accetti di misurarsi in quell'ambito di esperienze aeree, trovando così un primo terreno d'intesa con lo scienziato. Ma c'è di mezzo ben altro, dato che, in fondo, il campo delle escursioni aeree appartiene ancora a una dimensione fisica corpulenta, a un ingenuo futurismo anni Venti o Trenta. Il giovane fisico sta lavorando, ai confini tra la Svizzera e la Francia, in un gigantesco laboratorio sotterraneo, costituito da un «anello» di qualche decina di chilometri che serve all'accelerazione delle particelle subatomiche, nella speranza che queste, lungo la loro rotta pazza e sfrenata, si urtino, si spezzino, diano luogo ad apparizioni sempre più metafisiche, sempre più lontane dalla nostra sensibilità rudimentale, dal rozzo apparato dei cinque sensi. Brahe, benché zelante sacerdote di questi misteri cosmici, non ne saprebbe ricavare, tuttavia, i significati morali, se appunto non gli sorgesse accanto la presenza più scaltrita del romanziere, pronto ad assumere il ruolo di un Virgilio sapienziale, o più semplicemente di un Padre, o di un Dedalo prudente e circospetto, d'altronde ben convinto che è ormai l'ora di varcare certe soglie. Infatti, come romanziere, Ira Epstein è in piena crisi, colto dal sospetto che le parole non siano più sufficienti a inseguire gli oggetti, le sensazioni, o che, prima ancora, gli uni e le altre debbano subire, appunto, un prolungamento. Dalla materia all'energia, questo il tema che solca le conversazioni tra il Padre e il Figlio, evidentemente in pronta connessione con la nostra civiltà «tecnettronica», aperta da Einstein (del resto, quasi un omonimo del narratore Epstein). E sarebbe di sicuro un terreno minato, un puro enunciato teorico, se non ci fosse, da parte di Del Giudice, un effettivo sforzo, laborioso, tenace, a estendere, a diramare i nostri sensi comuni, a renderli degni dei novissimi traguardi aperti dalla fisica subnucleare, o più semplicemente dalla coscienza, tipica della teoria della relatività, che tutto è destinato a convertirsi in energia, ovvero in luce. La luce come traguardo ultimo delle buone «cose» familiari, degli oggetti di esperienza. Tanto che almeno in un punto i nostri due interlocutori hanno la coscienza che il titolo giusto alle loro dotte dispute sarebbe stato Atlante della luce; e proprio non si capisce perché all'autore sia scappato quell'aggettivo abbastanza insulso, occidentale, a definire un corpo di esperienze da considerarsi ormai decisamente planetarie. Ma, conviene ripeterlo, la forza e la validità di questo delicato tessuto narrativo sta nel riuscire a convertire le verità fisiche e metafisiche in buone, concrete esperienze accessibili ai sensi, seppure sollecitati oltremodo ad affinarsi: come aveva cercato di fare appunto la poesia «paradisiaca» dantesca. C'è perfino il ricorso al pulviscolo dell'aria, evidenziata dalla luce solare che filtra attraverso le tapparelle, e che fornisce quindi un giusto «correlativo oggettivo» alle particelle minime che forse vibrano e danzano laggiù, nel condotto sotterraneo. E c'è perfino il coraggio di of0 frirci la pirotecnia, nell'accezione letterale e in quella metaforica, di lr) uno spettacolo di fuochi artificiali, ~ .:; dove Del Giudice si sposta, dall'eg:> sempio dantesco, verso i canoni u- ~ gualmente ardui e virtuosistici di ~ una prosa barocca, benché debita- ..., mente tenuta sul freddo, anzi sul .si ~ gelido. E non si può tacere di un ;2 altro felice «correlativo oggetti- ~ vo», fornito da una visita turistica ~ al Castello di Ferney-Voltaire, che ~ è anche una delle poche occasioni ~ in cui il giovane protagonista appa- g re affiancato da una presenza fem- ~ minile, in un testo altrimenti asessuato, come conviene alla chiave generale assunta, paradisiaca e smaterializzata. Ai due visitatori il Castello appare svuotato di ogni arredo e mobilio. I corpi c'erano, un tempo, ora ne restano le tracce, le ombre, anzi, i «bianchi», registrati sulle pareti, e preservati grazie all'opportuna decisione di tenere nel buio la lunga sequenza di stanze. Come si vede, il sottile, impalpabile, sfuggente