Alfabeta - anno VIII - n. 82 - marzo 1986

Sullafin·edellàstoria G. Bataille, A. Kojève, J. Wahl, E. Weil, R. Queneau Sulla fine della storia a cura di M. Ciampa e F. Di Stefano Napoli, Liguori, 1985 pp. 165, lird3.000 Ernst Jiinger La mobilitazione totale a cura di C. Galli in il Mulino n. 5, 1985 Atti del convegno su Jiinger tenuto al Goethe Institut di Roma 14-16marzo 1983 Milano, Shakespeare & Company, 1986 Vespere - Figure del tempo alla fine della storia in Peripezie, n. 3, 1983 I Nel Tailpiece or The Bathos di William Hogarth - e meglio conosciuto come Il testamento del tempo, o La fine di tutte le cose, come lo titola Georg Christoph Lichtenberg nella sua Spiegazione completa dei disegni di Hogath - si susseguono in bella mostra le Imprese del Tempo. Esso, secondo la puntigliosa rubrica di Hans Sedlmayr (La morte del tempo, in Il simbolismo del tempo, a cura di Enrico Castelli), «manda in rovina, rompe, spacca, demolisce, sbaraglia, fracassa, distrugge; consuma, logora, scuote, fa precipitare, trascorrere, morire, finire». A questo alludono gli emblemi disseminati nel quadro: una corona infranta, una campana incrinata, una bottiglia forata; e ancora; una meridiana senza asta, un'osteria in rovina, un patibolo sradicato. Ma tutto ciò non costituisce che lo sfondo, la «cornice», del quadro, occupato dalla figura reclinata del protagonista: il Tempo, egli stesso morente. Ogni cosa muore, distrutta, finita, dal Tempo. Ma-è l'«argutezza» barocca del dipinto - «anche la falce di Crono è rotta; rotto è l'astuccio della clessidra, e la sabbia si è sparsa; la pipa si sta spezzando nella sua mano sinistra. Il Tempo stesso muore, finisce». In basso, d'altra parte, ai piedi di Crono, la fiamma di una candela ancora accesa ha intaccato una pagina sulla quale appare incisa la parola The Times: la Storia brucerà ogni cosa fin quando le fiamme bruceranno a loro volta la Storia. Questo tema della «fine della storia» circola, con ben più radicalità di altre «fini» reali o presunte, nella grande cultura europea primonovecentesca. Il primo a parlare di Post-Histoire è probabilmente lo storico Cournot nel 1861, seguito nel 1901dal suo allievo Bouglé: ma in entrambi il termine è usato, e come neutralizzato, in riferimento al raggiungimento dei propri obiettivi da parte della società borghese. Perché l'espressione si scarichi di qualsiasi semantica «progressiva» e acquisti quella pregnanza sintomatica che le compete -. bisogna aspettare da un lato il ~ «fuoco di pensiero» che si accende .:; intorno al grande Commento hege- ~ liano,di Kojève, dall'altro il metallico dibattito che intorno al senso ~ -. della tecnica raccoglie le voci di Gehlen, Benn, Schmitt, Heidegger e soprattutto Jiinger. [;èl 2 Documento prezioso e • :! suggestivo del primo ~ e «fronte» - quello francese l -è adesso il volume egregiamente ~ curato da Maurizio Ciampa e Fa- • brizio Di Stefano, appunto intitolato La fine della storia, comprendente scritti di A. Kojève, G. Bataille, R. Queneau, J. Wahl e E. Weil. Molto si potrebbe, e si dovrebbe, dire di questi scritti; dell'aroma d'epoca- con grande finezza espressiva rievocato da Ciampa nella sua intensa postfazione - che emana ogni loro pagina: ma anche, e soprattutto, del rigore intellettuale, dell'arduo esercizio filosofico che essi contengono e, si direbbe, custodiscono. Ma per restare al tema prescelto, basti riferirsi, secondo l'utile percorso interpretativo tracciato dai curatori, al confronto tra Kojève e Bataille. Quello che è in discussione è la declinazione attribuita al tema della «fine», non certo la radicalità con cui è pensato. Già la prima formulazione di Kojève è infatti di una nettezza abbagliante: «Nulla cambia più nello stato universale ed omogeneo. Non c'è più Storia, il futuro è un passato