Mensile di informazione culturale Febbraio 1986 Numero 81 / Anno 8 Lire 5.000 IT · ESP GHOL~ n osto n I leHer tura CortiG, ibellini . I iovani • na r tori · Porta,Barilli ' SuGirard,Bion, LigetiK, luge Proved'artista PintolCacciatore1 Valesio Indice. perargomenti 1985 Suppleme9to~ . . Conversaz1on1 conMoneal, Robbe-Grle1t, DoubroVsky, Hassan Colore:, Picabia . Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposile, 2 • 20137 Milano Speaizione in abbonamento postale gn/ppo 111/70• Printed in Italy ... " ........ " .. . .. .. .. . .. .
Einaudi LaurMa ancinelli Il fantasmdaiMozart Il romanzesco irrompe nella vita quotidiana d'una metropoli con la complicità della musica di Mozart. Una nuova, divertente storia giallo-rosa dell'autrice de I dodici abati di Challant. «Nuovi Coralli», pp. 134, L. 8500 ErsiliZaamponi I Draghloi copei PresentaziodniUembertEoco Imparare l'italiano con i giochi di parole, ovvero come diventare creativi divertendosi. • «Gli struzzi», pp. xn-143, L. 7000 ManuePluig Sangudeiamocrorrisposto Gli inganni, le crudeltà, le attese di un amore adolescente sullo sfondo del Brasile contadino e di Rio de Janeiro. Dell'autore di Il bacio della donna ragno «Supercoralli », pp. 167, L. 18 ooo FortintriaducKeafka Nellacolonipaenale ealtriracconti «Scrittori tradotti da scrittori», pp. 290, L, I 4 000 TzvetaTnodorov Criticdaellacritica Unromanzdo'apprendistato I formalisti russi, Sartre, Bachtin, Blanchot, Frye, Watt ... : un critico fa i conti con i suoi maestri e discute le vie che si aprono alla conoscenza della letteratura. «Nuovo Politecnico», pp. v-198, L. 12ooo Ernst H. Gombrich L'ereditdàiApelle L'influenza della tradizione classica sull'arte rinascimentale: dalla pratica pittorica greca agli studi sulle onde di Leonardo da Vinci. «Saggi», pp. xxv-195, L. 45 ooo llyaPrigogine Dall'esseareldivenire La meccanica classica e quantistica e la moderna termodinamica: una introduzione a un campo di ricerche di vaste implicazioni. «NBSE», pp. xv-276, L. 38000 PeteSr zondi LapoeticdaiHegeelSchelling Lo sviluppo delle teorie estetiche e l' oper;i d'arte letteraria dall'Illuminismo ali' idealismo tedesco. «PBE», pp. vn-339, L. 18000 SergeMj .Ejzenstejn Laformacinematografica La trasformazione filmica di un'idea e di una scrittura. Introduzione di Marco Vallora. «PBE», pp. LVI-300, L. 18000 FriedricShchiller I I masnadieri La tragedia che rivelò il gen~o drammatico di Schiller. «Collezione di teatro», pp. vn-135, L. 7000 Fiabeitaliane raccolteetrascritte daItaloCalvino Le piu belle fiabe di Calvino in una accurata edizione scolastica con le schede informative e di lavoro per gli insegnanti. 1. Italia settentrionale, pp. vu-208, L. 9500 n. Italia centrale, pp. vn-242, L. 9500 m. Italia meridionale e insulare, pp. Vll-2 I 4, L, 9500 «Letture per la scuola media» le immagindiiquestonumero Le rivoluzioni vanno a farsi fottere. Tutto finisce nel «plenum», nei comitati centrali, tra scartoffie, moduli e tessere di partito. L'idea, la bella idea per cui si vive e muore, diventa monopolio di quattro burocrati che la usano per i(proprio potere. L'ecologia, ultima aspirazione naturalistica, serve solo a vendere pannelli solari che non funzionano e fluorogel e clorofilla in compresse. Mentre il quotidiano, l'effimero servono a giustificare le cazzate di assessori in cerca di protagonismo culturale. «Signori rivoluzionari» esclama Picabia nel maggio 1920 «avete le idee tanto ristrette quanto quelle di un piccolo borghese di Besançon!». Picabia pratica l'arte per tutta la vita. . Dipinge, scrive poesie, pubblica riviste, inventa spettacoli (Relache) e film (Entr'act). Dall'Armory Show (New York, 1913) in poi è il gran protagonista del rinnovamento artistico e culturale, da Dada a Surrealismo. È lui il gran libertario dell'arte. Eppure verso tutto quel mondo prova anche una somma diffidenz(f,-;(Juella del saggio. Attorno a sé, nonostante viva la grande stagione del/'esperienza moderna, vede che si fa strada e avanza l'arte dei funzionari, di quelli che non possedendo un briciolo di fantasia sono portati a combattere l'invenzione ovunque essa si trovi. Assiste al golpe dei professori che persino ali'arte moderna riescono ad attribuire un'inSommario Maria Corti Luigi Meneghello ( Un posto nella letteratura 2.) pagina 3 Pietro Gibellini Giorgio Vigolo ( Un posto nella letteratura 3.) pagina 3 Antonio Porta Controindicazioni (Atlante occidentale, di Daniele Del Giudice) pagina 4 Renato Barilli .. • f5 - Il-buon livello " . .! (Aflgnte • occidentale, di Da,jiète. Del Giudice,: Vita standard di un -Y.rnditore pro~visorio di collant, di Al'!g BUf i) pagme 4-5 ~ f,•· Paolo Lagorio Il pubblico dei trovatori (Il pubblico dei trovatori, di Maria Luisa Meneghetti) pagina 6 Maria Antonietta Grignani «Conde Lucanor» (Le novelle del «Conde Lucanor», di Don Juan Manuel) pagina 7 Federico Gamberini Il ciclo di Re Artù (Storia di Re Artù e dei suoi cavalieri, di Thomas Malory) pagine 7-8 Prove d'artista: Bruno Pinto pagina 9 Edoardo Cacciatore «Pari e patta» Pagina 10 Paolo Valesio pagine 10-11 Da Barcellona pagina 12 Da Mosca pagina 13 Comunicazione ai collaboratori di «Alfabeta» Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) ogni articolo non dovrà superare le 6 cartelle di 2000 battute; ogni eccezione dovrà essere concordata con la direzione del giornale; in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; b) tutti gli articoli devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: auFrancis Picabia