PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDI Unpostonella I eratura 2. Luigi Meneghello Maria Corti N el numero 73 (giugno 1985) di.Alfabeta si è avviata questa rubrica al fine di portare il lettore a riflettere con noi su quell'insieme di problemi e domande che .si legano al processo complicato della vita di un'opera letteraria, morte, resurrezione, nuova scomparsa dalla memoria collettiva e quindi dalla letteratura. L'intenzione, ovviamente, non era e non è quella di affrontare una questione teorica o socioculturale, ma di offrire una sorta di tipologia della dimenticanza, che è poi l'aspetto più malinconico di una tipologia della decodifica da parte del pubblico. Nel numero 1 di questa rubrica esempio e oggetto di riflessione è stata la scrittrice americana Djuna Barnes la cui opera, giudicata in modo eccezionalmente positivo da grandi scrittori e critici tanti anni fa e amata da lettori raffinati, non ha in effetti oggi il posto ad essa pertinente nella letteratura né la dovuta notorietà fra i lettori. In questo numero 2 della rubrica si vuole restare a casa nostra e richiamare l'attenzione sullo scrittore veneto Luigi Meneghello, che si rivelò per la prima volta al pubblico nel 1963 con la stampa presso Feltrinelli di un felicissimo romanzo, Libera nos a malo, il cui titolo è già tutto un programma nell'uso ludico del vocabo,Iopolisemico malo, segno verbale riferibile a una formula liturgica e insieme segno geografico riferibile alla provincia di Vicenza: Malo è appunto un paese ·nei pressi di Thiene. Il libro aveva un tale forza urto in sé da vari punti di vista tematici e forma-• li, un così lucido impasto lingua-dialetto che la critica ne riconobbe subito l'originalità e l'importanza, anche se la posizione sociale di Meneghello, professore universitario e per di più all'estero (in Inghilterra, all'Università di Reading) lo fece ritenere una sorta di bravo outsider. Sì, perché più o meno consciamente in Italia se un accademico passa a cose creative, da un versante e dall'altro sorge la domanda: «Ma questo cosa vuole?». In Libera nos a malo Meneghello scrive: «Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto». I due strati in bocca ai bambini dialettofoni di Malo, paese fedele alla pia anima del Veneto, sono sorgenti alternative di illuminazioni e· di stupenda comicità. Qualche volta;è ben noto, il riso è un battesimo dell'Equatore. Si era nel fatidico 1963: la cultura italiana presentava in quel momento una struttura antinomica: da un lato il Gruppo 63, che aveva .s già nella sigla una funzione segnica ~ oppositiva, dall'altro gli scrittori ~ non d'avanguardia e in più, ben si ~ ricorderà, un rovinoso assieme di ~ romanzi di consumo, libri cellofa- .9 l: nati dalle copertine mercenarie, ~ che fecero parlare per quegli anni ~ di boom dell'industria editoriale. Non era certo un momento favores:: vole per uno scrittore sottile, ironico, solitario. E qui c'è un altro fatto ~ da tener presente anche da un punto di vista più generale: se uno scrittore con il suo testo non appartiene a un gruppo o a un riconosciuto movimento che di per sé faccia parlare, anche a livello di manuali e di storie della letteratura, avr'à senza dubbio vita molto più difficile e non troverà che col tempo, magari molto tempo; il posto che gli spetta. Un anno dopo, nel 1964, Meneghello pubblicò I piccoli maestri, libro dalla forte carica intellettuacapitava di domandarsi cosa avrebbero dovuto mai fare per diventare dei veri soldati. Agli antipodi dalla tensione epica di Fenoglio, Meneghello guarda la realtà con un senso mirabile e sottile del ridicolo, dove certo prende quota anche la componente anglosassone della cultura di Meneghello. E qui si può fare un'altra osservazione di carattere generale: il gusto dell'ironia e dell'umorismo non è molto di casa nel nodus umonstico, l'ironia, la trasgressione fantastica ci sono, ma relegati un po' ai margini. Per pura informazione del lettore si ricordano le altre due opere di Meneghello: Pomo pero nella sfera di Libera nos a malo, per così dire, e Fiori italiani, l'ultimo suo libro del 1976. Auguriamoci una prossima edizione di tutte le opere, almeno nei tascabili. Nel 1983, quando Meneghello concluse l'insegnamento a Reading, uscì in suo onore presso le edizioni di ComuLa rivoluzionespagnola, 1936. Olio su tela, 173x110 (collezione P. Accetti) le, che fu individuato e capito da ben pochi critici, recensito freddamente da una penna illustre del Corriere della sera. Come mai? Va premesso che, letto superficialmente e soltanto qua e là, come talvolta accade ai lettori professionisti, il libro può essere parso un epigono del neorealismo, data la tematica resistenziale. Come, ancora un libro nel 1964sulla guerra e la Resistenza? Una delle novità, invece, di questo libro sta nel distacco intellettuale e nello spirito ironico con cui sono esaminate le vicende di quegli anni da alcuni