Alfabeta - anno VIII - n. 84 - maggio 1986

Non stavo scrivendo un'autobiografia in cui dover raccontare tutto ciò che mi era accaduto. Per me una forma non è «lavorabile» se manca di movimenti interiori. Le descrizioni esteriori m'interessano solo se le percorre un movimento, una vibrazione che passa poi nella - scrittura. Fauchereau. Continuando questi discorsi, legati al tropismo, che sempre si ripetono a suo riguardo, penso adesso all'immagine di un film al rallentatore che lei stessa ha utilizzato per spiegare certe cose. Però, veramente, chi la legge non ha per niente l'impressione di un film al rallentatore. Non c'è allora una specie di controsenso, almeno a volte? Sarraute. È possibile. Io cerco di mostrare, sviluppandolo, quello che accade in noi in pochi secondi, Parlo più del mio lavoro che dell'effetto che esso produce nel lettore. Sono obbligata, quando lavoro, a guardare nello stesso modo in cui si guarda un filmal rallentatore, e a trovare immagini capaci di evocare le differenti fasi del moto nel momento in cui si sta sviluppando. Nella realtà tutto accade in pochi secondi. Prendo un esempio dal mio ultimo libro: dopo aver contemplato una bambola nella vetrina di un parrucchiere, dico a mia madre: «È più bella di te, trovo che sia più bella di te». Mia madre mi risponde: «Un bambino che ama sua madre non trova nessuno più bello di lei». Tutto succede in fretta: il tempo di dirlo. Ma io sono obbligata a dilatare questo momento per vedere come nasce e si sviluppa in me il disagio che questa risposta ha provocato. Sono obbli-. gata a scomporlo, come si scompone per esempio il movimento di un cavallo in un film al rallentatore. Nel mio lavoro cerco di rivivere le differenti fasi di tutti questi drammi. Ma ognuna di essa è evocata con frasi che, queste sì, dovrebbero essere rapide, fluide, effervescenti come i moti che si succedono molto rapidamente e che, anzi, si producono in noi anche contemporaneamente. Fauchereau. Ciò che volevo dire è che l'effetto al rallentatore è a livello del romanziere e non del lettore. Sarraute. Il lettore, spero, ha l'illusione, che non corrisponde alla realtà, di sentire distintamente, man mano che si rivelano, questi moti che nella cosiddetta vita «reale» prova globalmente. Bisogna fare sentire al lettore quello che è successo in pochi secondi. Sono costretta a rivedere il momento come al rallentatore a al microscopio, e a trovare immagini che diano l'equivalente di quelle sensazioni. Ma nella vita normale lo stesso momento sarebbe sembrato una cosa da poco, come se non fosse accaduto quasi nulla. Nella realtà i moti non si scompongono, non si ha il tempo di farlo. Ma, leggendomi, spero si abbia l'impressione che il dramma che sta per svolgersi, ciò che accade, sia reale. Nella vita «corrente», però, questo dramma non lo si vede. Non si ha il tempo di vederlo. Fauchereau. Non se ne è coscienti? Sarraute. Lo si sente in maniera vaga, globalmente. Ci vuole un lavoro enorme per riuscire a ritrovarlo. L'autrice non potendo venire al colloquio, ha concesso alla Quinzaine littéraire • di inviare questo suo scritto.che, rivisto da lei, corrisponde alla parte iniziale di un'intervista a cura di· Serge Fauchereau (pubblicata anche nella rivi-• sta Digraphe, numero speciale, marzo 1984). Non possiamopiù gridare Elio Pagliarani LJ invito a parlare di «un certo mio libro» mi è giunto particolarmente gradito perché mi coglie in un momento un po' particolare della mia ricerca. Infatti, mentre la maggior parte del mio lavoro può definirsi «poesia da recita», da recita ad alta voce, con ambizione al plein air, alla strada, alla piazza, i miei recentissimi Esercizi platonici vogliono essere appena sussurrati o forse soltanto letti con gli occhi, in solitudine. E così si può dire che, mentre mi so~ no misurato con l'affresco, e con la musica sinfonica, ora traccio disegni a matita, o note di zufolo. E continuo ovviamente nella sperimentazione, e spericolatamente, avendo dunque mutato qui di almeno 180gradi la prospettiva della mia ricerca. L'ho fatto soprattutto per non sentirmi prigioniero della mia maniera, del mio verso lungo (che veniva facendosi sempre più lungo: non senza significato, ovviadi alzare la voce, per le nostre pulsioni, che pure non possiamo, non dobbiamo reprimere - noi sfruttatori del Terzo mondo, noi nel privilegio sino al collo). Poesia come sussurro. Ma ciò che accomuna tutti i mondi, e coglie noi in prima linea, è il destino atomico (ricordate quei popoli che si giudicavano «persi per strada» perché non avevano • imboccato la strada della ruota?) e quelle conseguenze di siffatto destino che sono già maturate: la scienza, per primo capitale esempio, da fondamentale alleata dell'uomo e delle sue speranze e aspirazioni si è rivelata la nemica invicibile, mentre la natura perde sempre più senso, e a noi prometi.lono mutazioni genetiche come compenso. Per quanto possa essere stata usata come alibi anche di insulsaggini, non c'è dubbio che la dizione, la definizione di «post-moderno» è significativa del nostro tempo più di tante altre - mentre rifugge da ogni verbale apocalisse. Mi hanno sempre fatto schifo gli come, partendo dal pieno, raggiungere il vuoto? L'orrore della pagina bianca si presenta come orrore non del vuoto, ma dell'eccesso - eccesso delle parole, eccesso del soggetto, sovraffollameµto fantasmatico al di sotto della superficie ipocritamente vergine. Cosa fare, se non affidarsi a una successione