fine tuning) perché, in genere, si sortisce solo l'effetto di gonfiare le grandezze nominali, provocando inflazione. La «ricetta» si riduce . perciò alla fissazione di un obiettivo di crescita monetaria stabile e moderata, da mantenere costante nel lungo periodo. Ma se è difficile definire gli obiettivi monetari anche questa prescrizione rischia di diventare evanescente. È ciò che sottolineano sia Samuel Brittan sia The Economist nell'editoriale del 4 gennaio, dove si afferma: «Un pezzo del monetarismo puro si è rivelato erroneo: la visione che il modo migliore di rendere stabile la polit_icamacroeconomica sia quello_di stabilire targets per la crescita monetaria. La rivoluzione finan- • ziaria in America e in Gran Bretagn;· hà•·confusomolti dei confini fra --•+ oiyer-sftipi di "moneta", introdu- . é:èndone anche nuove versioni. La ,·: moneta è ora molto più difficile da •.. definire e da controllare, e le singo- .. le misure della crescita monetaria -·so~ò\iho scadente indicatore per i movimenti di breve periodo della domanda». I nòn addetti ai lavori si saranno chiesti, talvolta, che cosa significhino i misteriosi Ml, M2, M3 che spuntano in articoli di politica monetaria. Sono appunto i nomi convenzionali che vengono dati ai diversi «aggregati» monetari, cioè alle diverse misure della quantità di moneta, secondo definizioni che escludono o comprendono «forme monetarie» diverse (contanti, depositi bancari a vista, depositi di risparmio, titoli e tutti i paraphernalia della moderna ingegneria finanziaria). È sempre più difficile dire quale sia la vera definizione di moneta, l'aggregato che governi e banche centrali debbono considerare affidabile per fissare gli obiettivi mo11~ta~i_:Untesto di J.R.S. Revell su «Gli effetti dell'introduzione di sistemi elettronici di trasferimento • dei fondi sulla politica monetaria», (pubblicato nel n. 20 dei Quaderni di economia del lavoro) mette bene in luce come l'introduzione della telymatica e della «moneta elettronica» non abbia fatto che esasperare problemi sospesi da lungo tempo. «La definizione di moneta - scrive Revell - è sempre stata oggetto di controversia, quanto meno dalle dispute dell'inizio del XIX secolo fra fautori della Bullion School e dalla Currency School; da quando si sono modificati i metodi di· pagamento e si sono sviluppati strumenti finanziari è diventato ancora più difficile trovare un accordo sulla definizione di moneta in assoluto migliore» (p. 156). Leggendo qualche storico dell'economia si ha persino il sospetto che i problemi.di «definizione» la moneta se li trascini seco dalle origini, e che il monetarismo li abbia eredita~ ti, aggravati e moltiplicati dalle tecnologie finanziarie ed informatiche di oggi. L a definizione degli «obiettivi» o «targets» della politica monetaria non è il solo epicentro della disputa sul monetarismo. Se si assume il punto di vista del Wall Street Journal, il contrasto riguarda soprattutto il regime dei cambi; secondo il giornale americano, il dissidio è aperto fin dalle origini della «scuola» monetarista. Da disputa teorica si è trasformato in -. un·a questione di enorme impor- ~ tanza per l'economia mondiale. s::: L'editoriale del 5 dicembre scorso t (The problem of monetarism) risale alla controversia accademica, poichè «l'attuale spaccatura riflette le divisioni nel campus dell'università di Chicago vent'anni fa». Friedman e Shultz, racconta il giornale, erano presenti, ma il leader dei sostenitori dei cambi fluttuanti era I:! ~ Harry Johnson, mentre il principa- -c le sostenitore dei cambi fissi era ~ ~ Robert Mundell, ora all'università di Columbia. Nel campus c'era anche un giovane prof essore di nome Arthur Laffer, divenuto in seguito noto come uno dei principali esponenti della cosiddetta supply-side economics, I'«economia dell' offerta» che ha ispirato in larga parte la politica reaganiana di riduzione •della pressione fiscale. Nonostante il loro disaccordo, prosegue The Wall Street Journal, questi sono noti come i padri di ciò che gli economisti chiamano l'approccio monetario alla bilancia dei pagamenti. L'approccio keynesiano concepisce i conti internazionali essenzialmente in termini di flussi commerciali, l'approccio i:nonetario in termini di offerta di moneta: in regime di cambi fissi, la creazione di moneta in eccesso causerà un deficit nella bilancia dei pagamenti; in regime di