpire a vuoto nell'aria, il principe Yang ordinò a Lao di costruire il labirinto più incredibile che si potesse immaginare: "Fra sette anni lo voglio vedere stendersi sulla pianura. Se mi perderò sarai tu a regnare sul mio impero. Ma sarai decapitato se io ne scoprirò il centro". L'architetto riprese le sue attività quotidiane, e arrivato l'ultimo giorno dei sette anni si presentò davanti al principe porgendogli un libro: "Questa è la storia della tua vita. Quando ne avrai trovato il centro la tua spada potrà abbattersi sulla mia nuca".» Questa antica storia ci arriva dalla Cina, attraverso successive versioni e traduzioni fortunose come il percorso dei venti, come è pure dalla Cina che è arrivata la scrittura ai giapponesi - a meno che le «ambasciate» del VI secolo, ossia flottiglie di poche imbarcazioni, l'abbiano portata dal continente perché gli uomini la usassero. Indubbiamente a causa di questa origine, un prestito a cui si può dare una data, il libro di Lao a cui avevo pensato tante volte a causa del significato incerto e della scrittura ingarbugliata mi ritornò in mente trovandomi in uno dei passaggi coperti di Kyoto dove ero entrato per caso, forse attirato dall'illusione di freschezza che dà la luce verdastra, e specialmente troppo stanco per domandare ancora una volta la mia strada con una di quelle frasi imparate a memoria e ripetute come le frasi fatte delle fiabe.· Sveglio sì, ma come deve esserlo un sonnambulo (o come tanti giapponesi che non si abituano alla posizione verticale, loro che vivevano raso terra da secoli: certi dormono in piedi mentre altri sono vacillanti), scoprii sul banco di un libraio, in mezzo a rotoli, stampe e cataloghi, un astuccio di tela marrone chiuso da un fermaglio di corno o di avorio - di corno o di avorio come le porte del sogno. Al suo interno il disegno chiaro e fine di tre foglie orlate d'oro sulla copertina blu notte di uno di quei libri che per noi si aprono al contrario mi diede l'impressione di essere ammesso a contemplare un segreto che si mostra senza scoprirsi, e che calma il cuore invece di farlo battere più forte: come se ilmondo fosse in ordine grazie al caso organizzato di quella calligrafia dove ogni carattere si iscrive in un quadrato invisibile, e di cui a prima vista indovinai solo il no del genitivo, fragile legame tra glielementi della frase e il susseguirsi delle cause. (Dappertutto in Giappone i legami sono leggeri come quelli dell'immaginario: un segno minimo basta per sbarrare un'entrata - un bambù messo di traverso, una pietra con attorno una corda - dappertutto tranne che in famiglia: il matrimonio per la donna è dipendenza: ci vuole la forza dell'uomo per stringere l'obo attorno alla vita e per annodarlo sul dorso.) Piuttosto che inventare avvenimenti più o meno confusi, o parole la cui pronuncia non è mai sicura (malgrado i katakana in rosso a margine di certi caratteri, cosa che dava al manoscritto la parvenza di una partitura musicale) preferivo perdermi in quei tratti in tutte le direzioni, indovinando la posizione del calligrafo, lo slancio del suo gesto e il pennello più o meno dritto. Seppi il giorno dopo che quel libro era intitolato Basho ma che non aveva nessun rapporto con il poeta di cui avevo visto qualche giorno prima la casa fragile su una collina coperta di muschio, là dove viene ancora mostrato il pozzo su cui si chinò un monaco per attingere l'acqua per il tè che voleva offrire-al poeta, perché in questo paese senza rovine (lo sono solo gli alberi pluricentenari o sul punto di morire) si trasmette il ricordQ di una sensazione. Basho è in verità il nome giapponese di un albero le cui foglie somigliano a quelle del banano (e forse anche di un'altra pianta il cui nome latino non mi'sarebbe d'aiuto), ma era in quel caso il titolo di un dramma no. Se si pensa che Matsuo Munefusa prese Bashò come pseudonimo per via di un «Eremo con banano» che fu per un certo tempo la sua dimora (ed è lo stesso albero che gli amici piantarono sulla sua tomba), si può dire che se non ci conducono al centro del labirinto le parole ce ne fanno superare l'invisibile entrata. Si sa grazie a Nerval, all'inizio delle Filles du feu, fino a dove può condurre la ricerca di un libro visto in una città straniera. Non so se quello che ho visto a Kyoto sia ancora là oppure se sia in altre mani, ma so, grazie a Lao, precettore e architetto, perché non potevo comprarlo anche se ero tentato di farlo: perché i libri illeggibili sono troppo simili ai meandri del cuore. Narrazionee riflessione Danielle Sallenave A ttualmente, in Francia, si tratta di «tener duro» contro la requisitoria mossa verso il Nouveau Roman e la sua pretesa illeggibilità. Una