di parole che cerchino di pulire la pagina detta bianca? Gesto di cancellazione, sempre da ricominciare. Scoprendo nella ripetizione alcune fonti di novità: per riflettere, per riflettere seriamente, cioè a dire a partire da zero, serve passare attraverso il corpo di fictions piccole-fictions minimali, visioni istantanee, esperienza dell'estraneo concentrata in uno spazio esiguo, e che lasciano il campo ... Occorre farsi aiutare dalla memoria più antica, infantile, quella che ha segnato fedelmente tutto ciò che è estraneo, quelle punte dell'esperienza che forano il tessuto del linguaggio e del tempo (che forano assieme, forano e annodano assieme linguaggio e tempo). .EPH.ES.I..E T.EMPLVX Id., Il tempio di Diana Efesia, incisione, 1572 mente; come sentendosi stringere, sentendosi stretto, dentro un tunnel, come paventando mancanza di spazio ... ); per recuperare una più ampia capacità di articolazione. Ma sospetto che ci sia anche una ragione meno personale, e meno occasionale. Il fatto è che mi sto convincendo sempre più intimamente che nel nostro mestiere non possiamo più parlare ad alta voce, non possiamo più gridare, a meno che non si tratti di maledizioni, di invettive, per il destino che ha imboccato il secolo, da Hiroshima alle stelle, alle guerre stellari che si computerizzano oggi. Ma ciò non deve significare, non significa, che siamo rid"ottial silenzio, o alla monomania dell'invettiva al destino atomico (che ho gri- , • dato più volte, e altre griderò); non· . siamo ridotti al silenzio, almeno sino a quando continueranno a nascerci e a crescerci dei figli. A noi allora, all'onestà, all'impegno del nostro lavoro, non resta che il sussurro. (Non possiamo pretendere apocalittici e il facile triviale successo delle loro geremiadi, ma lasciatemi lamentare come abbia avuto troppo poca risonanza, troppo pochi interlocutori, tra di noi e fuori di noi, il lavoro di grande intelligenza, di grande livello, di grande umiltà, che con saggi, interventi, interviste e scienziati e a generali, svolge ormai da anni Alberto Moravia- che, appunto, apocalittico non è e non lo è mai stato; e voglio infine mandare anche un saluto, come omaggio alla sua diuturna milizia di pacifista, a Carlo Cassola. E ai vescovi? Sì, certamente: ai vescovi pacifisti - oltre che ai giovani pacifisti, beninteso. Musicaamnesica Jacqueline Risset 1 - l problema iniziale - •l'enjeu dello scrivere ::-si presenta come problema di disingombro. Scrivendo Jeu (Jeu, Éditions du Seuil, collection «Tel quel>.>1,971): Ci si può far aiutare anche dai racconti della pittura muta, e dalle tracce depositate nella letteratura e nelle cronache dal passaggio della follia come vento, turbinio, amnesia ... (Holderlin, «Vostra Maestà Reale» ... ) Il libro (Sept passages de la vie d'une /emme, Flammarion, 1985) poggia su un'idea centrale: poesia come attraversamento, rapido, della fiction, suo emergere. Ma la fiction che si rivolge su se stessa, insieme critica e affascinata, che si coglie sul fatto, ride di sé, si oblia ... Il titolo, Sept passages de la vie d'une [emme, riprende il titolo di un racconto di Stefan Zweig, Vingt-quatre heures de la vie d'une . [emme, i"ipresa spostata, citazione che viene al· posto di ciò che do-· vrebbe essere l'«origine>>. Sono necessari tre elementi: ,_ la tabula rasa- ma che cos'è la tabula rasa nella fiction, nel poema? È appunto l'esigenza della tabula rasa che fa in quel momento rifiutare il nome di poema (oggetto finito, coagulato) o di poesia (fabbricazione, costruzione - fabbricazione di che, se non di oggetti che si prendono inevitabilmente per oggetti, per super-oggetti?) - l'assenza di metalinguaggio: né dominazione, né riferimento. Delle fictions, dei passaggi, delle traduzioni (La traduction commence, Christian Bourgois, 1978). Da quel momento ciò che si scrive può chiamarsi poesia, appartenere alla poesia, sé poesia è precisamente questo campo (il campo della traversata delle fictions) che parla in nome di una mobilità, non di un principio. Con lo stesso gesto, la metafora - processo di elevazione, legata alla poesia come canto del Bello immobile - si cancella - o tenta di cancellarsi, ma torna sempre ... - di fronte alla metonimia, agente di contaminazione, di distrazione, istanza dell'à coté, non omogenea, poco heimlich) poco quieta ... - l'energia di apertura: ciò che Lacan chiama l'«anticipo del significante» - per cui una frase interrotta prima della fine crea nondimeno e impone un senso («senso tanto più pressante in quanto tarda nel farsi aspettare»). La frase si apre con ciò che i linguisti chiamano «parole vuote» (Tesnière), «~lisseurs»o «shifters» (Jakobson). E, lì, prima del nome, che occorre scavare per sorprendere l'istante dell'energia dell'enunciazione, per afferrare ciò che vi si svolge, ciò che si posa qua e là, strano uccello, mai dove lo si aspetta, più spesso qua e là, che gioca a prendersi in trappola, che lancia da un angolo all'altro del cortile della scuola.le sue piccole frasi irritanti: «CHI PARLA?», «CHE VUOI?». Il primo verso - un poema può esser fatto tutto di «primi versi» - che sono «versi dati» nel senso di Valéry (formula sorta dalla memo- ~ ria, enigmatica, quasi «petite fic- . tio~>~in se stessa) .. Ma non è dato, quel verso, per :essere prolungato iQun tessuto di versi simili - «umani» - in cui integrarsi. Viene per essere mangiato - accarezzato divorato interrogato -

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