terpretazione pedante, noiosa, saccente, che essi definiscono «cri- • tica scientifica». Picabia non ebbe modo di assistere a quella che recentemente Tam Wolfe ha definito l'epoca del clericato dell'arte, ove al posto del curato siede il «curator». Per sua nelle cattedrali del vivere contemporaneo, i musei d'arte moderna, detti anche MoMaei. L'intuizione di tutto ciò è già presente nello scritto «Notre Dame de la Peinture» apparso nel numero 17 di «391», la rivista d'avanguardia che Picabia fonda a Barcellona nel Man Ray, ritrà,tto'cti Francis Picabi~ 1923 (particolare) fortuna Picabia non vide la trasformazione dell'arte in una nuova religione, criptica e misterica quanto le precedenti: i riti di questa nuova religione si celebrano con grande affluenza di pubblico Cfr. pagine 14-17 Indice per argomenti 1985 pagine 19-22 Nove poeti a cura di Antonio Porta (Vilma Costantini, Renata Spinella, Marco Ercolani, Marco Ceriani, Fabio Galli, Gian Mario Villalta, Maria Pia Quintavalla, Daniela Margheriti, Roberto Carifi) pagine 23-24 Ezio Manzini L'oggetto intelligente (Ripensando al computer li) pagina 25 Mario Perniola ~ S!rategie intellettuali _ (Le moment Guizot, di Pierre Rosanvallon) 1917 e poi trasferisce a New York e infine a Parigi. Le opere di Picabia qui pubblicate testimoniano appunto di questa sua perenne ricerca nell'invenzione e nella creazione delle nuove forme: dalle aRoberto Benatti La macchina della pittura (La macchina della pittura, di Omar Calabrese) pagina 32 Luciana Galliano Un omaggio a Ligeti («Omaggio a Gyorgy Ligeti», convegno di Torino nell'ambito di «Settembre Musica 1985») pagine 33-34 Paolo Bertetto Per Kluge (Der Angriff der Gegenwart auf die ubrige Zeit, Festival Cinema Giovani di Torino, ottobre 1985) pagina 35 Mario Sesti Un libro su John Ford (fohn Ford, di Lindsay Anderson) _p_agina 35 ,. • f.., paginà 26, ,r<,._ __ Marcello Bruno· • ~enato Cristin •:~-' Cinema elettronico Dilthey ritrovato. - (Il nuovo mondo dell'immagine elét- (Dilthey e il pensiero del Novecento, a Ironica, a cura di Guido e Teresa Arie. di Franco Bianco; Introduzione a starco) Dilthey, di Franco Bianco; Alle origini pagine 36-37 della filosofia contemporanea: W. Dilthey, di Alfredo Marini; Wilhelm Dii- Lettere they. Per la fondazione delle scienze pagina 36 dello spirito. Scritti editi e inediti 18601985, a c. di Alfredo Marini) pagina 27 Edoardo Greblo Ironico e irenico (After the New Criticism, di Frank Lentricchia; Consequences of Pragmatism, di Richard Rorty; La svolta testuale, di Maurizio Ferraris; Prophets of Extremity. Nietzsche, Heidegger, Foucault, Derrida, di Allan Megill) pagina 28 Riccardo De Benedetti Girard, violenza e verità («Vi'òlence tvérité»autourdeRené Girard, sous la direction del Paul Dumouchel) pagina 29 Doriano Fasoli La griglia di Bion (Discussioni con W.R. Bion. Los Angeles. New York. Siio Paulo, a cura di Francesca Bion) pagina 31 tore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; e) gli articoli devono essere inviati in triplice copia; il domicilio e il codice fiscale sono indispensabili per i pezzi commissionati e per quelli dei collaboratori regolari. La maggiore ampiezza degli articoli o il loro carattere non recensivo sono proposti dalla direzione per. scelte di lavoro e non per motivi preferenziali o personali. Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma larivista si compone prevalentemente di Giornale dei giornali Cometa, antigravità, infinito pagine 38-39 Supplemento Conversazioni: Con Monegal pagina I Con Robbe-Grillet pagine II-III Con Hassan pagina V Con Doubrovsky pagine VI-VII Le immagini di questo numero Francis Picabia di Enrico Baj In copertina: Francis Picabia, La nuit espagnole, 1922, 160x129,5 (proprietà del Museo Ludwig di Colonia) collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per Alfabeta è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono. Il Comitato direttivo strazioni ai disegni meccanici, dai mostri alle trasparenze, dalle figurazioni alle composizioni libere degli ultimi anni. Picabiafu ricco efu povero: spese sempre tutto. La passione per l'arte e per la vita lo divorò. Artista assai precoce, Picabia (1879-1953) a vent'anni dipinge alla maniera impressionista ed è subito un pittore affermatissimo. Successo, contratti con gallerie e vendite a non finire. Ma ben presto egli sente crescere in sé «l'altro pittore», quello che rifiuterà ogni conformismo e ogni processo di appiattimento a favore di un'arte sempre originale, libera e sorprendente. Rifiuterà quindi ogni successo mondano e i notevoli proventi che già gli erano assicurati. li conflitto con «l'altro pittore» che gli cresce dentro non sarà né semplice né di breve durata; e si tradurrà in un bisogno continuo di superamento da realizzare con l'aiuto di una scintillante fantasia. Di lui potremo sempre ripetere quel che disse Duchamp: «Picabia, così prolifico, appartiene al tipo di artisti che possiedono lo strumento esatto: una instancabile immaginazione». Enrico Baj «Francis Picabia, opere: 1898/1951» in mostra allo Studio Marconi di Milano, via Tadina 15, dal 7 febbraio 1986. Il catalogo edito da Electa è curato da Enrico Baj. Nota bene. Gli scritti e i dibattiti registrati del«Colloquio francese italiano sulla ricerca letteraria» (Roma, 13-15 dicembre '85) verranno pubblicati in un «supplemento letterario» speciale e completo nel n. 83 del prossimo aprile. alfabeta mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Direzione e redazione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, 1 Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella, Paolo Volponi Art director: Gianni Sassi Editing: Floriana Lipparini Grafici: Raul Lecce, Roberta Merlo Edizioni Intrapresa Cooperativa di promozione culturale Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico: Giuseppe Terrone Pubbliche relazioni: Monica Palla Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.9.1981 Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4, 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Rotografica, viale Monte Grappa 2, Milano Distribuzione: Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 40.000 estero Lire 55.000 (posta ordinaria) Lire 70.