giovanissimi intellettuali, passati dalla problematica crociana della cultura storica negli studi universitari al corso di allievi ufficiali, con la sua.precisa distribuzione di compiti, alla guerra e alla Resistenza, col suo cumulo ridondante e a volte grottesco di compiti, sicché ad essi stro paese, e non solo in letteratura. Non sarà proprio questo sottrarsi di Meneghello alla nostra aria locale e farci dono di un punto di vista che con sapienza oscilla fra la razionalità condita di ironia e l'u- ..morismo, non sarà questa assoluta mancanza di pathos retorico a suscitare sospetto nei lettori? Anni fa chi scrive qui notò il fenomeno recensendo uno dei libri più satirici di Sebastiano Vassalli, L'arrivo della lozione, e dei più originali, preso dalla critica come un testo quasi goliardico. Non si dimentichi che Vassalli in fondo è stato riconosciuto dai più quando ha abbandonato la sua bella vena satirica. La cosa dà da riflettere: in Italia non sempre, ma spesso, si oscilla fra l'individualistico, il patetico, il neoromantico da un lato e il razionalistico-tecnologico, un po' neoclassico dall'altro. La satira, il lunità il volume, esso pure difficile a trovarsi, Su I Per Meneghello a cura di Giulio Lepschy, con articoli di Cesare Segre, Fernando Bandini e altri valenti critici italiani e stranieri; un libro che mette in luce l'intero quadro dell'attività creativa di Meneghello, ma la situazione generale nei riguardi della conoscenza di questo scrittore notevole da parte del pubblico italiano non è mutata. Sappiamo che il brusio prodotto dall'ufficialità dei premi e dalla pubblicità si risolve dtinguendosi'; sappiamo che c'è qualcosa di vitale e incoercibile che prima o poi salva gli scrittori che valgono. Tuttavia si desidererebbe che i libri buoni, e non sono poi molti, trovassero la strada dei loro lettori e subissero solo una fatalità particolare, non una fatalità generale. 3. Giorgio Vigolo Pietro Gibellini La rubrica «Un posto nella letteratura», tenuta da Maria Corti, è aperta ai contributi dei collaboratori. Cominciamo con· Pietro Gibellini. Cf è una legge crudele, del costume letterario, che vede, alla morte d'uno scrittore, una breve fiammata di scritti su di lui (ritratti, memorie, bilanci): e poi una lunga eclisse, dopo il fuoco fatuo. Ma per Giorgio Vigolo l'eclisse sembra, più aspramente, durare da sempre: e nella stessa raffica di necrologi, il musicologo, il traduttore di Holderlin e lo studioso del Belli hanno quasi oscurato il prosatore; sulla poesia, sul campo cioè in cui Vigolo giocò la sua partita più rischiosa, poche sillabe o il totale silenzio. Quanto poi alle opere estreme o postume, edite talvolta quasi alla macchia (in poesia La fame degli occhi, Florida, Roma 1982, in prosa Il canocchia/e metafisico, Cometa, Roma 1982, La Virgilia, Editoriale nuova, Milano 1982, La vita del beato Piroleo, ivi 1983), fioche e sparute risonanze. Eppure Vigolo era entrato alla grande, nel proscenio delle nostre lettere, dal giovanile esordio su Lirica (1913) e sulla Voce (1915), alle prime prove in verso ( Canto fermo, 1931) e in prosa (La città dell'anima, 1923), alla pienezza nell'uno e nell'altro genere ( Conclave dei sogni, 1935, Il silenzio creato, 1934): non riconosceva nel 1937, il Contini, la tempra di una voce originalmente poetica? Fedele a se stesso, Vigolo affidava i frutti della sua stagione più matura a opere spesso complessive e riepilogative, o ripescando comunque nel proprio humus (talvolta rilavorando vecchie carte): i versi di Linea della vita (Mondadori, Milano 1948), di La luce ricorda (ivi 1967), de/ fantasmi di pietra (ivi 1977),' le prose de Le notti romane (Bompiani, Milano 1960) e di Spettro solare (ivi 1973). Ma fuori della corrente, escluso dalle più significative sillogi della nostra poesia contemporanea (del Contini e del Mengaldo, ma risarcito dalla garzantiana Gelli7Lagorio per cura di Lucio Felici), Vigolo si chiudeva sempre più in un'appartata solitudine che si esita a imputare a interna, disdegnosa mania persecutoria piuttosto che a esterna, oggettiva emarginazione. Un critico di collaudata fedeltà vigoliana, che già nel '63 gli aveva dedicato un capitolo nei Contemporanei del Marzorati, Alberto Frattini, ripropone ora con una monografia globale di Introduzione a Giorgio Vigolo (Marzorati, Milano 1984, pp. 195) i termini essenziali del dilemma. Ci proveremo qui a toccarli dall'interno, attingendo al fitto carteggio che ci capitò d'intrattenere con Vigok> dal '74, non per indelicata esibizione di un rapporto che ebbe anche momenti spinosi, ma per confortare i nuclei del suo mondo, è del libro di Frattini, col supporto di una conferma d'autore: Vigolo par luiméme. La solitudine, innanzitutto. Frattini cita un verso-clausola esemplare, «Solitudine hai vinto». i PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDI
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