cambi fluttuanti, causerà il deprezzamento del tasso cli cambio. Johnson e i monetaristi «tradizionali» sostenevano i cambi fluttuanti per dare maggiore indipendenza alle politiche monetarie nazionali. Mundell, al contrario, sottolineava che una moneta comune migliora l'efficienza del mercato nella formazione dei prezzi di beni e servizi, e che la migliore ape prossimazione a una moneta comune è un sistema di cambi fissi. Secondo The Wall Streetlournal, il risultato delle recenti esperienze dell'economia mondiale è che «i cambi fluttuanti non producono l'indipendenza della politica monetaria, ma interferiscono con i segnali di prezzo. La visione di Mundell ha vinto la prova del tempo». A quésto punto, il quotidiano americano batte sull'argomento che - come abbiamo visto - sarà sollevato anche da The Economist: «In effetti, in una economia internazionale interdipendente, gli aggregati monetari sono diventati sempre più dubbi come strumenti di politica nazionale». Non si tratta solo del problema della «definizione» degli aggregati monetari, ma anche dell'influenza crescente di un contesto finanziario internazionale sempr_epiù «aperto» dove capitali per centinaia di miliardi di dollari si spostano quotidianamente da una piazza all'altra, da un punto all'altro del globo, da una forma monetaria ad un'altra. The Wall Street Journal ricorda di aver ospitato, recentemente, la replica di Friedman, secondo cui l'aggregato monetario più «stretto» (Ml) è tuttora un buon «predittore» del Prodotto nazionale lordo nominale; ma, osserva il giornale, non è di grande aiuto controllare il Gnp nominale., che è «la somma del buono e del cattivo»: «... il punto non è se lo sviluppo nominale è del 10%, ma se si tratta del 2% di inflazione e dell'8% di sviluppo reale ovvero del 12% di inflazione e del 2% di decremento». Qui non seguiremo ulteriormente The Wall Street Journal nella sua revisione critica della teoria monetarista, perché dovremmo addentrarci in aspetti sempre più tecnici. Ci basta mettere in evidenza che l'asserzione secondo cui «l'influenza intellettuale del monetarismo sta svanendo» si accompagna alla affermazione secondo cui nel pensiero economico è in corso «un'evoluzione al di là del monetarismo degli anni recenti», anche se in tale evoluzione «i monetaristi giocarono un ruolo assolutamente cruciale per il quale saranno onorati a lungo». In sintesi, secondo il quotidiano di New York il monetarismo si sta «dissolvendo» per una biforcazione interna: il suo ramo «tradizionale» (Friedman e soci) non sarebbe più in grado di dare esaurienti indicazioni di politica monetaria e rimarrebbe abbarbicato alla difesa dei camqi fluttuanti, mentre il ramo supply-side ha dato luogo ad un'ulteriore evoluzione che spiega meglio i fenomeni economici e che indica la via del superamento dei cambi fluttuanti, in direzione di un ritorno ai cambi fissi ancorati a merci (oro o altro). Qui la disputa accademica si trasforma in una rovente questione di politica economica a livello planetario. Nel numero dello scorso novembre (Crisi e riforma del sistema monetario), abbiamo analizzato i segnali che sembravano indicare una crescente insofferenza verso l'attuale regime dei cambi fluttuanti e una spinta, ancora disordinata, verso una riforma del sistema monetario internazionale. The Wall Street Journal torna a ripetere qui la propria posizione: «Nella nostra visione è una buona cosa che il mondo stia muovendo verso una riforma monetaria iMernazionale, abbandonando l'esperimento con i tassi di cambio fluttuanti. I ministri finanziari e le banche centrali più importanti hanno fatto un grosso passo in questa direzioòe con la riunione del Gruppo dei Cinque del 22 settembre. La recente conferenza monetaria promossa da Kemp e Bradley ha prodotto un notevole grado di consenso. Sì, c'erano differenze circa un'esatta prescrizione. Sia il sistema basato sull'oro dei supply-siders, sia le "zone di riferimento" (target zones) per i tassi di cambio sostenute 'dai keynesiani presenterebbero problemi politici, forse sufficienti a stroncare qualsiasi sistema in embrione. Ma in termini teorici, c'è un largo accordo sul fatto che l'esperimento con i tassi fluttuanti non ha funzionato». S u questo sfondo di ampio e ambiguo consenso si può collocare l'annuncio dato da Ronald Reagan il 4 febbraio, nel corso del «messaggio sullo stato dell'Unione» davanti