che è già stato,· la vita dunque è puramente biologica. Quindi non c'è più uomo propriamente detto. L'umano (lo Spirito), dopo la fine conclusiva delRoberto Esposito imperialistica contro l'Altro da sé: non adesso che la Storia è esaurita. O meglio: compiuta. Altra la via di Bataille; altro, soprattutto, l'accento che conferisce al suo testo vibrazioni sconosciute ali' «equilibrio assoluto» di Kojève. Non che s'attenui il senso della fine; l'impressione - prodott~ dalla consumazione dell'improduttivo a favore dell'utile sociale, e dunque dall'esaurimento del principio di differenziazione - «che nulla di nuovo avrà ormai luogo». Ma non si tratta della stessa «fine» di Kojève. Mentre questa arrivava con i caratteri di una conclusione a chiudere un processo consecutivo, quella di Batai1le rìmanda non già ad una successione cronologica, quanto ad uno spostamento «topologico». Ad una condizione, precisamente, che è fine pur non arrivando alla fine; chetaglia diagonalmente l'intero processo: realizzando di volta in volta, e proprio in quanto fine, anche un nuovo inizio. È per questo che, per Bataille, «la sola compiutezza possibile della conoscenza ha luogo se io affermo dell'esistenza umana l'uomo storico, si è rifugiato nel Li- che essa è un inizio che non sarà bro. Perciò quest'ultimo è non più il Tempo, ma l'Eternità». Nel Libro - è un argomento tematizzato da Luigi Franco nell'ultimo numero (13/~4) de il Centauro - l'intero corso storico si congela in un destino di assoluto riposo.Fuori da esso, ai suoi margini esterni, gli uomini post-storici vagano alla rimai compiuto». Senza poterci soffermare sul senso di queste espressioni - che non segnano un allontanamento da Hegel, come potrebbe superficialmente apparire, ma la sostituzione di un Hegel con un altro (degli infiniti) Hegel - è chiaro come questa fine-inizio alluda all'accezione licerca della propria radice animale. minare che Bataille conferisce àl Ma al suo interno il Logos si acquieta in una figura di compimento. La storia - e perciò anche la filosofia che la interroga e la interpreta - ha raggiunto il suo culmine discorsivo e può finalmente finire. Nessuna malinconia «commuové» il ragionamento di Kojève, nessuno strappo lacera la levigata compostezza del suo «classico» momento del negativo: negativo assoluto proprio nella misura in cui da esso sporge una pulsione ad un superamento tutta~ia impronunciabile in quanto tale. Un «oltre» - per passare anche linguisticamente al secondo fronte, tedesco, della «fine» - che è anche un «tra». E viceversa. dettato. Tragedia, semmai, si dava 3 prima, quando la Storia ancora co- , . . stringeva il Senso ad una guerra . e L'allusione è, ovviamente, all'Uber die Linie jiingeriano. Di Junger - un autore già «riscoperto», ma ancora non adeguatamente valutato- esce adesso, esemplarmente curato e introdotto da Carlo Galli (nel numero 5, 1985, de il Mulino, che comprende anche un altro interessante contributo jiingeriano di Masini), La mobilitazione totale, mentre vengono contemporaneamente pubblicati gliAtti del convegno jiingeriano di Roma. Anche qui - a prescindere dall'ovvia distanza categoriale e semantica che separa Jiinger dall'intero contesto francese - molte sarebbero le cose da dire circa le numerose e significative varianti testuali ricostruite col solito rigore da Galli. Su un punto, comunque, almeno va fermata l'attenzic.me: e cioè sul rapporto che lega il tema della finis Historiae al nucleo simbolico-concettuale del trans lineam. Come è noto, e ricostruito nell'articolo, presente nel volume citato, di Dietmar Kamper (che contiene peraltro anche un riferimento a Kojève), il libro jiingeriano che più di ogni altro affronta l'arduo tema della «fine» è An der Zeitmauer. In esso risuona più netta che altrove la