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 6.000 Inviare l'importo a: Intrapresa Cooperativa di promozione culturale via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 15431208 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati
PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDI Unpostonella I eratura 2. Luigi Meneghello Maria Corti N el numero 73 (giugno 1985) di.Alfabeta si è avviata questa rubrica al fine di portare il lettore a riflettere con noi su quell'insieme di problemi e domande che .si legano al processo complicato della vita di un'opera letteraria, morte, resurrezione, nuova scomparsa dalla memoria collettiva e quindi dalla letteratura. L'intenzione, ovviamente, non era e non è quella di affrontare una questione teorica o socioculturale, ma di offrire una sorta di tipologia della dimenticanza, che è poi l'aspetto più malinconico di una tipologia della decodifica da parte del pubblico. Nel numero 1 di questa rubrica esempio e oggetto di riflessione è stata la scrittrice americana Djuna Barnes la cui opera, giudicata in modo eccezionalmente positivo da grandi scrittori e critici tanti anni fa e amata da lettori raffinati, non ha in effetti oggi il posto ad essa pertinente nella letteratura né la dovuta notorietà fra i lettori. In questo numero 2 della rubrica si vuole restare a casa nostra e richiamare l'attenzione sullo scrittore veneto Luigi Meneghello, che si rivelò per la prima volta al pubblico nel 1963 con la stampa presso Feltrinelli di un felicissimo romanzo, Libera nos a malo, il cui titolo è già tutto un programma nell'uso ludico del vocabo,Iopolisemico malo, segno verbale riferibile a una formula liturgica e insieme segno geografico riferibile alla provincia di Vicenza: Malo è appunto un paese ·nei pressi di Thiene. Il libro aveva un tale forza urto in sé da vari punti di vista tematici e forma-• li, un così lucido impasto lingua-dialetto che la critica ne riconobbe subito l'originalità e l'importanza, anche se la posizione sociale di Meneghello, professore universitario e per di più all'estero (in Inghilterra, all'Università di Reading) lo fece ritenere una sorta di bravo outsider. Sì, perché più o meno consciamente in Italia se un accademico passa a cose creative, da un versante e dall'altro sorge la domanda: «Ma questo cosa vuole?». In Libera nos a malo Meneghello scrive: «Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto». I due strati in bocca ai bambini dialettofoni di Malo, paese fedele alla pia anima del Veneto, sono sorgenti alternative di illuminazioni e· di stupenda comicità. Qualche volta;è ben noto, il riso è un battesimo dell'Equatore. Si era nel fatidico 1963: la cultura italiana presentava in quel momento una struttura antinomica: da un lato il Gruppo 63, che aveva .s già nella sigla una funzione segnica ~ oppositiva, dall'altro gli scrittori ~ non d'avanguardia e in più, ben si ~ ricorderà, un rovinoso assieme di ~ romanzi di consumo, libri cellofa- .9 l: nati dalle copertine mercenarie, ~ che fecero parlare per quegli anni ~ di boom dell'industria editoriale. Non era certo un momento favores:: vole per uno scrittore sottile, ironico, solitario. E qui c'è un altro fatto ~ da tener presente anche da un punto di vista più generale: se uno scrittore con il suo testo non appartiene a un gruppo o a un riconosciuto movimento che di per sé faccia parlare, anche a livello di manuali e di storie della letteratura, avr'à senza dubbio vita molto più difficile e non troverà che col tempo, magari molto tempo; il posto che gli spetta. Un anno dopo, nel 1964, Meneghello pubblicò I piccoli maestri, libro dalla forte carica intellettuacapitava di domandarsi cosa avrebbero dovuto mai fare per diventare dei veri soldati. Agli antipodi dalla tensione epica di Fenoglio, Meneghello guarda la realtà con un senso mirabile e sottile del ridicolo, dove certo prende quota anche la componente anglosassone della cultura di Meneghello. E qui si può fare un'altra osservazione di carattere generale: il gusto dell'ironia e dell'umorismo non è molto di casa nel nodus umonstico, l'ironia, la trasgressione fantastica ci sono, ma relegati un po' ai margini. Per pura informazione del lettore si ricordano le altre due opere di Meneghello: Pomo pero nella sfera di Libera nos a malo, per così dire, e Fiori italiani, l'ultimo suo libro del 1976. Auguriamoci una prossima edizione di tutte le opere, almeno nei tascabili. Nel 1983, quando Meneghello concluse l'insegnamento a Reading, uscì in suo onore presso le edizioni di ComuLa rivoluzionespagnola, 1936. Olio su tela, 173x110 (collezione P. Accetti) le, che fu individuato e capito da ben pochi critici, recensito freddamente da una penna illustre del Corriere della sera. Come mai? Va premesso che, letto superficialmente e soltanto qua