requisitoria fatta in nome .di una diffusa pretesa di leggibilità e chiarezza, e che ha per fine la esclusione di qualsiasi carattere riflessivo nella scrittura: È un movimento di restaurazione presente non solo nella letteratura. Non sono un filosofo, ma mi pare che certi pamphlets usciti qua e là negli ultimi anni in Francia contro la filosofia dell'ultimo ventennio rientrino in questa tendenza. Del resto, il Nouveau Roman non aveva mai abbandonato la narrazione, era stato piuttosto unariflessione sulle condizioni della narratività. Certo, il percorso degli scrittori della mia generazione è consistito in una messa in crisi dei principi fondamentali della narratività- a cui però è seguito un ritorno critico al racconto, che ha reintrodotto la punteggiatura, la frase, i personaggi, la verosimiglianza, l'intreccio. Un percorso in parte inverso a quello degli scrittori della generazione precedente - valga per tutti l'esempio di Calvino. Che era partito da una narrazione relativamente classica, con Il sentiero dei nidi di ragno, per poi giungere, in particolare con Il castello dei destini incrociati, alla dissoluzione dell'intreccio in una combinatoria matematica. Ma già con Se una notte d'inverno un viaggiatore l'impossibilità della narrazione dà vita a una nuova forma di necessità romanzesca che, attraverso l'ironia, reintroduce la referenza, gli affetti, il mondo. Con il ritorno generalizzato alla narrazione, questi percorsi complessi (dal racconto, alla crisi del racconto, a un nuovo racconto ironico, in Calvino; o dalla critica del racconto alla narratività, negli scrittori della mia generazione) rischiano di confondersi con l'attività di scrittori che non hanno mai attraversato una fase critica e riflessiva, ma hanno semplicemente accettato le regole più convenzionali della narratività e della leggibilità. Traduzione in compendio dell'intervento àl Colloquio a cura della redllzione italiana. Il monolocaledel rac(Onto Antonio Tabucchi S timato signor Quantum, sono certo che la mia lettera susciterà la Sua disapprovazione. Lei è un uomo giusto e positivo, e dotato di una fede serena che non poggia su credenze o su ideologie, ma sull'implacabile punto di vista quantitativo. Cercherò di spiegarmi meglio prendendo in prestito una riflessione di un grande e tragico scrittore della mia lingua che ha visitato il lato più biecamente comico del mondo: Carlo Emilio Gadda. «In genere gli uomini, gli scienziati in particolare, hanno spezzato o disintegrato il nucleo di materia ereditato dai predecessori, insistendo sul punto di vista quantitativo. Per dire meglio: le cose sono andate da sé. Quando ai fanciulli si insegna che la molecola risulta di atomi, essi ne inferiscono che l'atomo sarà dunque più piccolo della molecola. E, contenti di ciò, si sviluppano e diventano uomini, con questa fede serena.» Lei, stimato signore, ha acquisito questa fede, è cioè diventato adulto. La Sua lettura del mondo poggia su un reticolo, una griglia quantificata che si estende da ciò che potremmo definire «particola supposta attualmente infima» fino all'infinito. Lo sguardo della Sua ragione è cioè dotato di un sofisticatissimo autofocus come quello delle macchine fotografiche giapponesi, che Le permette di fissare rapidamente sulla lastra fotografica della Sua ragion critica le immagini infinitamente piccole e le immagini infinitamente grandi. È logico e naturale che nell'uso della Sua macchina Lei abbia delegato a me la funzione di esposimetro. Io sono uno scrittore, e, grazie a una nobilissima tradizione aristotelico-cartesiana che la nostra cultura Le ha consegnato, Lei concepisce la mia anima come dotata di una cellula fotoelettrica altamente sensibile che Le permetterà di regolare il Suo obiettivo, che Le indicherà l'intensità della luce e il tempo di scatto per le Sue fotografie. Insomma, io sono il suo termometro luminoso: attravérso di me Lei vuole vederci chiaro. Mi creda, stimato signore, non è questo un compito dal quale potrei allegramente esimermi. Lei non può immaginare con quanta cattiva coscienza e con quanti complessi di colpa uno scrittore debba lottare per rinunciare alle nobili, alte e lucide speranze che in lui vengono riposte. Le assicuro che per me non è difficile lottare contro le cattive intenzioni, che tengo in rabbia e disprezzo, ma contro le buone intenzioni che si amano e che si lusingano, perché esse danno un senso alle cose e a noi stessi, ci parlano di una macchina logica e di un telaio strutturato non più sul caso e sulla necessità, ma sulla ratio e sull'utilità. Sono utile, dunque sono. È assai difficile rinunciare a questo conforto. Avrei quasi il desiderio di piangere sulla Sua spalla