Alfabeta - anno VIII - n. 82 - marzo 1986

controllare. Come ci ricorda un vecchio proverbio inglese, la prova se il budino è buono la si ha mangiandolo. Invece, tu causes tu causes tu ne fais rien d'autre que causer, direb- • be il pappagallo di Zazie dans le métro a tanti progressisti nostrani. E intanto i manovratori, indisturbati, ci guidano dove sanno loro. Fuor di metafora, oggi come oggi le scelte di fondo si basano tutte su tecnologie complesse (al di là di fallaci apparenze), anche perché quest'ultime interagiscono in modo altrettanto complesso con l'organizzazione del lavoro e della società, con il territorio, ed anche con noi, come singoli o amici del circolo del biliardo. Rifiutare quest'evidenza equivale a respingere il complesso per cadere nel complicato, che è un po' come tagliarsi parti preziose per far dispetto alla moglie. Mi occorreva questa premessa, lunga quasi come tutto il pezzo, per spiegare come mai, essendomi stato commissionato un intervento sulla «speranza tecnologica», ho parlato d'altro. Perché d'altro, e non solo per cenni come sono stato costretto a fare qui, occorre parlare, al fine di evitare gli schemi facili e semplici, le ripartizioni ideologi: che fra bene e male e proporre al loro posto un approccio molto articolato al rapporto fra nuove tecnologie e nostro futuro. Naturalmente con la consapevolezza che un siffatto rapporto non è dato una volta per tutte e nemmeno per intero sin dall'inizio, in quanto è soggetto agli effetti di retroazioni molteplici, e che intervenire sulla loro amplificazione (e relativo segno) è più importante che occuparsi dei singoli fattori, siano essi tecnologici o meno. Quanto più si riuscirà ad operare in tal senso tanto più accettabile sarà parlare di speranze nuove offerte dalla innovazione tecnologica. In caso contrario, la delusione tecnologica sarà inevitabile, anche se uno avrà salvato la propria anima occupandosi solo di risorse rinnovabili. Anzi, a guardar bene, nemmeno di delusione tecnologica si potrà parlare, in quanto questa formulazione rifletteva le conclusioni di analisi condotte a metà degli anni '70, nel periodo appunto del pessimismo dominante, secondo le quali si era in presenza di un fallimento complessivo dell'innovazione a garantire uno sviluppo stabile per il rendimento decrescente delle tecnologie disponibili, Ambiente e modo di produzione mentre nel caso suddetto la delusione sarebbe di una minoranza sconfitta per avere perseguito obbiettivi impraticabili. G li altri, i più, inneggeranno alle nuove frontiere dello sviluppo, e poco importa se sarà di qualità nettamente inferiore a quella ottenibile con un governo attivo dell'innovazione, per cui ciascun gruppo, movimento, forza, singolo individuo sia disposto a cedere qualcosa purché tutto muti nel senso giusto. Un Gattopardo alla rovescia, insomma. In caso contrario non resterebbe che sfoggiare una intellettualistica alterità per le «masse subalterne», colpevoli di avere accettato la sola ipotesi di sviluppo proposta in quanto nessuno ha saputo contrapporvi una alternativa credibile. Interessdi iffusi In ultima analisi! il rischio vero - oggi - è la confusione tecnologica, contro cui vincerà sempre l'ottimismo tecnologico (di facciata, d'accordo, ma efficace) di chi governa la politica e l'economia qui ed ora. E qui ed ora i conti vanno fatti con i nipotini di Reagan o - se vogliamo rispettare meglio le proporzioni - gli apprendisti stregoni alla Thatcher: Romiti, Mortillaro & c: e i loro corifei politici. Vogliamo portargli in dono l'Ayentino ideologizzante di singoli, di gruppi, di movimenti, che viceversa potrebbero fornire un contributo rilevante ad un mix di tecnologie appropriato ad una qualità nuova dello sviluppo? e tutelaambientale I n un recente convegno Giorgio Nebbia riproponeva il problema se la società capitalistica sia in grado di darsi regole compatibili con la tutela ambientale, esprimendo dubbi in proposito. Aggiungeva tuttavia che anche l'esperienza dei paesi «socialisti reali» lascia perplessi. Riprendeva il tema Giacomo Becattini, anche egli piuttosto dubbioso sulle possibilità di modificare in modo accettabile il sistema capitalistico, ma che tuttavia si esprimeva in modo assai equilibrato rispondendo alla domanda se riel socialismo si risolvano automaticamente i problemi della tutela ambientale: «Bisogna vedere che cosa si intende per socialismo. Se il socialismo è un regime in cui la promozione di un dirigente di impresa dipende da obiettivi materiali di produzione e lui non viene adeguatamente penalizzato per la distruzione dèll'ambiente che ha intorno, è chiaro che, rispetto all'ambiente, si comporterà più o meno come un imprenditore privato. «Se socialismo è invece recupero, per l'uomo, del controllo del proprio destino, allora nel capitalismo mi pare che sia molto difficile risolverli. D'altronde anche la domanda se l'uomo può recuperare quel controllo nel capitalismo è un po' astratta. In realtà il capitalismo è una cosa viva, che si muove, si trasforma, cambia. Il capitalismo americano e il capitalismo come si manifesta nella riviera romagnola sono cose diverse, questo va detto. Essi hanno elementi in comune ma anche elementi di differenziazione. Quindi questa domanda sul capitalismo e sul socialismo è forse un po' generica. Io non voglio scoraggiare ogni speranza di trovare una soluzione all'interno di una forma sociale che cambia; e cambia sempre partendo da qualche parte» (Vedi Cervia