e là, come talvolta accade ai lettori professionisti, il libro può essere parso un epigono del neorealismo, data la tematica resistenziale. Come, ancora un libro nel 1964sulla guerra e la Resistenza? Una delle novità, invece, di questo libro sta nel distacco intellettuale e nello spirito ironico con cui sono esaminate le vicende di quegli anni da alcuni giovanissimi intellettuali, passati dalla problematica crociana della cultura storica negli studi universitari al corso di allievi ufficiali, con la sua.precisa distribuzione di compiti, alla guerra e alla Resistenza, col suo cumulo ridondante e a volte grottesco di compiti, sicché ad essi stro paese, e non solo in letteratura. Non sarà proprio questo sottrarsi di Meneghello alla nostra aria locale e farci dono di un punto di vista che con sapienza oscilla fra la razionalità condita di ironia e l'u- ..morismo, non sarà questa assoluta mancanza di pathos retorico a suscitare sospetto nei lettori? Anni fa chi scrive qui notò il fenomeno recensendo uno dei libri più satirici di Sebastiano Vassalli, L'arrivo della lozione, e dei più originali, preso dalla critica come un testo quasi goliardico. Non si dimentichi che Vassalli in fondo è stato riconosciuto dai più quando ha abbandonato la sua bella vena satirica. La cosa dà da riflettere: in Italia non sempre, ma spesso, si oscilla fra l'individualistico, il patetico, il neoromantico da un lato e il razionalistico-tecnologico, un po' neoclassico dall'altro. La satira, il lunità il volume, esso pure difficile a trovarsi, Su I Per Meneghello a cura di Giulio Lepschy, con articoli di Cesare Segre, Fernando Bandini e altri valenti critici italiani e stranieri; un libro che mette in luce l'intero quadro dell'attività creativa di Meneghello, ma la situazione generale nei riguardi della conoscenza di questo scrittore notevole da parte del pubblico italiano non è mutata. Sappiamo che il brusio prodotto dall'ufficialità dei premi e dalla pubblicità si risolve dtinguendosi'; sappiamo che c'è qualcosa di vitale e incoercibile che prima o poi salva gli scrittori che valgono. Tuttavia si desidererebbe che i libri buoni, e non sono poi molti, trovassero la strada dei loro lettori e subissero solo una fatalità particolare, non una fatalità generale. 3. Giorgio Vigolo Pietro Gibellini La rubrica «Un posto nella letteratura», tenuta da Maria Corti, è aperta ai contributi dei collaboratori. Cominciamo con· Pietro Gibellini. Cf è una legge crudele, del costume letterario, che vede, alla morte d'uno scrittore, una breve fiammata di scritti su di lui (ritratti, memorie, bilanci): e poi una lunga eclisse, dopo il fuoco fatuo. Ma per Giorgio Vigolo l'eclisse sembra, più aspramente, durare da sempre: e nella stessa raffica di necrologi, il musicologo, il traduttore di Holderlin e lo studioso del Belli hanno quasi oscurato il prosatore; sulla poesia, sul campo cioè in cui Vigolo giocò la sua partita più rischiosa, poche sillabe o il totale silenzio. Quanto poi alle opere estreme o postume, edite talvolta quasi alla macchia (in poesia La fame degli occhi, Florida, Roma 1982, in prosa Il canocchia/e metafisico, Cometa, Roma 1982, La Virgilia, Editoriale nuova, Milano 1982, La vita del beato Piroleo, ivi 1983), fioche e sparute risonanze. Eppure Vigolo era entrato alla grande, nel proscenio delle nostre lettere, dal giovanile esordio su Lirica (1913) e sulla Voce (1915), alle prime prove in verso ( Canto fermo, 1931) e in prosa (La città dell'anima, 1923), alla pienezza nell'uno e nell'altro genere ( Conclave dei sogni, 1935, Il silenzio creato, 1934): non riconosceva nel 1937, il Contini, la tempra di una voce originalmente poetica? Fedele a se stesso, Vigolo affidava i frutti della sua stagione più matura a opere spesso complessive e riepilogative, o ripescando comunque nel proprio humus (talvolta rilavorando vecchie carte): i versi di Linea della vita (Mondadori, Milano 1948), di La luce ricorda (ivi 1967), de/ fantasmi di pietra (ivi 1977),' le prose de Le notti romane (Bompiani, Milano 1960) e di Spettro solare (ivi 1973). Ma fuori della corrente, escluso dalle più significative sillogi della nostra poesia contemporanea (del Contini e del Mengaldo, ma risarcito dalla garzantiana Gelli7Lagorio per cura di Lucio Felici), Vigolo si chiudeva sempre più in un'appartata solitudine che si esita a imputare a interna, disdegnosa mania persecutoria piuttosto che a esterna, oggettiva emarginazione. Un critico di collaudata fedeltà vigoliana, che già nel '63 gli aveva dedicato un capitolo nei Contemporanei del Marzorati, Alberto Frattini, ripropone ora con una monografia globale di Introduzione a Giorgio Vigolo (Marzorati, Milano 1984, pp. 195) i termini essenziali del dilemma. Ci proveremo qui a toccarli dall'interno, attingendo al fitto carteggio che ci capitò d'intrattenere con Vigok> dal '74, non per indelicata esibizione di un rapporto che ebbe anche momenti spinosi, ma per confortare i nuclei del suo mondo, è del libro di Frattini, col supporto di una conferma d'autore: Vigolo par luiméme. La solitudine, innanzitutto. Frattini cita un verso-clausola esemplare, «Solitudine hai vinto». i PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDI
PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIP Era, la sua, la solitudine di chi riconosceva la «città dell'anima» in una Roma irreale, visionaria, mentale (un-«conclavedei sogni») e insomma scipioniana, o belliana, ma d'un Belli letto, come avvertiva Vigolo, attraverso Rimbaud: le capitali elettive cui guardava erano però europee, Vienna e Berlino piuttosto che Parigi. Lì trovava consonanze la sua poesia onirica e ossessiva, un traum ch'era insieme sogno e ferita. Me ne scriveva il 29 giugno 1977, in risposta a un saggio in cui discorrevo dello stilus tragicus dominante nella sua poesia: «Non temo l'appunto di 'mancata evoluzione' - perché le stimmate non evolvono. E la mia poesia ha la sua radice più tragica in un trauma; e, più ancora di critici e filologi, vorrei che mi esplorassero - in una patologia indubbiamente autentica, quanto diversa e allergica - psichiatri e neurologi. La mia poesia è sempre un test psichico da analizzare, il diagramma delle curve di una febbre (visioni, sogni, inc1_1btie, r- • rori) che dalla mia prima adolescenza mi martirizza. Poesia pagt;1ta cara - eppure portata fino a questa età, acquistando [... ] un senso della sua identità inebbriante, un accento che da solo, ora, alla senectus è consentito - 'coraggio di pensiero non timido di fronte ai mali supremi'» .. D ue nodi essenziali mi sembravano, e mi sembrano tuttora, alla radice dell'eccentricità di Vigolo rispetto alla linea prevalente nella lirica novecentesca (una linea che diremo per brevità gozzaniana e montaliana): lo stilus tragicus, restìo alle cadenze ironiche e èolloquiali delle nuove corone, e il rifiuto di concepire una poesia che prescinda dallo «scordato strumento cuore». Ne trovo conferma in molte lettere vigoliane; per esempio in quella appena citata: «E qui lei ha benissimo colto - mi scriveva - la patologia del cuore, strumento fondamentale e straziato di una poesia che è sempre una georg-passion». E il 20 maggio '76: «Mi colpisce quanto scrive sul mio stilus tragicus. Le dirò che io stesso ho spesso scritto le mie poesie come monologhi di tragedia. 'Malinconia d1esiste_re.. .' - 'Essere· o non essere'>~.. Altre sono le sue corone; rimontano ai grandi di fine-ottocento, come scrive il 16 gennaio· '77 a commento d'un mio lavoro dannunziano: «Anche Carducci vi cresce, come quel grande (oggi così poco studiato e riconosciuto) poeta che è infine un Pasco-· li, senza dire dello stesso Gabriele che qui si rivela davvero un monstrum miracoloso, di una tale ricchezza di doni poetici - che non so quali altri abbiano superato. E oggi, noi ... ». Ma i suoi maestri vengono di lontano: «La poesia di Vigolo :_ scrive il 29 giugno '77 - mi pare che lei la veda da molti suoi lati, specie nella sua 'condizione isolata e appartata' - comunque singolare e diversa dall"orizzonte letterario del '900' - non 'in sordina', ma in piena musica di versi che, discesi da Michelangelo, Dante, Petrarca - i miei numi- non poteva restare sorda anche alla lezione, allo stupendo unico dono delle Laudi. Una delle più grandi viltà di oggi, è stata di vergognarsene, quasi, e ignorarla!». Vengono, i suoi maestri, dal passato o dal fuori, come Baudelai- . re, coine Hofmannsthal, i nomi che trovo ricordati: «D'accordo anche sulfa vie antérieure ('con questo volto remoto che ci esprime l'anima / e le sue storie e i giorni alti e perduti'). Per Hofmannsthal si è parlato di 'preesistenza'. Anche la mia poesia non è spesso preesistenziale?». Altrove definendo sé, come spesso fa, dolorosamente, un «dannato innocente», parla delle «saisons en enfer di tutta una vita»: la sua. Ma forse Holderlin è l'autore che più intimamente gli è congeniale (e Frattini non manca di rammentare le versioni delle sue poesie come nodo cruciale della vicenda vigoliana). Come il poeta tedesco rapito dalla nostalgia della Grecia e devastato alfine dalla cheta follìa, chiuso in una solitudine impenetrabile, la parola vigoliana può dirsi insieme neoclassica e neoromantica: d'una modernità insomma non novecentesca, non del Novecento italiano. Sono •i due corni da cui muove Frattini, da cui muove Vigolo stesso, critico di se medesimo, scrivendomi 1'8maggio per un mio studio sulle varianti d'una sua lirica: «Fra le diverse varianti c'è il continuo conflitto di due poetiche, l'una diastolica di espansione, l'altra sistolica di concentrazione. La concentrazione potenzia, ma impone esclusioni cui il poeta non si rassegna». (Ancora l'immagine del cuore, non scordato strumento: «Cuore, sei tu che batti / questi colpi al mio petto: e sempre mi risvegli al folle· palpito ... »). Neoclassica e neoromantica, è dunque la sua parola: onirica e ossessiva, e insieme votata alla chiarezza, alla forma alta. A epigrafe delle sue Notti romane Vigolo poneva l'emistichio virgiliano «facilis descensus Averno»; ma consentiva con l'evocazione degli esametri seguenti che m'era parsa opportuna, «specie con 'sed revocare gradus, superasque evadere ad auras - hic opus, hic labor est' - poiché è questa veramente la chiave (l'opus e il labor) dell'altro mio versante di 'evasione' dal solo 'Averno, che non dovrebbe essere . per la mia poesia unicamente considerato». Nel cielo della nostra poesia vola ancora un'upupa, ma è !'