Alfabeta - anno VIII - n. 82 - marzo 1986

in costruzione. Ma il Banfi senatore e professore dell'ultimo periodo (quello del1' Uomo copernicano e di centinaia di articoli sulla stampa di partito) è solo il punto di arrivo di un lungo percorso tutt'altro che lineare. Per chi vuole avvicinare il suo pensiero è importante sapere che le posizioni filosofiche (oltre che politiche) degli anni Venti- a cui risale il suo capolavoro, i Principi di una teoria della ragione (1926) - erano assai differenti da quel punto di arrivo. Il «razionalismo trascendentale» di allora non esprimeva affatto - come il futuro marxismo «copernicano» - il punto di vista di un umanesimo trionfante, sicuro di risolvere con le forze della ragione tutti i problemi della storia. Traduceva piuttosto sul piano filosofico una profonda meditazione di natura religiosa sui limiti dell'esistenza e dell'azione umana di fronte all'assoluta trascendenza di Dio (in quegli anni Banfi simpatizzò e collaborò attivamente con il gruppo neocalvinista di «Conscientia», dedicando molti scritti alla problematica religiosa e specialmente alla nuova teologia protestante di Barth, Gogarten, Tillich ecc.). N on l'uomo, ma il Principio trascendentale era al centro di questa riflessione: una «libera Potenza creatrice» che noi possiamo_esperire solo negativamente, in quanto principio limitativo, dissolutivo di ogni pretesa del finito, che «muove e travaglia infaticabilmente, con la realtà, l'anima nostra». Il Trascendentale funge così da garanzia che nessuna realtà determinata, nessuna realizzazione o istituzione umana possa mai erigersi ad Assoluto, a incarnazione dell'Eterno nella storia. Questa ostilità verso ogni visione antropocentrica si ritrova anche su altri piani, come quello dell'esperienza naturale e della riflessione epistemologica. La ragione scientifica agisce infatti in modo «risolutivo» verso ogni immagine antropomorfica della realtà, a cominciare dai momenti intuitivi e qualitativi dell'esperienza. Non a caso il punto di aggancio di Banfi con la tradizione della filosofia italiana risale a Galileo. Da questo punto di vista anche la fenomenologia di Husserl- l'altro suo grande maestro - gli sembrava ancora troppo intuizionistica, legata a un residuo «visivo» troppo umano. Seguendo Cassirer più che Husserl, Banfi sviluppò una concezione funzionalista del sapere scientifico e la inserì nella teoria generale della ragione. Il profondo interesse di Banfi (anche nella sua opera maggiore) per l'esperienza religiosa, fa risaltare la radicalità della svolta che si produsse nel suo pensiero a partire dai primi anni Trenta (e che non va confusa con il suo marxismo e comunismo di un decennio più tardi). Di fatto Banfi rinunciò progressivamente al sublime distacco verso il reale che aveva formato il pathos della sua filosofia e insieme alla visione neoprotestante dell'Eterno come lievito e crisi del finito. Le ragioni di questo mutamento sono in parte ancora da chiarire, ma colpisce la correlazione tra il processo di razionalizzazione che investiva in quegli anni il nostro paese e l'atteggiamento realisticopragmatico e insieme ottimistico di certe pagine di Banfi: assolutaValorizzazione del reale, della metropoli capitalistica, e esigenza del suo superamento: Banfi cerca qui una propria difficile sintesi tra Simmel, Marx e Nietzsche, tra individualismo e collettivismo. L'esigenza di trovare una strada maestra verso la soluzione definitiva della crisi si scontra con le riserve, ancora valide, verso ogni concezione finalistica della storia. La tensione problematica che Banfi vive e che trasmette alla sua opera, in tutti i campi della vita culturale, sottolinea un'inquietudine diffusa, quasi l'altra faccia del razionalismo dominante. Banfi, che riesce a controllare questa inquietudine senza respingerla, diventa un punto di riferimento essenziale per un primo gruppo di allievi. ... Intanto l'abbandono del contra- •--~Quadrimestrale del Centro di Ricerca sulla Tradizione Manoscritta di Autori Contemporanei. Universitàdi Pavia Nel sesto numero: Intervista a Italo Calvino Una sceneggiatura inedita di Delio Tessa Il «Fondo S. Quasimodo» dell'Università di Pavia Saggi di Tomaso Kemeny, Giorgio Orelli, Silvana Tamiozzo Goldmann, Anna Modena In libreria a lire 8.000 Abbonamento per un anno (3 numeri) Lire 28.000 Inviare l'importo a Cooperativa Intrapresa Via Caposile 2, 20137Milano Conto Corrente Postale 15431208 mente tipico in questo senso l'abbozzo di un'opera mai compiuta, dedicata al tema della crisi, databile al 1934-35. La crisi storica dell'Europa, proprio dal fondo della sua negatività, gli sembrava contenere la promessa di una «trasvalutazione» radicale in