Marta Alessandri CarloBeccatti FredBonci Del Bene Massimo Dolcini CarloPiazzesi RiccardoSebastianelli Arianna Tangucci Fuorischema srl Comunicazionegrafica 61100Pesaro/vialeVerdi,51 T. 0721/68462 misura in cui sono in grado, appunto, di generare progetti e programmi di ricerca finalizzati a progetti. È così che si spiega la forte progettualità dell'attuale momento storico. Alfabeta. Mi sembra di capire che la sua idea di progetto si riferisca soprattutto a un mondo di oggetti altamente tecnificati. Qual è il suo giudizio sull'attuale progettualità, orien(ata verso tendenze più soft? Lei si dichiara diffidente nei confronti di tutti i post, ma, per intenderci, qual è la sua posizione riguardo al post-moderno nel campo dell'architettura e del disegno industriale? Maldonado. Nell'area della progettualità che lei ha chiamato «soft» mi dichiaro un genuino pluralista. L'esperienza insegna che, quando ci si avvicina al mondo in cui i valori estetici hanno un ruolo determinante (e quello che lei ha chiamato soft appartiene a questo campo), si deve procedere con grande cautela. A mio avviso, deve essere definitivamente superata l'impostazione, cara alle avanguardie storiche, che, seguendo le tracce della tradizione romantica tedesca, cercavano di imporre l'egemonia dei propri paradigmi culturali, discriminando tutti quelli che non erano i propri. Alfabeta. Nella cosiddetta area soft sono state avanzate anche proposte che si possono definire assurde. Lei crede che, in nome del pluralismo, queste proposte debbano essere sempre e comunque accettate? Maldonado. Sì, anche quelle che noi, dal nostro punto di vista, valutiamo assurde. In quest'area, e solo in quest'area, dobbiamo assicurare la massima libertà di proposte, senza escludere quelle, per così dire, improponibili. A ben guardare, se qualcuno vuole oggi progettare una sedia neo-babilonica, neo-rococò, neo-art déco, neo-neoclassica, neo-neogotica, neo-liberty, neo-kitsch, neo-futurista - e Gadda aggiungerebbe di sicuro molti altri «neo» - e trova qualche industriale disposto a produrla e qualche cliente disposto ad acquistarla, non vedo oggettivamente la ragione per la quale si debba emettere un giudizio contrario o favorevole. Dopotutto, nel caso specifico, la finalità è tanto ridotta quanto lo è il suo raggio di influenza. Devo tuttavia essere sincero: quando le proposte sono, invece, più ambiziose o di più ampio raggio d'influenza, un atteggiamento di neutrale distacco non è, per me, più sostenibile. Vi è, di fatto, una soglia critica del relativismo-lo ha dimostrato Hillary Putman - oltre il quale si è costretti a «prendere partito». Alfabeta. Nel dibattito architettonico attuale, il cosiddetto post-moderno viene spesso identificato con l'«architettura disegnata», con una architettura intesa prevalentemente come attività figurativa. Anche su questo la sua posizione rimane, come dice lei, pluralista? Maldonado. L'architettura disegnata che oggi circola nelle gallerie d'arte o sui settimanali e sulle riviste di architettura più o meno specializzate è una questione più delicata. Naturalmente ci sono opere di architettura disegnata che, a mio parere, hanno un valore artistico a sé stante, anche se di solito alla loro qualità poco o nulla contribuisce lo specifico referente architettonico. E questo non deve stupire. In fin dei conti, la distanza tra il tecnigrafo e il cavalletto è stata sempre breve. Non di rado, infatti, gli architetti, durante le loro elaborazioni progettuali, hanno invaso il campo della pittura . .In taluni casi, come in Piranesi, Ledoux, Schinkel, Wright, Leonidov, Bruno Taut e Le Corbusier, le esercitazioni sono diventate persino totalmente autonome. Tuttavia, va anche detto, ci sono opere di architettura disegnata prive di ogni interesse, ma dalle quali ci si aspetta invece un riconoscimento «artistico» soltanto in virtù del referente architettonico scelto. Opere scadenti, caricature astiose di una architettura di rivisitazioni e citazioni più o meno apocrife. Ma, a parte queste distinzioni tra una architettura disegnata di qualità, e pertanto culturalmente legittima, e un'altra che è solo la sua versione