Alfabeta - anno VIII - n. 84 - maggio 1986

ho detto). Ma pochi nei nostri anni hanno rinunciato a scrivere il proprio romanzo interiore e la letteratura è ingombrata di biografie nevrotiche, di autodistruzioni e di laboriosi assedi a castelli pseudofilosofici. Un anno fa Mengaldo, parlando del cosiddetto Gran Stile, ha ricordato come Hegel avesse veduto che ai tempi suoi era cresciuta una forma di lirica che poco o nulla aveva a che fare con il genere letterario ·così denominato da secoli; e che quella lirica, di cui tutti siamo gli epigoni, scritta in Europa sopratutto fra l'ultimo decennio del Sette e i primi quarant'anni dell'Ottocento, aveva come proprio unico tema il conflitto dell'io col mondo, irrimediabile e tragico, a differenza del romanzo dove il conflitto era fra individuo e società e si risolveva sempre nel compromesso. Non voglio ora discutere questo schema: ma certo si può dire che la storia delle scritture poetiche che ho attraversate o eseguite o meditate nel corso dei passati cinquant'anni comincia, anche se non finisce, come la storia dei tentativi di fuoruscita da quella figura, di cui Hegel parlò, quella che si-è assunta, o ha accettato, i diritti e doveri di un modo di essere e di vivere che era stato delle tradizioni religiose. Il cinquantennio in cui sono vissuto è la storia dei tentativi (nell'in- . sieme fallimentari), di uscire verso il passato, o verso l'avvenire, fuori di quella funzione sacerdotale. Ora identificando la poesia con la verità pratica (una parte dei surrealisti e una parte dei poeti militanti), ora sfigurandola con l'uso della ironia, della parodia, del sarcasmo, ora mediante l'abbandono puro e semplice a favore di altre forme, ora illudendosi di riavere una qualche legittimazione pubblica (e questo non solo nei paesi del socialismo reale ma anche qui fra noi e oggi) ora finalmente con la predicazione, il bricolage, il manierismo, il postmodernismo, il sogno d'una rinascita di generi scomparsi, le fughe nei neodialettismi. Mi pare di avere elencato presso a poco tutte le categorie e le scelte che hanno presieduto alle poetiche del cinquantennio e delle quali, in qualche misura, sento di aver partecipato. Spero si avverta come, se le cose stanno così, divengano ridicole le contrapposizioni che di quinquennio in quinquennio vengono inventate a beneficio degli esordienti o dei vecchi bisognosi di riciclaggio pubblico. Siamo, siamo stati o saremo tutti avanguardisti, conservatori, progressisti, retrogradi, innovatori e arcaisti; quanto all'ingegno, alle capacità tecniche e alla forza poetica è meglio distribuita di quanto si credesse, gli imbecilli sono un po' meno imbecilli di quanto potesse sembrare quando avevo venti o trent'anni e anche i geniali finiscono col sembrare un po' meno geniali. Credo, questo sì, che non si sia usciti da l'enorme improprietà storica compiuta dalla lirica con Holderlin, Leopardi, Wordsworth, Baudelaire e che qualsiasi testo di oggi continui ad assomigliare, come direzione e meta finale, piuttosto a questi poeti che non a quelli che l'Italia, ad esempio, ha conosciuti da Petrarca a Parini. Non c'è predicazione di edonismo che tenga. Non possiamo essere edonisti. Fino a quando non sia ricostituita e riconosciuta una società divisa in caste (una società preborghese) non potremo avere una poesia preborghese ma solo la sua nostalgia. Fin quando non saremo al di là del Capitale avremo più profezie e preghiere che poesie. So quel che mi dico. So che ho sollevato una pietra, cinquant'anni fa, che mi sta ricadendo addosso. L'ho sempre saputo, l'ho sempre fatto e, ben dentro ilmio secolo, ho scritto in quella imminenza. La vita in versi Giovanni Giudici [ 1 Non parlerò nè del libro che sto .seri- • e e vendo, nè dell'ultimo che ho pubblicato. Del libro che sto scrivendo è stato anticipato il primo capitolo sulla rivista Alfabeta, quasi due anni fa, col titolo Salutz, che rimarrà il titolo del libro. Invece il libro più