Alfabeta - anno VIII - n. 82 - marzo 1986

in una posizione del tutto originale rispetto alle famiglie dei modelli classici e neoclassici. Come Napoleoni aveva prontamente intuito fin dai tempi della sua recensione _alla prima apparizione del libro in Italia (1966), «Sraffa chiude un'epoca della storia del pensiero economico». Conviene a questo punto anticipare la conclusione di quanto tenterò qui di dimostrare: sul piano epistemologico, mentre Sraffa rappresenta l'atto finale (di «chiusura» per parlare come Napoleoni) di quanto era pensabile economicamente da una razionalità moderna, Keynes è il primo economista che, su·quello stesso piano, può essere definito post-moderno. Cercherò di argomentare questa tesi precisando il significato da attribuire al termine «post-moderno». Diciamo subito che il Discorso di Napoleoni cessa di esserci di aiuto in questa direzione. Esso è infatti simmetrizzato lungo la coppia di categorie classico/neoclassico; e questo comporta-quando l'autore prolunga la sua ricostruzione genealogica dopo Sraffa - che venga privilegiata di Keynes la versione che ne ha dato la «sintesi neoclassica». L'isomorfismo di questa, che è definita da Napoleoni una «scatola vuota di teoria», con la «neutralità» del modello sraffiano, potrebbero consentire (in teoria) il prolungamento nel dominio keynesiano della tematica del «sovrappiù» e quindi la sopravvivenza del dilemma circa la sua possibile spiegazione: classica-(marxiana) o neoclassica? In pra,'ica - e questo mi sembra sia un pnmo vistoso connotato di post-modernità - in Keynes il concetto di surplus non è più pensato come una quantità data e assoluta (come lo è in Sraffa) ma come una categoria fondamentalmente relativa perché definibile solo funzionalmente. Non ha più senso per Keynes affrontare il problema economico in termini di «cause» (e in ciò sta la sua affinità con Sraffa); ma non ha altrettanto senso ridurre una volta per tutte la complessità del sistema economico fingendo che la distribuzione del reddito tra salari/profitti sia preventivamente nota, anche se variabile a piacimento (come lo è in Sraffa), allo scopo di ottenere una configurazione di prezzi sempre univocamente determinabile. Questa impostazione portò Keynes a «respingere il secondo postulato dell'economia classica», l'equivalente di ciò che per la geometria è «l'assioma delle parallele», anche se bisogna aggiungere che gli economisti hanno sempre preso queste famose affermazioni con sufficienza pari all'imbarazzo nell'assegnar loro un qualche significato epistemologico definito. La Teoria Generale - e questo mi pare sia un secondo connotato post-moderno- è un'opera costruttivista nel senso che in essa è impossibile scindere enunciati che valgono sul piano logico-procedurale da proposizioni che hanno come referente la realtà economica. A dispetto dell'aggettivo «generale>,,che potrebbe indurre a pensarla come un tentativo di totalizzazione delle conoscenze economiche (ed è su questo binario che ha cercato di spingerla la «sintesi neoclassica») la Teoria Generale si fonda come un esempio puntuale {o un modello, se preferite) costruito su una serie di inferenze la . cui fondatezza è contingente, non tanto perché condivida una banale filosofia della relatività storica, ma perché la conoscenza economica è sottoposta ad un limite destinato ad operare in via generale: non può conoscere le «aspettative di lungo periodo» dei soggetti economici, un dominio dove, per Keynes, bisogna riconoscere che vi è «un •_anello teorico tra il presente e il . futuro». S e sul piano reale ciò configura il capitalismo come un sistema strutturalmente instabile, sul piano del grado di conoscenza che noi possiamo aspirare ad averne, essa risulta essere in via generale sempre contingente e probabile, mai univocamente e generalmente determinabile. Quello keynesiano è dunque un sapere regionale perché non pretende di arrivare ad una conoscenza sistematica della struttura economica (com'è invece per le teorie neoclassiche dell' «equilibrio economico generale») ma mira ad una conoscenza funzionale a regolamentare efficacemente la dinamica del sistema. Una teoria che· consapevolmente si fonda su questi presupposti poggia su uno zoccolo epistemologico che oltrepassa la razionalità scientifica dell'economia classica (e neoclassica). In questi cinquant'anni esatti dalla pubblicazione della Teoria Generale gli economisti non si sono mai interessati, salvo rare eccezioni, al senso di questa rivoluzione epistemologica della loro scienza: più profonda e sicuramente più duratura delle ricette di politica economica desumibili dal modello keynesiano. I lavori di Vicarelli e Zanini sono importanti anzitutto perché rompono con questa tradizionale trascuratezza. Come giustamente ha sottolineato Siro Lombardini (nella «Introduzione» al libro di Zanini), se ormai fiumi di inchiostro sono corsi sulla rivoluzione economica keynesiana, sulla rottura epistemologica che essa ha comportato «le riflessioni non appaiono ancora adeguate e convincenti» (p. 11). Quest'ultimo approdo non può che avere il senso di una «provocazione metodologica», se appena si ricordano le peripezie della storiografia keynesiana in questo mezzo secolo in cui ha goduto dello status ambiguo di essere accettata-come nuova ortodossia economica a patto di essere una specie di vigilata speciale. Infatti, la versione che della Teoria Generale Hicks dette nel 1937, qualche mese dopo la sua pubblicazione, se le fornì un salvacondotto «neoclassico» che le spalancò velocemente le porte della cittadella accademica, appose anche un