se il· pudore non mi frenasse. Il pudore. Astratta e ipocrita categoria etica che volentieri usiamo, illudendoci di darci maggior decoro, al posto di un più scientifico imbàrazzante SuperEgo. Un SuperEgo che, ahimè, mi ero illuso avesse una scadenza come il latte della Centrale, e che . con mio rammarico mi accorgo essere stato conf~zionato a lunga conservazione, pastorizzato e reso non deteriorabile da una poderosa autoclave che è la cultura individuale e collettiva nella quale la mia anima è stata fatta bolli:r;e. Ah, poter almeno scadere come il latte! Coagularsi senza ritegno in grumi aciduli, incubare tranquillamente i propri lactobacilli spirituali e lasciarli aggregarsi in una poltiglia non commestibile! Via, SuperEgo, sei finalmente scaduto ..Ma .. quello resiste, imperterrito. E chiede i conti, vuole giustificazioni, la firma dei genitori o di chi ne fa le veci, ti ricorda che non sei ancora un maggiorenne con la fede serena, sei solo un bambino. Stimato Signore, Le avevo promesso un réportage sulla Vita. Le consegno questi brandelli, schegge alla deriva, frasi rubate qua e là, spezzoni da mace;.ro.È il senso del mio lavoro, quanto sono riuscito faticosamente a mettere insieme in questi anni. L1ho fatto con la formulazione narrativa, per una scelta obbligata. Mi sarebbe piaciuto il linguaggio della poesia, ma è un linguaggio che mi è vietato; e già il mio, che è più basso e quotidiano, lo uso male, con frequenti balbuzie, cercando goffamente di abbellirlo con aggettivi. Ho perfino riscoperto il «plot», come si dice·oggi. Ma le mie storie, purtroppo, sono piene di buchi. Vi si aggirano presenze sfuggenti, personaggi che non riescono ad essere veri personaggi ma solo immagini sbiadite, fisionomie umbratili, parvenze. Eppure, come li ho inseguiti i miei personaggi! Li ho generosamente ricevuti dentro di me, li ho trattati come ospiti d'onore, e loro si sono sempre rifiutati di mostrarsi a tutto tondo, di saturare il mio Io con una presenza massiccia e imprescindibile, lasciando ampie camere d'aria, zone di vuoto nelle quali i pistoni della coscienza non pompano con un attrito pieno e consapevole, ma avanzano sballando, tentennando, battendo in testa. Forse questi personaggi si sono adombrati per l'angusto spazio che ho loro. offerto. Volevano la villa sontuosa e agiata del romanzo, e io ho offerto loro un modesto condominio: il monolocale del racconto. Potrei giustificarmi pensando che oggi non è più il tempo di ville spaziose, ma sarebbe un'imperdonabile viltà. È la mia divisione dello spazio che non prevede ampi locali e lunghi corridoi: in essa si affastellano oggetti e persone, in una convivenza ibrida e senza stile. Se un giorno riuscissi a costruirmi una magione di campagna essà' sarebbe senz'altro fatta di materiali eterogenei, un collage di molte forme: sarebbe un romanzo composto anche di teatro e di racconti e di dialoghi e di prose varie. Insomma, un contenitore poco elegante e molto confuso, come mi sembra essere il mondo in cui vivo. Arrivato a queste conclusioni, me ne rendo conto, sarebbe una virile scelta e una sana coerenza smettere di scrivere. Ma forse in fondo si tratterebbe di una coerenza facilmente praticabile. Mi viene in mente la commedia di Pirandello nella quale la protagonista Ersilia, per dare prova della sua sincerità, salvata da un primo suicidio che aveva giustificato adducendo un motivo falso, ripete il suo gesto. «Se non l'avessi fatto, nessuno mi avrebbe più creduto», dice Ersilia. La menzogna che aveva seguito il primo suicidio poteva essere interpretata come mezzo per salvarsi. La sola cosa che la protagonista possa produrre per dimostrare che le cose non stavano affatto così consiste nel ripetere il gesto disperato. ·Così farò anch'io, stimato signor Quantum. Forse Lei troverà che siamo finiti in pieno dramma. Ma se ci pensa meglio potrà anche sembrarLe che siamo in pieno comico. E se lo desidera, rida, perché la categoria del comico mi sembra "UNA ONOREVOLEVIA DA PERCORRERE. Se non Le spiace, rideremo insieme. Invito a una pas.,eaiata Jean-Jacques Lebel I n questo momento si potrebbe dire che la società sta andando ._ indietro. O che non si muove, oppui:e retrocede, a zig zag, come una macchina impazzita. Per quanto riguarda i campi che interessano direttamente la Quinzaine Littéraire e Alfabeta, l'accettazione rassegnata dei termini «industrie culturali», diversi decenni dopo le analisi della scuola di Francoforte, conferma l'egemonia delle norme industriali e la finalità commerciale delle attività che noi, da parte nostra, esitiamo ormai a definire come culturali. C'è un ritorno massiccio- e non

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