lavorio delle particelle, o l'immateriale trama dei concetti matematici, riescono a trovare degli equivalenti capaci di «apparire» ai nostri sensi, di farsi fenomeni. L'indubbia abilità del narratore nell'operare questa conversione giustifica il finale dell'opera, dove è detto che «l'importante (della storia) non era scriverla, l'importante era provarne un sentimento», anche se, aggiungiamo noi, la «storia» è rimasta a uno stadio elementare, di scarno intrecCelestino Lometto, rotto a ogni perversità, destinato appunto a occupare ogni girone infernale. Per fortuna non c'è alcun «tradimento» da parte del «chierico» protagonista, cioè dell'intellettuale Angelo Bazarovi: egli svolge benissimo il ruolo di lucido testimone delle follie altrui, si erge a profondo difensore dei diritti dell'umanità nuda e indifesa, della vita e della libertà, evitando su questa strada la trappola peggiore, cioè l'esibizione di una virtù gelida e schifiltosa. Il nostro Angelo Bazarovi capisce molto bene che, se deve esercitare il suo difficile ministero «in partibus infidelium», gli conviene assumere i loro abiti, presentarsi come uno di loro, sedere «in taberna», ostentando le medesime macchie e vizi e tendenze alla crapula. A questo modo nessuna delle bolge infernali gli è preclusa. E così pure, per quanto riguarda il sesso, converrà non certo ostentare la rivede, si può osare di più, nel suo caso; e vale anche un riferimento laterale al protagonista di Rimini di Tondelli, l'altro intellettuale sufficientemente degradato Marco Bauer. Fatto sta che la degradazione delle «coscienze», dei «punti di vista» consente il pieno, forte risalto dei dannati, portandoli quasi a un passo dall'assoluzione, se non altro in nome della prorompente, sanguigna vitalità che li contraddistingue. Di certo da tempo nella narrativa italiana non compariva un essere tutto istinto, appetito, voglia di arrivare, quale il Celestino Lometto che di Angelo è la controparte, l'altra faccia dialettica, la sentina di tutti i possibili vizi e difetti, una macchina inesauribile di invenzioni sulla via del male, della frode, dell'intrigo. Vizi, sia ben chiaro, che il Lometto persegue con perfetta grinta moderna, anzi, postmoderna. Questa un'altra trappola evitata Autoritratto, 1940circa. Olio su cartone,83x72 cio, sviluppata soltanto «quanto basta», come si direbbe in certe ricette farmaceutiche, giusto per veicolare la trama, esatta e esauriente, dei nuovi sentimenti. S e Del Giudice è «paradisiaco», riesce utile affermare, con simmetria inversa, che Busi è «infernale», sempre nell'accezione dantesca del termine, come già era annunciato nel precedente Seminario della gioventù, e ottimamente confermato ora nella Vita standard di un venditore provvisorio di collant. Anzi, nel suo caso non c'è alcun Virgilio, alcun Padre, a sorreggere con qualche prudenza e saggezza un povero Dante dei nostri giorni, vale a dire un giovane laureato in lingue, disoccupato, con qualche velleità letteraria, che cade facile preda di un vitalrssimo, mostruoso concentrato di ogni vizio, offerto dalla persona di un industrialotto mantovano, nuncia, la castità, ma al contrario assumere il ruolo più squalificato e pruriginoso, cioè una smaccata professione di omosessualità; anche se, in sostanza, Angelo è come il Tiresia eliotiano, cioè una crea- .tura asessuata, che però si sforza di partecipare, di compatire, di vivere dall'interno, e cominciando appunto dal mondo dell'omosessualità, in quanto esso appare il più facilmente condannabile, il più «infernale». L'abilità di questo «angelo», di questo «chierico» nel nascondere il disgusto, anzi, nel mutarlo in simpatia, in compassione verso i dannati ne fa un degno continuatore di predecessori illustri: si pensa a Céline, eterno «medico dei poveri», o al gaddiano Commissario Ingravallo... Una 'volta tanto, il risvolto di copertina che accompagna il nuovo romanzo di Busi è perfino limitativo, quando accenna a una linea Bianciardi-Mastronardi: come si opportunamente da Busi; infatti gli inferni si prestano assai di