tura di massa alla discussione razionale, interrompere la tradizione critica nei suoi confronti? Dobbiamo d'ora in poi assumere un atteggiamento di indifferente complicità o addirittura di adesione entusiasta a certe forme della cultura di massa persino di fronte a quelle che rispo~dono chiaramente a un disegno manipolativo? Dobbiamo d'ora in poi non ribellarci di fronte alla nefasta influenza sui modelli di vita esercitata, ad esempio, dai telefilm e dalle telenovelas o dai martellanti servizi pubblicitari sui prodotti di consumo? La risposta, per quanto mi riguarda, non può che essere negativa. Al medesimo tempo, sono pienamente consapevole delle obizioni che essa può sollevare. Obiezioni certamente non nuove, poiché, tutto sommato, sono le stesse che, da sempre, vengono indirizzate a coloro che, in un modo o nell'altro, hanno avanzato critiche alla cultura di massa. La principale si richiama al fatto, assai ovvio, che, una cosa è accertare l'esistenza di un disegno di acculturamento nei mezzi di comunicazione di massa, un'altra è spiegare come e perché la stragrande maggioranza dei cittadini, in una società democratica, sia disposta a subire passivamente gli effetti più degenerativi di un tale disegno. Alfabeta. Se non abbiamo frainteso il suo punto di vista, lei al tempo stesso accetta e nega la critica tradizionale alla cultura di massa, può spiegarci il senso di questa contraddizione? Maldonado. Procediamo con ordine. Innanzitutto, io sono persuaso che la critica tradizionale, come lei la chiama, non può dare più di quello che già ha dato. Noi sappiamo ormai tutto (o quasi tutto) ciò che riguarda il ruolo dei mass-media nella produzione e nel controllo dell'immaginario individuale e collettivo. E di questo dobbiamo essere riconoscenti non solo ai già accennati protagonisti della critica tradizionale, bensì a quella schiera di studiosi che, come Merton, Shils, Lazarsfeld, Osgood, Cantril e molti altri, hanno sviluppato metodi di ricerca empirica per consentire una spiegazione oggettiva sul modo in cui la produzione e il controllo vengono effettivamente at- _tuatinella nostra società. E su questo fron.te non c'è, infatti, molto da aggiungere. Le ricerche attuali non sono altro che, diciamo, «variazioni sullo stesso tema», il che non esclude importanti arricchimenti o modulazioni inedite, soprattutto nei casi in cui l'innovazione tecnologica dei media pone nuovi quesiti interpretativi. Ma i nuovi quesiti interpretativi non scaturiscono soltanto dalle innovazioni tecnologiche. In questi ultimi trent'anni, ci sono state novità che vengono, in parte, a infirmare la dicotomia arte d'avanguardia-cultura di massa, che era la chiave di volta dell'analisi critica di Adorno. Alfabeta. Ci par di cogliere che lei ipotizzi una sorta di riconciliazione tra arte d'avanguardia e cultura di massa. Maldonado. Non saprei dirlo, ma una cosa almeno è certa: arte d'avanguardia e cultura di massa non vanno più viste come compartimenti stagni. E ciò perché la cultura di massa non simanifesta soltanto tramite modali_tàespressive altamente stereotipate, ma anche, seppure con minore frequenza, ricorrendo a modalità che, direttamente o indirettamente, risalgono al repertorio di stilemi dell'arte d'avanguardia. Infatti, in alcune manifestazioni della cultura di massa, soprattutto nei film di fantascienza, nei musical e nei video, ,i ritrovano spesso accorgimenti scenografici ed «effetti speciali» la cui matrice figurativa è facilmente individuabile in alcune tendenze dell'avanguardia storica. Ad ,esempio, nell'espressionismo, nel futurismo, nel costruttivismo, nel surrealismo. È incontestabile che nella produzione filmica televisiva, senza escludere quella pubblicitaria, si percepisce oggi sovente )jnfluenza, consapevole o meno, della tradizione dei film sperimentali degli anni venti. Qua e là, infatti, si scoprono inquadrature che ricordano Fritz Lang, Ejzenstejn, René Claire Pudovkin, e certe sigle che richiamano alla memoria i «film astratti» di Eggeling, Richter e Ruttmann. Peraltro i sofisticati «effetti speciali» degli attuali film «fantascientifici», va ricordato, hanno un precursore nella scenografia di Moholy-Nagy per Thing to come del 1936, così come i costumi che vestono i personaggi terrestri o extraterrestri hanno una sconcertante somiglianza con quelli