cosmo regolato perfettamente, quale poteva essere lo spazio per la libertà umana? Questo dubbio cosmogonico sulla contraddizione tra la caducità e la sofferenza umana in un sistema perfetto è adombrato anche da Platone nel Timeo, e la figura di Platone che qui compare come nel Mulino di Amleto assume un'importanza capitale in quest'opera: è l'ultimo degli antichi e il primo dei moderni, immerso nella cultura mitica ma anche nel pensiero speculativo, nella cosmogonia ma insieme. nel dolore dell'uomo moderno, per cui le stelle non sono più riferimenti certi, manifestazioni di un disegno perfetto. La ragione della contraddizione, che per l'uomo moderno sradicato da un rapporto naturale con il cosmo diviene angoscia, fu un errore cosmico, una sghembatura dello Franco Fortini Paesaggio con serpente Torino, Einaudi, 1984 pp. 111, lire 15.000 Franco Fortini Il ladro di ciliege Torino, Einaudi, 1982 pp. 205, lire 15.000 U no sguardo al titolo, all'epigrafe e al dipinto della copertina, che ripropongono per intero la gamma delle intenzionalità di Fortini: il titolo, ripreso da una tela di Poussin, ricopre la veste retorica della firma, riproponendo l'asprezza di una interminabile contesa fra la speranza di una riconciliazione-consolazione nell'idillio della natura e la perfida «verità» del demone storico; in aggiunta, i versi dell'Ecloga virgiliana, cantando rumpitur anguis, che introducono il testo, misurandone un vettore principale di lettura, accennano al «poema» come possibile superamento del male. Sembrerebbe che, sul piano tematico e della visione sinottica, nulla sia cambiato, se non per minimi spostamenti quantitativi: il messaggio ultimo punta sempre sul rovesciamento, circolare e interagente, di rassegnazione e utopia. Difatti, ad uscita di libro, intervistato da Nascimbeni, Fortini ha confessato« ... che i giochi sono fatti. Non ci sono stati i grandi spostamenti storici che si erano intravveduti» (nel Corriere della Sera, 31 marzo '84); ma la sicurezza subisce una positiva incrinatura riflessiva (non irrazionale) nella coda della stessa intervista (che, per posizione strutturale riepilogante, ha maggiore spessore di senso delle altre), nella sorpresa che «le masse non ci sono, ma l'avvenire sì». L'atteggiamento odierno di Fortini, fuori e dentro la poesia, è quello di chi deve mettere fra sé e le cose «il pathos della distanza». La distanza è la posizione di chi guarda i paesaggi, del passato e della memoria, di chi staziona fra sentimento dell'esistere e vocazione metafisica, il luogo di una mediazione che s'infutura, di un'attenzione spasmodica. Difatti risult---- ~ ta alta la frequenza di una descritti- .i.::: vità minutissima del quotidiano, da ~ ~ iperrealismo barocco, con nomenclature ossessive di oggetti e animali. Il codice extratestuale, storico-artistico, cui Fortini si rifà, è quello del barocco di Poussin e di Milton. Lo spostamento dal classicismo (che resta però una delle componenti forti) porta il segnale ~ di un cambio più consono all'irta l cortina di aghi, di guglie violente ~ dei nostri anni, quasi che fosse rizodiaco che diede origine al movimento del sole, alle stagioni, altriste divenire. «Solo in due giorni dell'anno, agli equinozi, il sole si ritrova sull'equatore, e il mondo torna come allora, ricongiunge tempo ed eternità. Ricordiamo che Dante inizia il suo viaggio ultraterreno nell'equinozio». li pessimismo classico deriva dai reperti di questo pensiero antico, in un mondo governato da astri cui nemmeno gli dei possono reagire. Nasce così l'eroe, colui che sfida l'implacabilità del fato; si configura il personaggio che meglio incarna l'eroismo moderno: Amleto. S u questo personaggio si chiude il ricordo del mondo antico, nel primo libro: «The time is out of joint. Il fato è segnato», e inizia appunto il secondo libro, Il tornato (oche non fosse mai scomparso) il tempo della difensiva e agguerrita struttura della poesia delle rose. Cedendo finalmente all'altro suo polo di fare poesia, Fortini gioca