remoto (quello appunto rispetto al quale secondo alcuni la mia poesia sarebbe rimasta immobile) si chiama La vita in versi ed è un libro che ha compiuto in questi ultimi mesi vent'anni. Ora, La vita in versi è ,.m libro che, a differenza di Salutz, non ho scritto volendo scrivere ùn «libro» di poesia. È un libro che è stato messo insieme, che si è fatto da solo e che magari è venuto fuori quasi per caso. Quando scrivevo le poesie di questo libro, che raccoglie versi scritti nello spazio più o meno quasi di un decennio, non pensavo affatto che sarebbero finiti in un libro e che questo libro si sarebbe chiamato La vita in versi. Per di più il libro comprende in ~~~"~~-·-= ~ " ~~~~~ . ':¾~--= ~-:,,.., • ... ----~- ~ Id., Il colosso di Rodi, incisione, 1572 parte poesie di un'epoca anche anteriore e poi di un'epoca mia non molto giovanile, perché io ricominciai un po' tardi a scrivete poesie dopo quelle dell'adolescenza: erano state poesie scritte in una fase di completa soggezione psicologica e culturale a una certa temperie del tempo, quella della cosiddetta generazione ermetica. C'era stata una certa cultura poetica vigente, e un giovane studente universitario, quale io ero, abitante in un quartiere periferico di questa stessa città di Roma, non poteva non rifarsi a certe poesie che venivano pubblicate e pensare: se queste poesie le hanno pubblicate vuol dire che valgono e allora, le poesie si dovrebbero scrivere così; ma se io non riesco a scrivere poesie così sarà meglio lasciar perdere. Da ragazzo avevo scritto poesie quasi per scherzo: dopo i sonetti per le compagne di classe di .cuimi innamoravo platonicamente, anche certe cose un pochino più impegnate, un po' satiriche, sestine, ottave, senza speranze nè velleità di pubblicazione. [... ] Poi avevo scritto in un modo, diciamo, più impegnato, avevo cercato altre vie, avevo ripreso a scrivere poesie che invece erano in una temperie di un'altra cultura, diciamo di un altro ismo, di un'altra koinè, che era quella cosiddetta neorealista. Però siccome il neorealismo aveva degli aspetti anche di tema, di argomento, di linguaggio un pochino truculenti; ho sempre avuto una certa soggezione, un certo distacco, non mi piace la truculenza e quindi cercavo di fare poesie di stampo neorealista ma non truculente, senza spargimento di sangue. Anche quelle però erano poesie soggette ad una certa koinè, ad una certa atmosfera culturale. Ad un certo punto sento parlare della poesia metafisica, era il grande momento di Eliot, l'epoca in cui Eliot era un poeta difficile e non si capiva quasi niente (invece poi abbiamo visto che Eliot è un poeta chiarissimo). [... ] E quindi feci delle poesie dove si puntava sulla parola metafisica: «Bella questa poesia metafisica, mi piace questa poesia metafisica...». E questi sono i modi per cui un giovane di media intelligenza, non dico un genio, resta un po' suggestionato. Tanto è vero che recentemente ad un convegno dantesco ho sentito dire da un illustre cattedratico: «Ah, questa cosa metafisica!» e io quando sento la parola «metafisica», a proposito della poesia, resto sempre un pochino perplesso, perché se c'è una cosa che invece d'essere metafisica è fisica è proprio la poesia, questa materializzazione della parola. Del resto i poeti che chiamano metafisici scino poeti, appunto, di estrema concretezza. Basta pensare a •John Donne. Io purtroppo ho fatto tante poesie, ho fatto parecchi versi tentandò queste immagini che erano immagini d'un linguaggio anch'esso «truculento» nel senso buono, nel senso che voleva abbindolare il lettore con la serietà, la seriosità, per meglio dire, dell'argomento e anche non tanto con l'oscurità del dettato (che sarebbe stato anche perdonabile) quanto con la falsa maestà del tema. In quegli anni avevo frequentato e mi onorava della sua amicizia un poeta come Camillo Sbarbaro, che mi diceva spesso: «Guarda, io non - ------... ,

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