disegnati da Schlemmer per il suo Balletto triadico del 1924-26. Alfabeta. La sua osservazione sembra convincente, ma lei non crede che l'assimilazione degli stilemi dell'avanguardia da parte dell'industria culturale sia stata una indebita appropriazione che ha solo contribuito a banalizzare quegli stessi stilemi? Maldonado. Negli ultimi tempi, sono molto riluttante a credere che una tale valutazione, da me pienamente condivisa nel passatb, trovi oggi riscontro nella realtà. Le cose sono ora più complesse. Non è sbagliato dire che gli stilemi dell'avanguardia vengono appiattiti, e addirittura resi innocui, da parte dei mass-media. Ma allo stesso tempo va riconosciuto che talvolta, e sempre più spesso, i mass-media sono in grado di produrre, con l'aiuto di imponenti e raffinati mezzi tecnici, immagini che le avanguardie storiche non avevano neppure sognato o che si erano soltanto limitate ad azzardare come ipotesi provocatoria. D'altra parte, la cultura di massa ha momenti di una autonoma, propria creatività che sarebbe poco realistico negare. Si tratta, ben lo sappiamo, di una creatività che sovente risulta, alla fin fine, ridimensionata dalle esigenze dell'industria culturale. Lo si vede chiaramente nel settore discografico, in cui di solito le pretese di creatività vengono soffocate o annacquate. Ossia, si accetta la creatività purché non sia fattore di rottura «eccessiva» nei confronti dei valori vigenti. Nei mass-media, come è stato una volta rilevato, tutto è possibile, ma non tutto è probabile. Senza voler relativizzare la gravità di questa diagnosi, va ammesso però che l'industria culturale non è più monolitica come una volta. Se è vero che mai prima d'ora l'industria culturale ha avuto una influenza così insidiosa e con effetti tanto devastanti, è altrettanto vero che mai prima d'ora essa ha dovuto scendere a patti con le forze innovatrici che cercano di intaccare la sua egemonia. È un fatto, mi pare, che l'industria culturale è costretta oggi, e sempre più, a tener conto delle sollecitazioni di cambiamento che scaturiscono dalla dinamica sociale. Alfabeta. Questo significa che i mass-media sono un'area da cui ci si può aspettareancora uno sviluppo innovativo? • Maldonado. Con tutte le cautele del caso, sono incline a dare una risposta positiva. Certo, non sarà facile, ma mi sembra comunque un dato acquisito che lo scontro tra conservazione e innovazione si darà all'interno dell'industria culturale, e non fuori di essa. Alfabeta. Anche se le sue valuta- . zioni sono in gran parte condivisibili, una delle obiezioni che le si possono rivolgere è quella di un eccessivo ottimismo, talvolta, mi consenta, vicino al candore. Maldonado. È vero. Il candore in un uomo della mia generazione, in un uomo, come canta Moustaki, di un «certain age, pour pas dire d'un age certain», può risultare per qualcuno commovente. Per me, è solo motivo di preoccupazione. Ma comunque, è.una scelta di vita. Il balcone del «Grand Hotel sull~Abisso» di cui parlava Lutéacs1non è mai stato il mio balcone preferito'. Non soffro di vertigini, ma lo sguardo nelle profondità senza fondo mi lascia indifferente. Nato in una città ai confini della pampa e affacciata sul fiume più largo del mondo, amo gli orizzonti vasti e promettenti, anche se, forse, ingannevoli. L'infinitodiMallarmé S téphane Mallarmé pubblicò Un coup de dés n'abolira jamais le hasard nel 1897, sulla rivista Cosmopolis, segnando così una data fondamentale per la poesia moderna (a distanza di quarant'anni dal 1857, anno di pubblicazione di Les Fleurs du Mal di Baudelaire) solo pochi mesi prima di morire per una violentissima contrazione dell'epiglottide che lo soffocò (aveva cinquantasei anni). Queste circostanze suggeriscono subito l'ipotesi di un testamento estremo, di un confine oltre il quale la parola si autocancella nell'impossibilità di farsi «assoluto». In quel punto, in quell'istante prevale il silenzio che l'ha preceduta e che non ha mai rinunciato all'idea di ingoiarsela. Ma non è questo lo scopo della presente ricognizione; occorre comunque rifuggire da questo tipo di suggestioni se si cerca di capire davvero, e nel concreto dell'opera, la lezione suprema del punto di arrivo di una stagione altissima e forse irraggiungibile. Diamo dunque la parola all'autore che scrisse un'introduzione al suo Coup de