in angoli strettissimi e scorciati, con un lessico aspro e una sintassi «difficile», ipersegnata da una aggettivazione in costante aumento, in cui la parola si fa materia piagata e fermentante, corpo allucinato, dove si compenetrano cristianesimo e cabalistica, sangue medievale e purulenze postcapitalistiche. Basterebbe, per certificare un tale campo di tensioni, notare l'uso massiccio della pratica della citazione, un ri-uso «barbaro» della categoria «letteratura», in funzione disgregante e liberatoria, svelante la fertile doppiezza e ambiguità della scrittura, la sua disponibilità al movimento e alla trasgressione. Il Seicento, lungi dal divenire protagonista assoluto (come nella vecchia tesi di Russo per il Manzoni), è però in grado, in quanto momento di evidente falsità, di scoperchiare la sicurezza dell'idillio, di rendere allegoricamente la nostra fine-secolo. Comunque sia, la volontà di Fortini resta quella di rapportarsi alla storia (in perpetuo cambiamento, ma ricostruibile e riconducibile a dei centri) ed esigere che i significanti si cambino subito in significati, dichiarando che esiste una volontà, dietro il paesaggio (vs.lo ctonio sprofondare di Zanzotto, suo vero gemello speculare) di cambiamento. È per questo che, nei toni della profezia politica e sacrale, lo scontro tra i due tempi della Natura e della Storia non può essere evitato: malgrado i pensatori «deboli», l'inattuale Fortini non rinuncia al bisogno di un destino e di una verità (che non si tratti di una strategia affabulatoria lo dimostra il fatto che la domanda viene posta tramite la fictio della letteratura). Di nuovo il paesaggio è il posto, il teatro dove accade simbolicamente tutto. Proprio la macchinosità barocca garantisce il massimo di autenticità nel massimo della rimozione, essendosi Fortini sempre rifiutato di riconoscere che esiste ed opera anche in lui un fondo da preservare; così avviene che l'incontaminato rimane tale solo se penetrato dall'offesa e la poesia agisce solo per viam negationis, stracciata e sconosciuta nei paramenti. P aesaggio con serpente è diviso in due parti assai diverse tra di loro, ma addirittura tutte le serie rispondono al prevalere di una maniera ( citiamo da Mengaldo, in L'indice, marzo '85), mulino di Amleto ( che giustamente in Italia è uscito per primo, essendo il caposaldo, quello su cui il discorso si fonda più radicalmente). «Abbiamo in Amleto - scrive l'autore nell'introduzione- un personaggio presente nel fondo della nostra consapevolezza, le cui ambiguità e incertezze, la cui tormentata introspezione e spassionata penetrazione intellettuale presagiscono lo spirito moderno ... Il suo dramma è stato di dover essere un eroe cercando al tempo stesso di sottrarsi al ruolo assegnatogli dal Destino». Ma ben presto, anzi subito, l'autore ci richiama alle ascendenze di questo personaggio, che risalendo indietro nel tempo si presenta con le sue caratteristiche e si rivela alla fine l'originaJjo signore della vagheggiata prima età del mondo. Eppure in tutti gli asintomo di un percorso accidentato e dominato da una dichiarata e politica esigenza transcodificale: a mio modo di vedere, così assumono pregnanza di senso la ripresa di forme in disuso e del passato (il sonetto, il rifacimento) e l'indiretto «presente» delle ultime pagine. A proposito del rifacimento, Fortini già in Saggi Italiani (Traduzione e rifacimento, 1972) aveva riconosciuto la necessità di questo genere, perché, più di altri, esso lavora nell'ambito della politica del linguaggio, demistificando e parodiando la letteratura, salvando i «volghi dispersi» a dispetto della superlingua dell'Arte, predisponendo una ipotesi sui destinatari. Analogamente alla scelta di una traduzione parodica, il rifacimento redistribuisce il sapere letterario, infiltrandosi nelle fasce sociali basse, cui fornisce gli strumenti atti alla decodificazione. Tutto ciò poggia sulla richiesta di una democratizzazione e si rivolge alle generazioni future. In altri scritti (contenuti