positivo. A differenza di molti altri interpreti della modernità e della sua crisi (si pensi a Scheler e a Jaspers, oltre agli stessi teologi protestanti) Banfi guarda senza eccessiva preoccupazione alla realtà del mondo capitalista, ali'«americanismo», alla società razionalizzata e massificata. «C'è pure - esclama - qualcosa di assolutamente positivo in questo trasformarsi del mondo in ricchezza, in questa grande tecnica trionfante purché l'uomo vi dia un senso, una concretezza» (La crisi, Milano 1967). sto tra ideale e reale, tra l'Eterno e il !emporale, determina una radicalizzazione del suo pensiero in senso storicistico. Nasce la sua fenomenologia della cultura, una serie importante di saggi incentrati sul concetto di «riflessione pragmatica». Si trattava per Banfi di una nozione-chiave, che esprimeva l'emergere storico-pratico, il costituirsi e l'universalizzarsi progressivo della riflessione nelle varie forme culturali (morale, diritto, arte, ecc.). In aperta polemica con il neoidealismo italiano, per Banfi la filosofia non doveva ipostatizzare una nozione di Spirito né cercare di fissarne le eterne categorie. Doveva anzi evitare di porre domande essenzialistiche del tipo «cos'è l'arte?» (o la morale ecc.), per ricercare invece, nella storia della riflessione, l'articolarsi della problematica di ciascun campo: evidenziare la struttura del problema era per lui più importante che fornire risposte risolutive di tipo dogmatico e di valore sempre limitato. Q uesto degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta fu il periodo migliore e più fecondo della vita culturale di Banfi, non solo come filosofo-pensatore, ma anche come educatore. Il frutto di un decennio di lavoro fu la formazione di una scuola capace di aprirsi alla grande cultura filosofica europea senza lasciarsene travolgere,. senza cioè perdere la capacità di elaborazione autonoma. Proprio l'apertura culturale verso l'esterno e l'accettazione, all'interno, di un pluralismo di posizioni, consentirono la nascita di una rivista così originale e così poco accademica come Studi filosofici. A partire dal 1940 questa rivista, frutto del lavoro comune di Banfi e dei suoi primi allievi (Giovanni Maria Bertin, Remo Cantoni, Enzo Paci, Giulio Preti, a cui si aggiunsero Luciano Anceschi, Dino Formaggio, Luigi Rognoni, Miro Martini ecc.), divenne il terreno di una concorde discordia, che garantiva «l'unità di un lavoro comune e, insieme, l'autonomia delle singole voci» (Ga-· rin). E proprio perché non volle essere l'espressione di un sistema particolare, Studi Filosofici riuscì a contenere e a rapportare.tra loro, in vista della struttura problematica posta da Banfi, le personalità e le correnti culturali più contrastanti (dagli interessi neopositivistici di Preti all'esistenzialismo di Paci, per indicare solo due degli estremi), fino a diventare un punto di riferimento per una parte importante della cultura italiana impegnata in un difficile momento di svolta (trai collaboratori furono N. Abbagnano, G. Della Volpe, G. Calogero, L. Geymonat, L. Pareyson, M.M. Rossi, oltre al vecchio Martinetti. Tra gli stranieri, N. Hartmann nell'anteguerra e nel dopoguerra G. Lukacs). Ma come è noto questa tensione e questo pluralismo 'di posizioni non potè sopravvivere a lungo nel secondo dopoguerra. Banfi stesso aveva fatto una scelta ben determinata, rinunciando almeno su un certo piano a quel «problematicismo» che aveva caratterizzato la sua filosofia della cultura, ma che ora gli appariva incapace di sostenere efficacemente le decisioni storiche più impegnative. Il comunismo, ai suoi occhi, aveva avviato in modo definitivo a soluzione la crisi secolare dell'umanità; il marxismo ne dava la conferma con la sua attitudine a comprendere e a unificare tutte le culture del mondo, dall'Europa alla Cina. E benché il suo personale punto di vista filosofico-epistemologico rimanesse del tutto inconciliabile con ilmaterialismo ufficiale, Banfi pagò i suoi tributi allo spirito dell'ideologia. Per lui negli anni Trenta (anni non a caso di rilettura nietzscheana) Dio era morto definitivamente. Nel vuoto che si era prodotto l'uomo «copernicano», benché fosse rotolato fuori dal centro, non trovava più limiti al proprio attivismo febbrile, né nell'ambito della conoscenza né in quello della costruzione storica. Di qui quel tono celebrativo, quelle certezze troppo esibite che caratterizzano molti suoi scritti dell'ultimo periodo; un prometeismo trionfante che determinò fin dall'immediato dopoguerra le prime divergenze,anche all'interno della scuola. La politica culturale dell'età staliniana e la disciplina di partito, cui Banfi non volle sottrarsi, fecero il resto. Con