convinzione che «al pari di Erodoto noi oggi ci troviamo forse ad una svolta. Gli avvenimenti che viviamo hanno cessato di essere connessi fra loro nel modo che siamo abituati a chiamare storico, per far parte di relazioni per le quali ancora non abbiamo creato un nome» (pp. 37-8 dell'edizione Volpe 1965). Ora ciò che va rilevato è che, in sintomatica simmetria trasversale con le eterologie batailliane, già nella Mobilitazione il passaggio d'epoca oltre l'ideologia borghese è declinato da Jiinger non in termini di «progresso» (come appunto dall'ideologia superata), bensì di «sfondamento topologico»: è questo - come osserva Galli - che spezza la circolarità delle epoche in un'innominabile, eppure già operante, fuoriuscita dal circolo storico. Da qui il rimando al problema di Uber die Linie. Ciò che qui ritorna e s'intensifica - come è spiegato nell'importante contributo di Cacciari al volume jiingeriano (ma va visto in proposito il saggio di Alberto Boatto, Al centro del ciclone, ora incluso nel numero 5/1981 di Tabula, che costituisce forse il più fine lavoro italiano su Jiinger)- è l'idea che «il compimento del nichilismo (... ) potrebbe essere definito come inizio della Endphase, ma mai, immediatamente, come sua fine»: vale a dire che il «superamento» del nichilismo non va inteso come suo «oltrepassamento» (inevitabilmente storicistico) ma come suo abissale approfondimento. Perché tale interdetto all'oltrepassamento venga definitivamente formulato è necessario attendere Heidegger. Ma esso già implicitamente risuona nel «mondo di ghiaccio» di Jiinger. 4 · Un ultimo richiamo, per finire. Lo traggo dal Libro e d'ore di Rilke, cui è dedicato un saggio di Alberto Rollo compreso nel numero della rivista Peripezie intitolato Vespere. Figure del tempo alla fine della storia. Anche da esso sale un «canto di fine». Anche qui il Tempo appare «prosciugato, assente, finito». Non ritorna e non cresce. Sta, immobile, a siglare l'assenza, l'impossibilità di esperienza nella vita metropolitana. Ma non è questo che, pur nell'invalicabile iato linguistico e concettuale, riannoda i versi di Rilke alle glaciali geometrie di Jiinger e alle frenetiche pulsioni di Bataille. Al primo, sul piano delle analogie esterne, lo lega la figura del «povero», che prende il posto dell'«operaio» e poi dell'«anarca» jiingeriano; al secondo il carattere di <~improduttività», di «inutilità», che salva il povero dall'entropia metropolitana. Ma neanche qui sta il vero nodo. Esso piuttosto riguarda la «forza di redenzione» espressa dal- !' esaurimento della storicità. Non si tratta - si badi - di uno scoppio di luce, di una catastrofe palingenetica. Al contrario, di «una povertà da cui non si sprigiona nessuna luce, perché confitta nel tutto-presente del Moderno. E ' tuttavia, proprio in quanto grimace, status nevrotico, essa è la depositaria di una guarigione o meglio di una possibilità di salto, di balzo verso il sé immiserito». • Ciò - come emerge anche dal saggio di Vittorio Mathieu sulla Simbolica del tempo in Rilke compreso in Simbolismo del- tempo («Archivio di filosofia» Cedam, Padova 1973)- implica due conseguenze incatenate: da un lato che il tempo (moderno) può salvarsi solo dissolvendosi, finendo; dall'altro che proprio dal fondo di tale fine risale una nota irriducibilmente affermativa che unifica simbolicamente l'accadimento all'eterno: «Dio, come capisco la tua ora in cui, affinché si arrotondasse nello spazio, lanciasti innanzi a te la voce: il nulla era per te una ferita, perciò la lenisti col.mondo. - Ora, essa va guarendo quietamente sotto di noi. Infatti i tempi trascorsi hanno bevuto le molte febbri dal malato: noi sentiamo già, in un dolce oscillare, il polso tranquillo del fondo».

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