in Questioni di frontiera) Fortini mostra le due facce della traduzione, una per capire, l'altra per cambiare, e la novità del rifacimento, che costringe ai passaggi di codice e alle deviazioni dai modelli. Anche nella resa del Lycidas (la cui ombra incombe, con la perentorietà del paradigma, sul libro), quello che conta (come in Poussin) è «... la ricchezza di simultanee situazioni contraddittorie, la capacità di dire e disdire, di scoscendere dal mellifluo all'ira e allo sprezzo e di farsi, a tratti, come uno spasmo che si avvita su se stesso» (in Il ladro di ciliege, Einaudi, Torino, 1982, p. IX). Lo spasmo che si avvita coincide con la figura della spirale, costitutiva della poetica barocca. Nella prima metà, Il vero che è passato, spicca una pacata ricostruzione della memoria personale e generale, l'ironia contro il progetto borghese e «autonomo» della poesia montaliana, il mancato riscatto di un grande evento escatologico che sovverta il tempo, l'acquiescenza e l'insufficienza della Natura rispetto alla Storia (filone che riprende il discorso di Traducendo Brecht). In tale grigiore generale, emergono, more solito nel prometeico Fortini, figure altrimenti memorabili, quali Panzieri e soprattutto Lukacs: il mito e l'aura di questo eroe ( e tale è la sua funzione nella biografia del poeta, tanto da rappresentare sia il fantasma paterno che l'archetipo di un Sigfrido moderno) risalta proprio dalla contiguità spenta e smarrita del suo sigaro e degli occhi, fra libri decrepiti e spetti è rimasto lo stesso, anche l'Amlodi originale della leggenda di Snorri brilla per l'intelletto ed è malinconico, è votato alla vendetta del padre, enuncia verità' lancinanti. De Santillana percorre il cammino a ritroso nel tempo y ritroviamo la vita e la natura e gli avvenimenti di Amleto, oltre che nel personaggio omonimo di Snorri, nel Kullervo del poema ugrofinnico, in Kay Khusraw in Persia, nel Libro dei Re di Firdusi, e ancora in altri luoghi, finché ci troviamo di fronte a una realtà che chiude il cerchio: il mulino è lamacina del sale marino, il fondo dell'oceano. Amleto è il nordico e brumoso signore dei mari. L'autore ci ricorda l'archetipo dell'acqua, delle anime alla riva in attesa della barca: gli etruschi, Dante, Ruskin, un mito antichissimo. Secondo una leggenda polinel'angoscioso dubbio di aver contribuito alla menzogna staliniana; ma la lotta indefessa lo ha reso santo e inviolabile. Il poeta aderisce perfettamente al suo alter-ego e trova gratificante la fantasia funebre della bella morte (molte fini gloriose e sul campo, da Guevara ai.suicidi di Stammheim, costellano l'immaginario di questa fase). In opposizione alle mitologie di sopravvivenza. e di eternità dell'inconscio, Fortini (caso unico e strepitoso per la virulenza del conflitto) oppone la ricerca del senso, un'ombra (non assimilabile al concetto junghiano) che sta intorno al paesaggio e mai si scrolla: «Il senso esiste/e lo conosc:eranno. Così speriamo. Vedi, anzi: / questa certezza è l'ombra del paesaggio» (Primavera occidentale). In un'atmosfera limbale, postuma e da poscritti, la forza (non sappiamo quanto laica) della speranza resiste, basata sulla sostanza del segno, sull'iconicità esistenziale della scrittura (non certo sulla fede nell'identità heideggeriana fra linguaggio e mondo): «Ostinate locoprono/le foglie senza forma. Toglile e potrai leggerei/l'ombra di quegli unghioli» (Del tuo timido gatto ... ). Gli Otto recitativi della seconda parte sono caratterizzati da una diffusa percussività ritmica, che riconnettiamo di necessità a moventi anticlassici e a un atteggiamento di pensosità precaria, martellante come un tarlo, ambivalente e indistruttibile (sembrerebbe l'estrinsecazione dell'istinto freudiano di morte, una foga, una furia che tende a distruggere la ragione con la ragione stessa e, con questa, l'intera materia): i livelli iterativi organizzano dialoghi serrati e spietati con la personalità dell'uomo e con la vicenda del poeta, interpolando oralità e