«ilare uccello calunniato dai poeti». L'Upu- . pa della poesia vigoliana è come -l'uccello del\'incubo che scende, ·,~ei:suoi F_antàsmidi pietra, con ali •moli}e grige, a:turbare il s·onn9del poeta («Ora sei-mio»):_vola nell'Avèn:io di una segreta clandestinità. PAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPAGINEDIPA Controindicazioni Antonio Porta A tlante occidentale di Daniele del Giudice (nato a Roma nel 1949)è un racconto destinato a suscitare reazioni opposte. Si viene catturati e sedotti dal fascino di molte sue pagine e come da un'idea di «calar bianco» che nasce dall'insieme, ma si è anche allontanati e respinti da tutta una serie di informazioni superflue, perciò false, che incrinano fortemente il tessuto narrativo, tanto da far dubitare anche dei momenti di vera intelligenza che pure il testo offre, quasi convivessero due autori di cui uno non riesce mai a mettere l'altro sulla strada giusta. Qualche esempio, e mi esento dal riassumere la trama o lo sviluppo dell'opera che a questo punto devo dare per noti dal momento che sono stati descritti in numerose recensioni. Bellissime le pagine del volo a due, del fisicoe dello scrittore, e altrettanto belle quelle dedicate al racconto della gita innamorata di Brahe e Gilda. Ma in mezzo alcuni passaggi perfino insopportabili per,la loro opacità da kitsch, come questo: «.. .la cosa più sorprendente per Gilda era che quando Brahe parlava le parole venivano in superficie come staccate dalla persona e appoggiate lì, e questo faceva sentire l'interlocutore troppo convinto, troppo aderente a sé, come lei che per tutto il pranzo cerca di intuire il punto interno di quello stacco, e la concentrazione le disegna due piccole linee ai lati delle labbra, le dilata le iridi azzurre in improvvisi colpi di trasparenza». Francamente occorre dire che così si sçrive nei romanzi per signorine, tanto è ridondante quindi inesistente l'informazione narrativa (il kitsch e la ridondanza sono, come è noto, le tecniche dei romanzi summenzionati). A riprova, solo poche pagine oltre: «Aveva le iridi degli occhi di un colore compatto, I giovanni arratori senza pagliuzze, e questo rendeva il di_scopiù carta da zucchero che azzurro; sembrava che assorbissero tutto l'esterno per restituirlo concentrato nel fuoco della pupilla. Brahe ne era così attratto che dovette escluderli dal suo sguardo, passando sopra o sotto, come nei segni che legano ad arco due note musicali». La sensazione di meraviglia nasce dal fatto che simili espedienti da vecchia prosa d'arte arrivano come tradimenti improvvisi della narrazione, come prove di falsa «bravura», che sarebbero, credo, spiegabili solo s~ tutto il romanzo fosse un guscio vuoto da mascherare come pieno. Il che non è. Atlante occidentale affronta una tematica notevole, quella. dell'espressione di un sentimento in una situazione di percezioni e linguaggi irreversibilmente modificati dalle scoperte della fisica subatomica, dove le dimensioni dell'universo dello spazio-tempo appaiono vertiginosamente moltiplicabili. Dice Epstein, il famoso scrittore: «Sì, piacerebbe anche a me parlare di un sentimento e del modo di produrlo come lei parla dell'anello di una trentina di chilometri. Potrei invitarla a visitare dei tempi verbali, dei giunti per incastrare le frasi in modo che si tengano una contro l'altra, come per controspinta? [... ) Potrei dirle: una storia è fatta di avvenimenti, un avvenimento è fatto di frasi, una frase è fatta di parole, una parola è fatta di lettere? E la lettera è irriducibile? È l"ultimo'? No, dietro la lettera c'è un'energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già più sentimento, ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile, dal pensiero che lo pensa istantaneamente, e capire il mistero per cui le lettere si dispongono in un modo e non in un altro e si riesce a dire: 'Lei mi piace', e il miracolo per cui questo corrisponde a qualcosa». A me pare un altro esempio chiaro di come si possa mescolare una problematica fondamentale, come l'espressione di un sentimento, con il polverone che necessariamente nasce dall'uso di parole come «mistero» e «miracolo», che ci rimandano ancora una volta all'ineffabilità, al non poter dire. Si tratta allora di questo? Dell'ineffabilità dell'esperienza, mistica o quotidiana che sia? Ma allora perché colpire il benintenzionato lettore con questa finta sapienza da involucri per cioccolatini? Dice Epstein: «Dovevo farlo suicidare, era il finale; eppure pensavo che il suicida è forse il cieco più cieco alle Tickets, 1922 -Acquerellosu carta, 75x56 cose, se le vedesse, se si vedesse in quell'istante con le cose che ha in mano, rinuncerebbe. Ma del resto il suicidio è un'improvvisa impennata dell'io, un'inspiegabile uscita dalla relazione». Appunto, se è «inspiegabile» perché fornirne una così accurata falsa spiegazione? Risulta meno deludente, al confronto, il punto in cui il fisicoBrahe si decide finalmente a parlare, durante il volo. Chissà cosa sta per dire, s'immagina l'ingenuo lettore. Nulla, è la risposta, tra le righe, del narratore, nulla che io sappia o sia in grado capire, dal momento che Brahe e Epstein, «erano così raccolti uno verso l'altro, e del resto il rumore del motore era così continuo e avvolgente, come l'aria, che nessuno, dietro di loro, avrebbe potuto sentire nulla.» Anche per evidenti ragioni di spazio sembra megho saltare alla domanda finale e radicale. Perché mai affrontare tematiche così impegnative, anche se non nuove, come il cambiamento delle dimensioni spazio-temporali, se l'incontro diretto tra linguaggi tanto distanti è preventivato come impossibile? La risposta ce la dà, o tenta di darla, il narratore nelle ultime righe: «E adesso?» - «Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova.» - «E questa?»- «Questa è finita.» - «Finita finita?» - «Finita finita.»- «La scriverà qualcuno?».