al Congresso: il segretario al Tesoro James Baker è stato incaricato di studiare la fattibilità di una conferenza mondiale sul sistema monetario e di riferire i risultati al presidente entro la fine dell'anno. Le reazioni della stampa italiana e straniera all'annuncio sono state curiosamente erratiche. In genere, i quotidiani italiani hanno concesso scarsa evidenza. Fra le eccezioni, La Stampa che il 6 febbraio portava il titolo di testa Reagan: sulle monete un accordo mondiale, e Il Sole 24 Ore che, dopo aver anticipato già il 29 gennaio Reagan pensa a un «serpente» per ridare una stabilità ai cambi (trattasi ovviamente di serpente monetario, sul calco linguistico del cosiddetto «serpente monetario europeo»), confermava il 5 febbraio: Reagan vuole una riforma per il sistema monetario. L'erraticità non è solo italiana. Abbiamo cercato la notizia sul Financial Times del 5 e del 6 gennaio: se c'è, è ben nascosta. In effetti, nessuno sa bene che cosa abbia in testa Rèagl!n. Sempre sulla Stampa del 6 febbraio (E Reagan adesso pensa a una Bretton Woods bis), si legge: «Volutamente Reagan non ha spiegato che cosa si aspetta da una nuova conferenza internazionale. Ma più volte, negli ultimi mesi, vi ha fatto cenni il ministro del tesoro Baker. Gli Stati Uniti pensano a una sorta di Sme. Un serpentone basato sul dollaro, sul marco tedesco e sullo yen giapponese, con fasce di oscillazione ben individuate. Non credono assolutamente nel ripristino delle parità fisse di Bretton Woods, né nel ritorno al tallone aureo, anche se uno dei candidati alla presidenza ne11'88, il deputato Kemp, li propugna con indomabile energia». Kemp, ricordiamo, è stato promotore del convegno monetario del Congresso americano in novembre, citato nell'editoriale del Wall Street Journal; Kemp si può considerare ·un rappresentante politico dei supply-siders, di Mundell e soci. Ma secondo Il Sole 24 Ore del 5 febbraio, che pure aveva fatto un' anticipazione che menzionava il «serpente», Reagan si accontenterebbe di molto meno della costruzione di un «serpente» basato su , «zone di riferimento» per i cambi. «A Washington le congetture sulle intenzioni reali della Casa Bianca a proposito del sistema monetario internazionale hanno anch'esse subito un'evoluzione. Una corrente di pensiero ritiene che l'incarico affidato a Baker dal presidente abbia soprattutto obiettivi politici. Il primo, a carattere interno: Reagan vuole cioè tranquillizzare coloro che temono che le esportazioni americane non potranno ripren-· dersi in conseguenza delle forti fluttuazioni del dollaro. [... ] Il secondo obiettivo sarebbe a carattere internazionale: vuole lanciare un messaggio soprattutto a Giappone e Germania chiarendo che i surplus commerciali non potranno durare ai livelli attuali». Insomma, una minaccia, più che un progetto. «Secondo altri, invece, Reagan avrebbe realmente deciso di proseguire nell'iniziativa di una riforma sostanziale; avrebbe per il momento escluso l'ipotesi dell'introduzione di bande di oscillazione o di target zones, vorrebbe però che a disposizione del Gruppo dei Cinque vi fossero meccanismi utili per un migliore coordinamento delle politiche economiche». Per il momento, Reagan sembra accontentare tutti: i monetaristi «èlassici», fautori dei cambi fluttuanti che, de facto, continuerebbero a costituire il regime in attività; i neo-keynesiani, fautori delle target zones, che potrebbero essere instaurate gradualménte; i supply-siders, fautori dei cambi fissi e del tallone aureo, che chiedono una nuova Bretton Woods, una conferenza mondiale come quella ventilata da Reagan. Dietro il gioco delle dottrine, stanno gli interessi commerciali e finanziari da cui dipendono le sorti dell'economia mondiale. Leggiamo, a caso, i titoli della pagina della Stampa in cui compariva quello sulla «Bretton Woods bis»: Crollano le materie prime, mercati in subbuglio - Il petrolio scuote il mondo e In_Borsa a New York tremano i titoli petroliferi, banche in difficoltà per i debiti - Wall Street e il dollaro perdono colpi / Il Messico ora rischia la bancarotta. Non sappiamo, esattamente, se nel 1986il monetarismo sia defunto o goda ottima salute. Ma nuovi equilibri economici, di solito, sono accompagnati da nuove «teorie». Com'è noto, non sempre i dibattiti accademici sono puramente accademici.
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