la chiusura di Studi filosofici e la dispersione della scuola si chiudeva anche quell'incontro tra la filosofia e la politica che tutti auspicavano, ma che alla prova dei fatti si stava trasformando (un po' ovunque in Europa) in reciproca estraneità. Nota bibliografica La bibliografia su A. Banfi, già piuttosto vasta (cfr. R. Salemi, Bibliografia banfiana, Parma, Pratiche Ed., 1982), si sta arricchendo di anno in anno. Vengono riportati qui solo alcuni dei lavori apparsi dopo la pubblicazione dell'opera citata. A. Bellingreri, Filosofia e ideologia. IL «destino» teoretico di Antonio Banfi, Milano, Cusl, 1982. F. Cambi, Razionalismo e prassi a Milano (1945-1954), Milano, Cisalpino-Goliardica, 1983. E. Garin, «Antonio Banfi educatore» in Critica marxista, n. 6, 1983. M. Dal Pra, D. Formaggio, P. Rossi, Antonio Banfi (1886-1957), Milano, Unicopli, 1984. G.D. Neri, Crisi e costruzione della storia. Sviluppi del pensiero di A. Banfi, Verona, Libreria Editrice Universitaria, 1984. G. Scaramuzza, Antonio Banfi, la ragione e l'estetico, Padova, Cleup, 1984. L. Sichirollo, Morale e morali, Roma, Editori Riuniti, 1985. V. Eletti, li problema della persona in A. Banfi, Firenze, La Nuova Italia, 1985. È annunciato, per il 1986,l'inizio della pubblicazione dell'opera omnia di A. Banfi, a cura dell'Istituto A. Banfi di Reggio Emilia. Sulla rivista Fenomenologia e scienze dell'uomo (n. 3, 1986)è prevista la pubblicazione degli interventi al convegno di Varese (1985) su A. Banfi e la sua scuola. Dalcerto 10,ovi probabile ~ (;:! .s John M. Keynes A Treatise on Probability «The Collected Writings of John Maynard Keynes». voi. VIII London, Macmillan for the Royal Economie Society, 1973 pp. 514, s.i.p. ~ Claudio Napoleoni Discorso sull'economia politica Torino, Boringhieri, 1985 pp. 146, lire 18.000 Adelino Zanini òcl Keynes: una provocazione ~ metodologica ~ introduzione di Siro Lombardini ~ l Verona, Bertani, 1985 ~ pp. 199, lire 14.000 N egli anni '20 e '30, a Londra, si compiva ad opera di Robbins l'incorporazione della teoria economica neoclassica, propria della tradizione continentale, nei presupposti epistemologici della scienza economica. In quegli stessi anni, nella poco lontana Cambridge, Sraffa e Keynes cercavano invece il modo di «evadere» (per usare l'espressione di Keynes) da un paradigma i cui presupposti non apparivano sufficientemente giustificati. Se questo fu l'intento che i due economisti ebbero in comune, profondamente differenti saranno nei due casi le modalità di attuazione e gli esiti di questo programma. Dalle «carte» di Keynes, finalmente tutte pubblicate, si sa che i due si incontravano, e che tra loro vi era molta stima, come testimonia anche Harrod, biografo di Keynes. Sebbene dunque le occasioni non mancassero, nessuno dei due riuscì mai a trasmettere all'altro l'interesse che metteva nella propria prospettiva di ricerca. Questa notazione non avrebbe alcun altro interesse che quello biografico, se non fosse che i recenti lavori di Napoleoni (su Sraffa) e di Vicarelli e Zanini (su Keynes) - per quanto animati da propositi specificitra loro molto diversi - ci permettono oggi di capire meglio la radice di questa «storica» indifferenza e di questa radicale intraducibilità di linguaggi economici che pur erano mossi da un'istanza comune: rifondare una teoria economica esente dalle incoerenze e dagli errori delle sue due versioni tradizionali, classica (Smith, Ricardo, Marx) e neoclassica (Walras, Pareto). Impostando in termini così generali il problema, sono perfettamente consapevole che non sarà in questa occasione possibile rendere giustizia alla complessità argomentativa del Discorso di Napoleoni la _cui originalità (ma bisognerebbe parlare anche del suo «fascino discreto» perché la sua lucidità diventa qui anche stile retorico) consiste nel ricostruire una genealogia critica delle dottrine economiche attraverso la lente d'ingrandimento di Produzione di merci a mezzo di merci. In questa sede, del discorso di Napoleoni interessa riprendere la tesi centrale: il modello di Sraffa dà la pura e semplice «contabilità» del sistem·a capitalistico e dell'entità della sua crescita (della formazione del «sovrappiù») ma esso è «neutrale» (non fornisce alcuna spiegazione) rispetto alla questione dell'origine di tale eccedenza, cioè ad una questione economica fondamentale se è vero, come Napoleoni sostiene, çhe «tutta la storia del pensiero economico può ess.ere interpretata come la storia delle risposte diverse che sono state date a tale dòmanda» (p. 18). Questa assenza di un criterio per spiegare anche il modo in cui avviene la crescita, colloca Sraffa

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