frequen.., te agli strumenti diagnostici del naturalismo e dei suoi derivati: è facile piangere sui guasti irreparabili provocati dalla Natura, coi suoi istinti bestiali, tanto più se a questa si aggiungono la Società, il Sistema, la Borghesia, altre entità oscure, ferree, implacabili. Al contrario, Lometto è un piccolo borghese, un campione del «sommerso», pronto a muoversi negli interstizi della società del benessere, desiderosa di prodotti di moda (i collant, i jeans), di tranquillanti, di immagini affluenti e promozionali, capaci di alludere a un qualche grado di benessere. O in altre parole, il mondo «basso» degli istinti, delle lotte, dei soprusi, nell'universo di Busi si esprime «alla pari», all'altezza delle opportunità concesse dallo sviluppo tecnologico. Non è un mondo beota di regressione, di ignoranza, di bestialità. L'intelligenza, l'informazione, un certo grado di cultura lo solcano, lo intridono, consentendo così a Busi di usare un linguaggio sempre ad alta tensione, anche quando si limita ad essere mimetico e icastico. Ma appunto, Lometto e i suoi simili sono pieni di tic ormai sapienti e coltivati, estratti dall'inevitabile frequentazione dei mass media. E soprattutto, la molla della crescita sociale si è impadronita di loro, li fa mirare a mete che hanno qualcosa di grandioso, di epico, di folle, al punto da riscuotere l'ammirazione dell'intellettuale, magari contro voglia. Basti ricordare che i tre figli di Lometto, e della sua degna coniuge Edda, coltivano una pratica necrofila, quella di imbalsamare ogni animale che cada sotto i loro artigli, non arrestandosi neppure di fronte all'animale-uomo (o almeno così sospetta Angelo). Ma la mossa più grandiosa, più «promozionale», riguarda Edda, personaggio altrimenti umile e sottomesso, che a un tratto, pur in tarda età, vuole fortemente un quarto figlio, e lo vuole cittadino degli Usa, nella non troppo recondita speranza di farne un futuro presidente di quel paese. L'avaro, avido Lometto, che ruba sul salario delle dipendenti o sulle tariffe delle transazioni commerciali, è disposto a bruciare parecchi milioni per assecondare una similefollia. La donna andrà a partorire a New York, accompagnata da Angelo, nella sua veste di intellettuale-interprete. Ma la beffa più atroce attende al varco l'ansia di ascesa sociale dei nostri piccolo-borghesi, in quanto non nascerà un futuro Giorgio Washington, e neppure una Giorgina (come già scherzosamente la chiamava Angelo), bensì una mongoloide, un prodotto sbagliato, da cancellare al più presto. E infatti dalla Bassa mantovana giunge il perentorio ordine di sopprimerla, appoggiato a una congrua erogazione di milioni supplementari. Ma il «chierico» Angelo tenta qui di difendere la vita allo stato puro, impedisce l'infanticidio, obbliga la madre a riportare in patria la povera creatura sana e salva. Difesa vana, disarmata, sconfitta e superata a corto raggio, addirittura col sospetto che i genitori abbiano affi- . dato ai figli il compito di sbarazzarsi della scomoda sorellina, mediante un gratificante processo di imbalsamazione. Al nostro sacerdote laico non resta che recuperare, da un brefotrofio, la figliadi una delle tante vittime della malvagità allo stato puro di Lometto. Come si può constatare, esistono esatti spunti «mitici», motivi di trama, che d'altronde sorreggono uno smisurato tessuto linguistico, sempre felice, sempre degno di un'eredità colta dal «medico dei poveri» Céline, e da un Gadda ormai definitivamente «ingegnere», costretto cioè a misurarsi con un impasto sempre più stretto di natura e di tecnologia. Daniele Del Giudice Atlante occidentale Torino, Einaudi, 1985 pp. 152, lire 16.000 Aldo Busi Vita standard di un venditore provvisorio di collant Milano, Mondadori, 1985 pp. 471, lire 20.000 Sul tema della nuova narrativa abbiamo pubblicato- uno scritto di Mario Spinella (Squassabia, Piemontese, Lanza) nel n. 79 (dicembre 1985), e un precedente articolo di Renato Bari/li (Celati, Tabucchi, Tondelli) nel n. 78 (novembre 1985).
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