duraturo silenziatore al dibattito che si sarebbe potuto sviluppare intorno ai fondamenti «rivoluzionari» che Keynes rivendicava alla sua opera. Questo dibattito prese così avvio con due decenni di ritardo assumendo la forma di una critica alla «sintesi neoclassica» del Keynesismo, fatta valere sulla base di una rilettura della Teoria Generale. Gli anni '70, con l'incepparsi delle politiche economiche keynesiane, dettarono all'approfondimento critico un passo indietro, al Keynes autore del Trattato della moneta (1930). L'ingovernabile inflazione di quegli anni richiamò l'attenzione sul fatto che il fulcro dell'approccio keynesiano era che il sistema capitalistico fosse un'«economia monetaria» (e non un'«economia cooperativa»). Graziani e Minsky furono gli ispiratori di questo programma. In questa curiosa storia a ritroso Vicarelli e Zanini fanno compiere al dibattito un ulteriore «passo indietro», al Keynes del Trattato sulla probabilità (1921), opera mai tradotta in italiano e praticamente ignorata dagli economisti. Ci si domanderà: in che modo un trattato su un argomento così lontano dalle tematiche dell'economia può aver influenzato la impostazione della Teoria Generale? Anzitutto perché non è una trattazione della probabilità in senso matematico o statistico. Per Keynes la Probabilità è un capitolo della Logica piuttosto che della Matematica, così come più tardi dirà che l'Economia stessa è una branca della Logica. Egli dunque non si interessa di metodi di calcolo della probabilità («probabilità in senso stretto», come lui la chiama), ma al suo aspetto logico-relazionale che enuncia così: «Tra due insiemi di proposizioni, quindi, esiste una relazione in virtù della quale, se conosciamo la prima, possiamo attribuire alla seconda un qualche grado di credenza razionale. Questa relazione è l'oggetto della logicadella probabilità» (p. 6-7). Ogni sapere relazionale si ottiene essenzialmente «per argomentazione» (by argument), ma nessuna proposizione di questo tipo può pretendere a priori a un qualche grado di conclusività logica: «nes-, suna proposizione è in sé stessa probabile o improbabile, così come nessun luogo è intrinsecamente distante» (p. 7). Il grado di probabilità associato ad una proposizione è accertabile solo nel momento che si specifica un determinato corpus of knowledge al quale riferirla. Ciò esclude, dunque, che il prnbabile possa essere quantificato numericamente; il senso della conoscenza soffre di indeterminazione e la certezza non è che «un caso speciale di probabilità»: maximum probability (p. 16). Nel procedere per argomentazione ci si imbatte in alternative, di fronte alle quali nel caso più comune sono assenti i motivi per affermare più vera l'una rispetto all'altra. Vale qui quello che Keynes chiama un «principio d'indifferenza». Questa impasse non apre però, in Keynes, la strada ad un facile relativismo di principio ma è il presupposto che - per far procedere la conoscenza - giustifica il ricorso al metodo comparativo: un'analisi qualitativa che valuta «il peso» degli argomenti attraverso una serie di «giudizi di rilevanza». Come si vede, il Treatise on Probability è, dunque; un'opera epistemologica che si caratterizza per il suo disincanto nei confronti di un sapere totalizzante. S e fosse stato letto come una «prefazione» alla Teoria Generale, avrebbe suggerito un' interpretazione notevolmente diversa da quella neoclassica. Vicarelli, nel suo saggio («Dall'equilibrio alla probabilità: una rilettura del metodo della Teoria Generale», in Attualità di Keynes, Laterza 1983), individm(almeno due punti su cui avrebbe comportato delle correzioni. Primo: alla Teoria Generale è estranea la nozione neoclassica di equilibrio (e di disequilibrio). Secondo: la centralità dell'analisi delle aspettative, proprio perché è su questo tema che si ritrova l'applicazione più puntuale dei principi metodici del Treatise, il procedere dalla conoscenza evidente di certe proporzioni alla conoscenza inferita by argument di altre non direttamente osservabili. Queste prime acquisizioni trovano oggi una conferma nel saggio di Zanini, tanto più interessante quanto più la sua ricerca è mossa da un'ipotesi del tutto originale per quanto attiene l'ormai lunghissimo indice dei lavori critici su Keynes. Facendolo uscire dalle ascendenze inglesi tradizionali (Marshall, Russe!, Whitehead, Moore), Zanini infatti ritrova Keynes nel modello epistemologico europeo più avanzato degli anni '20: il modello relativo-funzionalistico che ha in Cassirer il suo maggiore teorico e in Kelsen la sua più riuscita applicazione nel campo del diritto. «Come l'epistemologia funzionale servirà a Kelsen per escludere ogni fondazione "naturale" della Norma fondamentale ( Grundnorm) - sostiene Zanini - così il principio d'indifferenza servirà a Keynes per escludere ogni "equilibrio". Il "naturale" come !"'equilibrio" sono funzioni impossibili» (p. 57). Si vede qui come le conclusioni di Vicarelli siano in qualche modo assunte a programma di ricerca. E il merito che si deve rico- '<:tnoscere subito ad esso è quello di ~ «incalzare» la tradizionale delega .5 in bianco che gli economisti hanno [ sempre preferito lasciare ai filosofi 'O ~ su questo terreno. ......, L'epistemologia del relativo che e Keynes scopre nel Trattato sulla ~ probabilità del '21, viene infatti E: passo passo inseguita da Zanini ed &:l identificata nel suo riemergere, più i:: o meno esplicito, nei successivi la- ~ vori di teoria economica. Anche .e ~ qui, analogamente. che per Napo- è:s

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