Ambiente, Chiudere il cerchio, Maggioli, 1985). In definitiva, sia Becattini che Nebbia non se la sentono di condannare proprio definitivamente il capitalismo, né di compiere un atto di fede totale nel socialismo. Viene allora un dubbio: il problema della validità, per la tutela ambientale, di capitalismo o socialismo, non sarà per caso una questione di lana caprina? Penso che per vederci più chiaro occorra precisare i termini della questione. Essi mi paiono i seguenti: è bene definire che cosa si intenda per «capitalismo» e «socialismo», bisogna poi esaminare se l'uno o l'altro dei due sistemi sia tecnicamente inadatto a garantire la tutela ambientale; infine, se si dimostra che in ambedue questa tutela è tecnicamente possibile, è necessario porsi il quesito se nell'uno o nell'altro caso si sviluppino necessariamente forze che rendono impossibili le scelte a difesa dell'ambiente, pur esistendo meccanismi capaci di tutelarlo. P . rocedo con eroiche semplificazioni. Definisco come «capitalista» un sistema fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione che vengono distribuiti nei vari impieghi unicamente con meccanismi di mercato tramite operatori che massimizzano il pr<?- fitto. «SQcialista» è invece un sistema in cui i mezzi di produzione sono di proprietà pubblica, e vengono ripartiti tra i vari settori allo scoEmilio Gerelli po di raggiungere fini che qui non mi interessa definire. Se le risorse ambientali non sono soggette a diritti di proprietà, è chiaro che, non potendo essere vendute a certi prezzi, nel sistema capitalista così definito esse non potranno essere razionate dal mercato, sicché andranno sprecate. Nel caso del sistema socialista tutto dipende dal fatto che la tutela ambientale sia o non sia fra gli obiettivi stabiliti. Se, come accenna Becattini, l'obiettivo è quello di massimizzare la produzione, anche nel socialismo l'ambiente non viene protetto. Sperando di agire da arbitro imparziale direi comunque che, a questo stratosferico livello di astrazione, i pro-socialisti vircono forse per uno a zero. Infatti in un sistema di puro mercato che escluda interventi pubblici, non ci sarebbe- an_~ che se la si volesse - tutela ambien- . tale, per incapacità del mercato di dare un prezzo alle res nullius, mentre questa tutela si può manifestare, se la si vuole, nel caso socialista in cui tutto si~ gestito dallo stato. In questa constatazione sta forse l'origine e la giustificazione del sospetto che anima molti ambientalisti nei ~iguardi di assetti che a ragione o a torto possono definirsi capitalisti. Quando ci avviciniamo alla realtà, però; le cose cambiano. Se non lo si vuol ritenere a scopo polemico un perfetto imbecille, non è difficile immaginare che anche l'Adamo Smith della «mano invisibile del mercato» (che era invece-una testa fine), se avesse avuto casa in riva all'Emscher, all'Olona, o ad altra fogna a cielo aperto, avrebbe·forse anticipato Pigou nel proporre che lo stato introducesse simulazioni del mercato facendo pagare agli inquinatori tasse commisurate agli sversamenti effettuati e tali da incentivarli a ridurre l'inquinamento. È chiaro, insomma, che un sistema di puro mercato non esiste, che anzi l'intervento pubblico si è recentemente tanto espanso da determinare crisi di rigetto tipo deregulation. Quindi, se non si vuol fare pura astrazione, non ad un sistema capitalistico puro occorre riferirsi, ma ad economie miste e soggette a cambiamento, come osservava Becattini, nelle quali accanto al mercato si fa largo spazio all'intervento pubblico, ed in cui i «fallimenti del mercato» sono ampiamente discussi ed affrontati in termini pratici. Stabilito dunque che oggi il «capitalismo reale» è un sistema misto che dà largo spazio all'intervento pubblico (più o meno efficiente), affrontiamo il terzo ed ultimo problema. È possibile che in questi sistemi «misti» ci siano fortissime resistenze al riconoscimento dell'importanza della tutela ambientale, resistenze maggiori di quelle che si manifestano in assetti di socialismo di stato? M i pare, in sostanza, che qualcuno possa ragionare così: riconosco che, tecnicamente, è perfettamente possibile che negli attuali sistemi misti ci sia un intervento pubblico a tutela dell'ambiente, ma questo intervento sarà sempre insufficiente perché i «capitalisti», i «signori del profitto» riusciranno ad impedire una efficace tutela ambientale. Tentiamo anche qui una risposta guardando ormai ai fatti. Ad esempio, già all'inizio del secolo, in un assetto che molti definirebbero di tipo capitalistico, cominciarono a regolamentare l'industria britannica per ridurre l'inquinamento atmosferico, i famosi a/kali inspectors. E, francamente, l'Environmental Protection Agency americana credo che possa costituire un buon esempio di efficienza per molti paesi anche a socialismo di stato. È vero che all'inizio del suo primo mandato Reagan aveva nominato a capo dell'Epa una gentil signora che sembrava lavorasse a difesa degli inquinatori. Ma è anche vero che dovette andarsene. Concludo questi brevissimi spunti con una riflessione: i giuristi denominano quelli ambientali «interessi diffusi» poiché riguardano indistintamente i ·cittadini. La tutela ambientale - sempre difficile - troverà dunque maggiore possibilità di emergere dove il cittadino può esprimersi, e ciò non è necessariamente dipendente dalla proprietà pubblica o privata dei mezzi di produzione.

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