' E facile al teologo trovare le radici della ecologia nelle sue fonti. L'idea che le relazioni tra gli uomini possono essere causa della conservazione o della distruzione della natura è espressa chiaramente nel racconto del Diluvio. Il Diluvio è causato da una certa esorbitanza degli uomini dalla sfera ad essi assegnata da Dio: è la congiunzione tra i «bené Elohim» (esseri semidivini, che la tradizione interpreterà come angeli caduti, demoni) e le «figlie degli uomini», la premessa di quella degenerazione dei costumi umani che è alla base della più terribile frase di Dio nella Bibbia ebraica: «Mi pento di aver fatto l'uomo». Il tema è ancora più esplicito nel libro della Sapienza, secondo cui Dio non ha creato la morte, essa è invece opera del demonio: è il preannuncio della dottrina paolina sul peccato originale. Ma sarebbe certamente vano cercare nelle fonti bibliche o in quelle patristiche la preoccupazione ecologica che è nata invece nella cultura secolarizzata. Da secoli il pensiero teologico ha cessato di essere creatore e quindi il suo approccio consiste nel recepire o nel respingere problemi e linguaggi che esso non ha prodotto. Forse il più interessante problema teologico che abbia riferimento all'ecologia è il tema apocalittico. Esso nasce dalla stessa idea del diluvio: gli uomini hanno talmente contaminato la creazione con le loro colpe che essa può essere purificata solo mediante la dissoluzione nel fuoco. «Nuovi cieli» e «nuova terra» debbono nascere dalle rovine di un mondo distrutto dall'uomo. L'ecologia, come il nucleare militare, assumono così, dal punto di vista della teologia, la figura di una sorta di apocalisse immanente: un giudizio sull'uomo a opera dell'uomo. Ma un teologo avvertito comprende che la sconfitta della «immagine di Dio» sulla terra è la sconfitta stessa di Dio: quindi l'impossibilità della sua onnipotenza. Tutti i temi della finis mundi sono teologicamente intriganti appunto perché la finis mundi è un problema religioso, presente sia nelle religioni del mito che in quelle del Libro. La teologia probabilmente non era preparata ad accoglierli, specie la teologia più aperta e creativa, che, negli anni conciliari, era stata una teologia molto sensibile alle realtà del mondo, ma percepite nell'ottica degli anni '50: segnate dall'attesa del progresso senza timori. La stagione teologica creativa si è situata tutta prima del '68. Dopo essa è rimasta muta: sia di fronte alla critica del modello scientifico-razionale propria del '68 che alle successive immagini di catastrofe demografica, ecologica, nucleare, tecnologica. La pietà conservatrice era più pronta della teologia progressista ad accogliere i temi della crisi: basti pensare alla storia del messaggio di Fatima e al peso che esso ha avuto nella vicenda personale di papa Wojtyla (come l'aveva già avuta in quella di papa Pacelli). M entre il tema catastrofe-progresso divideva negli anni '50 i conservatori dai progressisti (ricordiamo l'ammonimento di Giovanni XX.Hl contro i «profeti di sciagure»), oggi sono i conservatori a giocare il tema di civiltà alternativa (se possiamo usare un linguaggio ad essi non proprio): e spesso in chiave apocalittica. Il caso della Mora! Majority americana è qui molto evidente. L'ecologia non trova perciò eco tra i teologi, perché essi sono bloccati alla stagione conciliare, né tra i conservatori di chiave neoapocalittica perché l'ecologia rimane pur sempre un pensiero laico e razionale. Ciò che pare acquisito al livello della teologia è che essa ormai deve essere pensata a partire dal dato delle «necessità», delle «costrizioni» catastrofiche che esistono oggi nel mondo. Il problema ecologico può avere qualità teologica se posto in questi termini: è compatibile la realtà del Dio rivelato nelle religioni del Libro con la distruzione della vita sulla terra ad opera dell'uomo? Se è tutta l'umanità, o la vita sulla terra, che possono perire per iniziativa dell'uomo, che significa la Potenza quale attributo di Dio? e, se Dio si dà, non si dà anche la possibilità di un mondo salvato dall'uomo, il che obbliga a leggere in chiave di minaccia e non di profezia i testi apocalittici del Nuovo Testamento? È difficile trovare oggi una discussione seria su questi temi nella letteratura, teologica. La teologia si sente oggi incapace di affrontare i massimi problemi. Per questo l'immagine del papa è oggi così invadente e disturbante e al tempo stesso così insignificante: essa è un messaggio che dissimula nel fragore l'assenza dell'ascolto e quindi l'assenza dell'annuncio. Ambiente e modo di produzione PluralismP,a/lÙt!cnolog S forziamoci di ricordare com'eravamo a metà degli anni '70; operazione difficile, che la memoria cerca di rifiutare. La crisi ecologica, la crisi del dollaro, la crisi energetica scandivano il diffondersi di una coscienza (e di una inquietudine) nuova, cui il primo rapporto al Club di Roma forniva il supporto teorico. Eravamo entrati