mistificata, un suo sottoprodotto «market-oriented», rimane il problema che pone oggi, non ieri o l'altro ieri, l'architettura disegnata. Talvolta, forse sbaglio, mi sembra che l'architettura disegnata favoleggi attualmente una architettura che si afferma negandosi a se stessa, che acquista realtà proclamandosi finzione, e soltanto finzione. Una «architettura come menzogna», si potrebbe dire parafrasando Manganelli. E l'idea, va ammesso, ha qualcosa di accattivante, soprattutto se viene sorrè'tta da una forma di ironia nei confronti di un possibile costruire che si sa impossibile, oppure di un impossibile costruire che si vuole possibile. Ma l'idea invece è perversa se l'intenzione è, per così dire, «seria», se si vuole, ad esempio, far credere che questi squisiti simulacri figurativi intorno al referente architettura possano avere qualche significato programmatico per l'architettura vera e propria. Alfabeta. Vorrei chiederle, lei colloca Aldo Rossi tra i primi o i secondi esponenti dell'architettura disegnata? Maldonado. Sicuramente tra i primi. A mio parere, gli elaborati grafici di Aldo Rossi hanno una qualità estetica molto suggestiva. Talvolta forse ricordano (troppo) le cabine da spiaggia di Carrà o alcune «vedute» di Sironi e di De Chirico. Questo però è un giudizio personale e, come tale, relativo. Non sono un critico d'arte. Altra cosa è un certo manierismo figurativo che oggi dilaga per il mondo e che si richiama al suo nome. Alludo, ad ese.mpio, a quel maniacale e tedioso ricorso allo stilema del lucernario a due falde, a cuspide, che funge oggi da lasciapassare per essere considerati, a pieno titolo, membri della «post-modem brotherhood». Credo tuttavìa che sarebbe ingeneroso attribuirne la responsabilità a Rossi stesso, la cui rilevanza come protagonista dell'attuale dibattito sull'architettura è fuori discussione. Alfabeta. Lei ci sorprende, ci saremmo aspettati una posizione più critica nei confronti di Rossi, che è una delle figure più rappresentative dell'orientamento culturale di cui lei, di sicuro, non condivide i presupposti. Maldonado. Mi dispiace deluderla, ma io credo fermamente che la prima condizione per rendere possibile un dibattito culturale è accettare la qualità di coloro che non la· pensano come noi. II manicheismo porta al monologo selvaggio, all'arroganza dei predicatori. Alfabeta. Parafrasando Manganelli, lei ha parlato di «architettura come menzogna». Manganelli, però, finisce per ammettere che la letteratura, pur con tutte le sue ambiguità, è a suo modo veritiera. Si può fare un discorso analogo per l'architettura? Maldonado. È difficile per me immaginare che l'architettura costruita possa prescindere dal fatto di non essere un ectoplasma, ma una realtà edificata, pertanto fabbricata, pertanto fortemente materiale, una realtà nella quale, tra l'altro, si deve poter abitare e, se possibile, abitare in modo soddisfacente. È una constatazione; lo so, triviale, ma che mi sembrerebbe insensato trascurare. Né la narratologia né il decostruzionismo di stampo parigino ci possono essere qui di aiuto. Si può, ad esempio, decostruire una costruzione letteraria, e anche una architettura disegnata, ma per decostruire una costruzione edilizia non basta Derrida. In questo caso, c'è bisogno di attrezzi più consistenti. Sto scherzando, ma non troppo. L'architettura costruita è per definizione veritiera, e respinge l'ambiguità. Non escludo che si possa ovviamente «costruire», come hanno fatto qualche anno fa gli autori della «Strada novissima» della Biennale, con materiali più o meno effimeri. Ma il risultato ottenuto, come si ricorderà, era troppo simile ai villaggi di cartapesta che il principe Potemkin fece erigere in Crimea nel Settecento. E, per la sua precarietà, troppo simile anche a quell'inospitale palazzo «tutto in ghiaccio», mobili e suppellettili inclusi, che, secondo Mario Praz, l'imperatrice Anna Ivanovna fece costruire a Pietroburgo, sempre nel Settecento, e che si sciolse nel giro di tre mesi. Un paragone che gli autori non considereranno necessariamente offensivo. Anzi, è molto probabile che ne siano lusingati. Dopo tutto, se la tanto pubblicizzata «performance» veneziana non avrà un luogo assicurato nella storia dell'architettura, ne avrà certamente uno assicurato nella storia - questa volta senza metafora - dell'architettura come menzogna. Nel «lunare territorio dopo la deflagrazione delle grandi illusioni», per dirla con l'amico Tafuri, imprese «progettuali» di questo genere non sono altro che il tentativo di recuperare almeno una grande illusione: quella, appunto, dell'architettura come illusione. Ma è un tentativo, a mio giudizio, poco riuscito. Perché, se lo scopo era effettivamente quello ipotizzato, ossia quello dell'architettura come narrazione provocatoria nei confronti dell'architettura stessa, in tal caso io preferirei il «Merzbau» del dadaista Schwitters, molto più conseguente, ingegnoso e coraggioso. Alfabeta. Fino a questo punto lei ha fatto un riferimento solo incidentale alla progettazione di oggetti, tematica della quale lei è stato protagonista di primo piano, soprattutto per quel che riguarda l'approfondimento teorico é storico. Qual è il suo pensiero attuale sul disegno industriale? Maldonado. Ovviamente la mia posizione attuale su questa tematica non è la stessa di trent'anni fa, quando, in Germania, davo il mio contributo a quella che, in seguito, si sarebbe chiamata la concezione «ulmiana» del disegno industriale. I tempi infatti sono cambiati e sarebbe sciocco da parte mia non riconoscerlo. Tuttavia, va detto che certi mutamenti oggi dovunque verificabili confermano alcune delle intuizioni da noi avute in quegli anni. Intuizioni sullo svituppo, non tanto del disegno industriale come disciplina (e meno ancora come professione), ma piuttosto sulle prospettive di mutamento del parco degli oggetti nella società industriale. E per parco degli oggetti non intendo qui solamente il mobilio e le attrezzature di uso domestico, bensì la totalità degli artefatti che costituiscono la cultura materiale contemporanea. Alludo alle macchine di ogni genere, partecipi tanto dei processi comunicativo-informativi, quanto di quelli produttivi. In tutti gli individui tecnici, senza eccezione, si constata oggi la tendenza a una progressiva atrofia degli organi di comando e a una progressiva ipertrofia degli organi di informazione. L'esempio più clamoroso lo troviamo nell'area delle macchine utensili. Ma non solo. È una novità che, come è ovvio, ha importanti implicazioni nel campo specifico del disegno industriale. Non c'è dubbio che l'attività di progettare oggetti finalizzati alla produzione sta oggi diventando sempre più progettare oggetti finalizzati alla comunicazione. In realtà, progettazione, comunicazione e produzione si configurano come un unièo processo. È lo sviluppo intravisto lucidamente da Miche! Serres: I' «ars producendi» e l'«ars inveniendi» dipendono entrambe dalla «ars comunicandi». Alfabeta. Lei accennava all'inizio all'invadenza dei mass-media. Voleva forse riportare l'attenzione sulla critica alla cultura di massa, che, dopo essere stata uno dei cavalli di battaglia dei franco/ortesi, è oggi molto in sordina? Maldonado. A mio parere ci siamo sbarazzati troppo presto di alcuni contributi di analisi critica dei francofortesi relativi a questo argomento. Non c'è dubbio~he la tematica della cultura di massa ha raggiunto oggi una complessità molto maggiore di quella dei tempi in cui, prima i «liberals» statunitensi Dwight Macdonald e Clement Greenberg e poi i francofortesi (soprattutto Adorno), avevano avanzato le loro critiche. Vi è chi scorge in· tale complessità una prova inconfutabile che le critiche, tutte le critiche, sono oggi superflue, poiché gli strumenti della critica - le armi, si diceva una volta- sarebbero ormai inutilizzabili, per nulla adatti ad affrontare una realtà contraddittoria, mutevole, evasiva, come l'attuale cultura di massa. Un giudizio, a mio parere, troppo drastico. E anche fuorviante, in quanto molto spesso esso porta alla rassegnazione o, peggio ancora, alla celebrazione acritica di tutti i prodotti di quella cultura. Anche ammettendo la complessità sopraccennata, viene da chiedersi: dobbiamo d'ora in poi sottrarre la cui-
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