parlato con la terminologia aulica, speculando infidamente sulle cadenze lasse dell'idillio: «Furono, sì, sono, saranno; ma fiera la luna/è rapidissima lassù e possiamo, addio,/tra elce e leccio, tra cipresso e leccio/senza suono toglierci, senza pena/dalla complessiva immagine» (La luce del gran nuvolo). F in dall'esordio di Foglio di via, il ritmo (non sempre da fondersi nel metro) è stato uno stigma riconoscibile di Fortini, un vettore di significato, dovuto alle letture bibliche, alla conoscenza dell'espressionismo brechtiano, ai continui tentativi di fornire la poesia italiana di una metrica quantitativa e anglosassone, fuori dell'isosillabismo che da sempre l'ha condizionata. Ma nel sistema fortiniano tali ricerche esulano dal piano siana le anime dei morti dovevano passare dall'oceano al cielo entrando nella scia di luce che il sole crea nell'acqua un attimo prima di tramontare. In quel punto il tempo..s. i congiunge all'eternità. Amleto era stato signore di quel regno, e lanatura geniale di Shakespeare gli ha conferito, nella lucida melanconia, quello straordinario «ricordo che non ricorda» di cui parla Dino Campana, e che Luzi riprende nel verso «bruciata la materia del ricordo ma non il ricordo», quella visione a ritroso di un'antica vita dimenticata, che è stata sua mentre ora i rapporti con la natura e gli astri sono lacerati e sepolti, e l'uomo moderno può guardare e cercare solo dentro se stesso. puramente formale, per affermare il concetto della extratestualità del segno poetico e della sua completa contestualizzazione. Certo, sembrano colluttare (beneficamente), il piano dove predomina l'immagine (e di conseguenza l'immaginario, il visionario, dalle traduzioni di Eluard allo strenuo interesse per i surrealisti, fino a Zanzotto) e quello fonico, che elimina metafore, analogie, per innalzare il predomonio escatologico, ma non saprei decidermi per decretare la vittoria dell'uno o dell'altro, per il semplice motivo che anche ·l'immagine «racconta» (ricordava Barthes) e l'immaginario è un dire per altre vie; anzi, se qualche sospetto di emersione dell'inconscio e di una poesia più abbandonata ha qualche ragion d'essere, vista la rimozione di cui Fortini da sempre fa uso, i bruschi passaggi e dislivelli testimoniano a favore di una strutturazione complicata, omologa dell'ingarbugliatura del mondo: i salti felici da uno stile all'altro, da un motivo al suo contrario, rendono le aporie architettoniche di un edificio che non esito a chiamare macrotesto, malgrado le apparenze: non un libro creato sulla continuità di pochi elementi base, ma sullavarietà degli «strappi» (soltanto una residua speranza si incarica di ricucire parzialmente i pezzi, ma è fondamentale che non oltrepassi mai lo stato di tentativo). Due brevi «intermezzi», Exultet e Il nido, fungono da culmine occultato e astuto del libro (come a dire che il cuore della nostra vita batte a dispetto e all'insaputa di noi), rivoltati e rasi da un furioso accumulo di sensazioni disordinate, sgradevoli e metalliche. Il citato Mengaldo rinviene ne Il nido un perno, un centro decentrato, in cui dialettica e allegoria porrebbero in modi perentori la loro opzione, senza però azzerarsi: ne nasce una accettazione (nuova in Fortini) della parzialità, con dimenticanza dell'ordine metafisico. Ma ciò che tiene unito il viaggio fortiniano è invece l'orizzonte sociologico d'attesa, quell'indomabile rifarsi a interlocutori ignari e futuri (p.e., amanti in un parco, un lettore dell'età postgutemberghiana), i quali potranno, attraverso gli errori della cultura passata e l'errare della Storia, alzarsi e uscire (v. la poesia Allora comincerò ... , che si riconnette a Lettera, di Foglio di via, in una ideale staffetta) per «praticare», mettere in pratica, il sapere, la letteratura. Il cerchio si chiude, non la p·artita; il serpente, simbolo del pericolo eterno, diviene l'emblema d'una «totalità aperta» (per dirla ancora alla Lukacs).
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