dés. Ci si renderà conto immediatamente di quanto sia inerente al tema qui affrontato, i rapporti tra spazio grafico e poesia. Ecco: «I "bianchi", in effetti, assumono la loro importanza, colpiscono subito; la versificazione li esigeva, come silenzio circostante, come fatto ordinario, al punto in cui un brano, lirico o di pochi piedi,. occupa, in mezzo, un terzo circa del foglio: non trasgredisco a questamisura, soltanto la disperdo. La carta interviene tutte le volte che un'immagine, di per se stessa, finisce o rientra, accettando la successione d'altre e, siccome non si tratta, così come sempre, di tratti sonori regolari o versi, piuttosto, di suddivisioni prismatiche dell'Idea, l'istante che compaiono e che dura il loro concorso, dentro qualche messa in scena spirituale esatta, è a dei posti variabili, vicino o lontano dal filo conduttore latente, in ragione della verosimiglianza, che •••• s'impone il testo. Il vantaggio, se mi è concesso dirlo, letterario, di questa distanza copiata che mentalmente separa dei gruppi di parole o le parole fra loro, è come se accelerasse d'un tratto il movimento e lo rallentasse, scandendolo, e addirittura intimandolo secondo una visione simultanea della Pagina: questa stessa, presa, per unità, com'è altrove il Verso o linea perAntonio Porta fetta» (La traduzione è di Paolo Marinotti; n.d.r.). Come ha fatto osservare Vincenzo Accame, Un coup de dés era (e rimane) opera così complessa e sconvolgente che i suoi primi interpreti, Valéry e Gide, andarono poco oltre la constatazione di trovarsi di fronte a uno spartito musicale più che a una poema, e dovettero arrivare agli anni Cinquanta di questo secolo perché lo sviluppo implicito del lavoro di Mallarmé fosse portato a termine, con il contributo decisivo della poesia «concreta» (grafica, appunto) fino agli ultimi sviluppi della poesia «visiva», tesa piuttosto all'annullamento della semantica della parola per trasformarsi, in puro segno (grafico-pittorico). Confesso che preferisco ripartire da quella prima interpretazione, quella dello «spartito musicale», perché la trasformazione della parola in segno mi pare solo uno dei possibili esiti, e forse il più paradossale, della ricerca di Mallarmé sul significante. Non credo, in altri termini, che una poesia con fortissima accentuazione «linguistica» debba per forza di cose, o coerenza interna, condurre a quel silenzio che la parola invece istituzionalmente sfida e ha sfidato con la massima consapevolezza in Mallarmé, proprio nel tentativo di non rimanerne imprigionati. P ossiamo allora dire, con una certa tranquillità, che la definizione di «spartito musicale» ci rinvia a qualcosa d'altro e di molto diverso dalla poesia «visiva» sostanzialmente grafico-mimetica di un Apollinaire (basti il confronto con una pesia come «Il pleut») e diversissimo anche dalla «simultaneità» di F.T. Marinetti, di matrice onomatopeico-naturalistica, che rimane «descrittiva» (come dimostra «La battaglia di Adrianopoli», una volta per tutte). I lettori più attenti avranno rilevato che nella sua introduzione Mallarmé sottolinea l'idea di misura, dicendo che intende non trasgredirla, quella della sua precedente poesia, ma disperderla. Per quale motivo e spinto da quale convinzione, mi par lecito e indispensabile chiedersi, egli si è azzardato in una direzione tanto apertamente contraddittoria? E che cosa, allora, fa sì che una misura dispersa rimanga comunque una misura? Rileggendo per l'ennesima volta il poema sempre meglio si mettono in evidenza due passaggi fondamentali, carichi di luce, due riflettori, se mi è lecito metaforizzare fino a questo punto; i due passaggi sono: «UN COUP DE DÉS/JAMAIS / Quand bien meme lancé dans des circostances I éternelles I du fond d'un naufrage», e il secondo: «l'id-. térieur démon immémorial / ayant / de contrées nulles / induit / le veillard vers cette conjonction supreme avec la probabilité». Un attimo di pausa per tirare il fiato e notiamo che se «il caso non sarà mai abolito» neppure il senso lo può essere, quando è colto nell'istante del suo formarsi. È a partire di qui che gli sviluppi del senso diventano infiniti, l'esatto contrario della sua abolizione. Le parole chiave sono dunque naufrage e probabilité, che vanno, come è necessario, interpretate con-
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