nell'era della scarsità, dell'esaurimento tendenziale delle risorse naturali e ambientali. La sensazione da anno Mille, nei più catastrofisti, si mitigava in altri nel convincimento che s1 fosse pur sempre apei-ta una fase radicalmente diversa rispetto al passato anche prossimo. Incerta la direzione (Galbraith coniava la definizione di «età dell'incertezza»), sicuro il cambi amento. E il cambiamento c'è stato, anche se sorprendentemente diverso dalle ipotesi dominanti dieci anni fa. La storia ha più fantasia degli uomini, come ~i affannava a predicare un signore di Treviri, ormai quasi negletto. Meno di due lustri per passare dal pessimismo all'ottimismo, da un futuro senza futuro alle nuove frontiere dello sviluppo. Il deus ex machina di questo capovolgimento di fronte è di per sé causa di ulteriore sorpresa: l'innovazione tecnologica, che dieci anni fa sedeva sul banco degli imputati, in quanto fonte di ogni nequizia, e per ,il futuro pareva incapace di continuare a recitare un ruolo significativo. Esagerazioni? Riconosco di avere forzato un po' le tinte, ma non la trama di fondo. I dissensi rispetto al new look ottimistico? Esistevano dieci anni fa come oggi, senza però mettere in discussione l'ideologia al momento dominante. Basti pensare all'appannamento di un filone culturale (e operativo) che negli anni '70 aveva individuato nella ricerca di tecnologie appropriate uno strumento per dare sbocco positivo alla crisi di sviluppo. Con questa indicazione si superava la parzialità di concezioni quali le tecnologie alternative, le tecnologie dolci o lo small is beautiful, a favore di un pluralismo tecnologico in grado di adattarsi alla molteplicità di configurazioni economiche. sociali, culturali, territoriali e alle loro specifiche esigenze. R isp~tto a_si~ili ipote~i di lavoro reg1stnamo oggi un arretramento; si afferma ritualmente il primato delle tecnologie dolci, rinnovabili, decentrate, senza avvertire la contraddizione fra una siffatta semplificazione e la prima - a mio avviso - delle leggi ecologiche: un sistema è tanto più stabile quanto più è complesso. Legge che vale anche per i sistemi artificiali sviluppati dall'uomo: fattore non secondario nelle crisi degli anni '70 non è stato tanto lo svi~ luppo tecnologico del dopoguerra per sè quanto la sua univocità, che tutto e tutti omologava; distruggendo il diverso e lo specifico. E mentre si esegue il girotondo dolce/rinnovabile/decentrato, si affermano (o stanno per avere diffusione) tecnologie ad elevato contenuto di «appropriabilità». Con la microelettronica e l'informatica, con i sistemi flessibili di produzione e le biotecnologie, la flessibilità in termini di soluzioni e di scala, la possibilità di concentrare e ad un tempo decentrare, un rapporto nuovo con le risorse naturali e l'ambiente diventano opportunità attuali e attuabili. Non scontate, e nemmeno regalate da qualcuno. Anzi, l'uso che delle nuove tecnologie si fa nell'America di Reagan o nella Fiat di Romiti dimostra esattamente il contrario. Non basta però affermare che occorre occuparsi delle nuove tecnologie (più o meno lo fanno tutti) per garantire il decollo di una strategia dell'attenzione almeno potenzialmente di successo. Tralascio di soffermarmi sul caso banale (ma non infrequente) di chi interviene soltanto nel ruolo di mosca cocchiera. Non meno preoccupante è l'atteggiamento di chi ripropone semplificazioni devastatrici (del buon senso innanzi tutto), riducendo la complessità ad un cocktail di telematica/biotecnologie/fonti rinnovabili e via recitando, col risultato di rimanere ai margini, spettatore nemmeno tanto perspicace. In realtà il software trionfante non elimina lo hardware. Il silicio dei chips e delle fibre ottiche contribuisce a cambiare ruolo e peso di altre risorse, ma i problemi delle fonti non rinnovabili e del loro rapporto con lo sviluppo, il territorio e l'ambiente rimangono e non possono essere messi tra parentesi (magari demonizzandoli). Soprattutto il concetto di non neutralità delle scelte tecnologiche non può essere banalizzato in una dicotomia di fatto, anche se non esplicitamente enunciata, fra opzioni tutte costi e nessun beneficio ed altre dove i costi (e i rischi) sono irrilevanti e i benefici elevatissimi: tipica la contrapposizione fra energia solare ed energia nucleare, che hanno viceversa il pregio di integrarsi per le loro caratteristiche e prestazioni: come se le tecnologie fossero una forma platonica predeterminata e non esse stesse il prodotto di una storia che può cambiare da situazione a situazione e- nel tempo- all'interno del medesimo contesto. Come se le diverse capacità (da paese a paese) di controllo sociale sulle tecnologie non contassero; e tali capacità non potessero evolversi attraverso processi di apprendimento, resi però possibili da una precondizione: che si realizzino - pur con tutte le cautele - le soluzioni tecnologiche da
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