- «Non so, penso di no. L'importante non era scriverla, l'importante era provarne un sentimento». Direi che si rasenta la civetteria letteraria, quando nelle ultime righe si annuncia che il sentimento rimane comunque inesprimibile. Da questo programmato scacco finale mi pare si possa arguire che le frontiere della letteratura, che si volevano spostare verso territori inesplorati, risultino invece arretrate. Ma l'autore pare voglia consolarsi con·la vanità del Premio Nobel che il famoso scrittore Epstein puntualmente riceve nel finale, forse con una punta di ironia. Almeno si spera, dal momento che Epstein è semplicemente l'alter ego del narratore di Atlante occidentale. Il buon livello Renato Barilli 11 buon livello raggiunto dalla nostra giovane narrativa è testimoniato, oltre che dai contributi recenti di Tondelli e di Tabucchi, di cui mi sono occupato in un articolo precedente, anche da Daniele Del Giudice e da Aldo Bu- . si, approdati entrambi al loro secondo romanzo. E beninteso, nel vivaio più che promettente è da porre anche Andrea De Carlo, il cui ultimo prodotto, Macno, risale ad appena un anno fa. Del Giudice, con Atlante occidentale, conferma la volontà di frequentare un filone litteratissimo, come già con Lo stadio di Wimbledon. Gli si potrebbe attribuire addirittura una corda «paradisiaca», ma non nell'accezione dannunziana del termine, bensì in quella dantesca, assai più impegnativa. Infatti egli si aggira nei territori difficili della scienza, o addirittura della metafisica, presa questa almeno nel senso etimologico della parola, alludente ai misteri di una fisicaposta molto al limite. Con lui, insomma, siamo all'arduo tema dei rapJ?Ortitra la letteratura e la scienza. E possibile, a uno scrittore, stare al passo degli sviluppi dell'altra cultura, far sì che la sensibilità si adegui alle nuove scoperte provenienti dai laboratori più sofisticati? Direi che Del Giudice vince l'ardua sfida, pagando il giusto prezzo, consistente in una estenuazione dei mezzi, degna appunto della poesia del Paradiso dantesco, almeno nell'intento di spingersi al limite della rarefazione. Nel romanzo, le «due culture» sono rappresentate rispettivamente da un giovane scienziato, Pietro Brahe, e da un anziano scrittore portatore di un nome cosmopolita, Ira Epstein. Del Giudice, per fortuna, evita la trappola che starebbe nel far dire a ciascuno dei due le rispettive ragioni, in una serie di colloqui astratti; va invece alla ricerca degli opportuni motivi di trama cui il dibattito si possa appog- "'" t::! giare senza perdere un sufficiente .E; grado di concretezza. Si parte così ~ da un incontro-scontro tra i due, ~ occasionato dalla comune passione ~ ....... per lo sport aereo: Pietro sta per .si innalzarsi da una pista svizzera, l:: con un piccolo velivolo da turismo, i quando è gravemente minacciato ~ da un'errata manovra dell'altro, 0b che tradisce già in ciò una mancan- i::: za di competenza degna appunto di ~ un fine umanista. E tuttavia, è im- Ì portante che lo scrittore, Epstein, 11
accetti di misurarsi in quell'ambito di esperienze aeree, trovando così un primo terreno d'intesa con lo scienziato. Ma c'è di mezzo ben altro, dato che, in fondo, il campo delle escursioni aeree appartiene ancora a una dimensione fisica corpulenta, a un ingenuo futurismo anni Venti o Trenta. Il giovane fisico sta lavorando, ai confini tra la Svizzera e la Francia, in un gigantesco laboratorio sotterraneo, costituito da un «anello» di qualche decina di chilometri che serve all'accelerazione delle particelle subatomiche, nella speranza che queste, lungo la loro rotta pazza e sfrenata, si urtino, si spezzino, diano luogo ad apparizioni sempre più metafisiche, sempre più lontane dalla nostra sensibilità rudimentale, dal rozzo apparato dei cinque sensi. Brahe, benché zelante sacerdote di questi misteri cosmici, non ne saprebbe ricavare, tuttavia, i significati morali, se appunto non gli sorgesse accanto la presenza più scaltrita del romanziere, pronto ad assumere il ruolo di un Virgilio sapienziale, o più semplicemente di un Padre, o di un Dedalo prudente e circospetto, d'altronde ben convinto che è ormai l'ora di varcare certe soglie. Infatti, come romanziere, Ira Epstein è in piena crisi, colto dal sospetto che le parole non siano più sufficienti a inseguire gli oggetti, le sensazioni, o che, prima ancora, gli uni e le altre debbano subire, appunto, un prolungamento. Dalla materia all'energia, questo il tema che solca le conversazioni tra il Padre e il Figlio, evidentemente in pronta connessione con la nostra civiltà «tecnettronica», aperta da Einstein (del resto, quasi un omonimo del narratore Epstein). E sarebbe di sicuro un terreno minato, un puro enunciato teorico, se non ci fosse, da parte di Del Giudice, un effettivo sforzo, laborioso, tenace, a estendere, a diramare i nostri sensi comuni, a renderli degni dei novissimi traguardi aperti dalla fisica subnucleare, o più semplicemente dalla coscienza, tipica della teoria della relatività, che tutto è destinato a convertirsi in energia, ovvero in luce. La luce come traguardo ultimo delle buone «cose» familiari, degli oggetti di esperienza. Tanto che almeno in un punto i nostri due interlocutori hanno la coscienza che il titolo giusto alle loro dotte dispute sarebbe stato Atlante della luce; e proprio non si capisce perché all'autore sia scappato quell'aggettivo abbastanza insulso, occidentale, a definire un corpo di esperienze da considerarsi ormai decisamente planetarie. Ma, conviene ripeterlo, la forza e la validità di questo delicato tessuto narrativo sta nel riuscire a convertire le verità fisiche e metafisiche in buone, concrete esperienze accessibili ai sensi, seppure sollecitati oltremodo ad affinarsi: come aveva cercato di fare appunto la poesia «paradisiaca» dantesca. C'è perfino il ricorso al pulviscolo dell'aria, evidenziata dalla luce solare che filtra attraverso le tapparelle, e che fornisce quindi un giusto «correlativo oggettivo» alle particelle minime che forse vibrano e danzano laggiù, nel condotto sotterraneo. E c'è perfino il coraggio di of0 frirci la pirotecnia, nell'accezione letterale e in quella metaforica, di lr) uno spettacolo di fuochi artificiali, ~ .:; dove Del Giudice si sposta, dall'eg:> sempio dantesco, verso i canoni u- ~ gualmente ardui e virtuosistici di ~ una prosa barocca, benché debita- ..., mente tenuta sul freddo, anzi sul .si ~ gelido. E non si può tacere di un ;2 altro felice «correlativo oggetti- ~ vo», fornito da una visita turistica ~ al Castello di Ferney-Voltaire, che ~ è anche una delle poche occasioni ~ in cui il giovane protagonista appa- g re affiancato da una presenza fem- ~ minile, in un testo altrimenti asessuato, come conviene alla chiave generale assunta, paradisiaca e smaterializzata. Ai due visitatori il Castello appare svuotato di ogni arredo e mobilio. I corpi c'erano, un tempo, ora ne restano le tracce, le ombre, anzi, i «bianchi», registrati sulle pareti, e preservati grazie all'opportuna decisione di tenere nel buio la lunga sequenza di stanze. Come si vede, il sottile, impalpabile, sfuggente lavorio delle particelle, o l'immateriale trama dei concetti matematici, riescono a trovare degli equivalenti capaci di «apparire» ai nostri sensi, di farsi fenomeni. L'indubbia abilità del narratore nell'operare questa conversione giustifica il finale dell'opera, dove è detto che «l'importante (della storia) non era scriverla, l'importante era provarne un sentimento», anche se, aggiungiamo noi, la «storia» è rimasta a uno stadio elementare, di scarno intrecCelestino Lometto, rotto a ogni perversità, destinato appunto a occupare ogni girone infernale. Per fortuna non c'è alcun «tradimento» da parte del «chierico» protagonista, cioè dell'intellettuale Angelo Bazarovi: egli svolge benissimo il ruolo di lucido testimone delle follie altrui, si erge a profondo difensore dei diritti dell'umanità nuda e indifesa, della vita e della libertà, evitando su questa strada la trappola peggiore, cioè l'esibizione di una virtù gelida e schifiltosa. Il nostro Angelo Bazarovi capisce molto bene che, se deve esercitare il suo difficile ministero «in partibus infidelium», gli conviene assumere i loro abiti, presentarsi come uno di loro, sedere «in taberna», ostentando le medesime macchie e vizi e tendenze alla crapula. A questo modo nessuna delle bolge infernali gli è preclusa. E così pure, per quanto riguarda il sesso, converrà non certo ostentare la rivede, si può osare di più, nel suo caso; e vale anche un riferimento laterale al protagonista di Rimini di Tondelli, l'altro intellettuale sufficientemente degradato Marco Bauer. Fatto sta che la degradazione delle «coscienze», dei «punti di vista» consente il pieno, forte risalto dei dannati, portandoli quasi a un passo dall'assoluzione, se non altro in nome della prorompente, sanguigna vitalità che li contraddistingue. Di certo da tempo nella narrativa italiana non compariva un essere tutto istinto, appetito, voglia di arrivare, quale il Celestino Lometto che di Angelo è la controparte, l'altra faccia dialettica, la sentina di tutti i possibili vizi e difetti, una macchina inesauribile di invenzioni sulla via del male, della frode, dell'intrigo. Vizi, sia ben chiaro, che il Lometto persegue con perfetta grinta moderna, anzi, postmoderna. Questa un'altra trappola evitata Autoritratto, 1940circa. Olio su cartone,83x72 cio, sviluppata soltanto «quanto basta», come si direbbe in certe ricette farmaceutiche, giusto per veicolare la trama, esatta e esauriente, dei nuovi sentimenti. S e Del Giudice è «paradisiaco», riesce utile affermare, con simmetria inversa, che Busi è «infernale», sempre nell'accezione dantesca del termine, come già era annunciato nel precedente Seminario della gioventù, e ottimamente confermato ora nella Vita standard di un venditore provvisorio di collant. Anzi, nel suo caso non c'è alcun Virgilio, alcun Padre, a sorreggere con qualche prudenza e saggezza un povero Dante dei nostri giorni, vale a dire un giovane laureato in lingue, disoccupato, con qualche velleità letteraria, che cade facile preda di un vitalrssimo, mostruoso concentrato di ogni vizio, offerto dalla persona di un industrialotto mantovano, nuncia, la castità, ma al contrario assumere il ruolo più squalificato e pruriginoso, cioè una smaccata professione di omosessualità; anche se, in sostanza, Angelo è come il Tiresia eliotiano, cioè una crea- .tura asessuata, che però si sforza di partecipare, di compatire, di vivere dall'interno, e cominciando appunto dal mondo dell'omosessualità, in quanto esso appare il più facilmente condannabile, il più «infernale». L'abilità di questo «angelo», di questo «chierico» nel nascondere il disgusto, anzi, nel mutarlo in simpatia, in compassione verso i dannati ne fa un degno continuatore di predecessori illustri: si pensa a Céline, eterno «medico dei poveri», o al gaddiano Commissario Ingravallo... Una 'volta tanto, il risvolto di copertina che accompagna il nuovo romanzo di Busi è perfino limitativo, quando accenna a una linea Bianciardi-Mastronardi: come si opportunamente da Busi; infatti gli inferni si prestano assai di frequen.., te agli strumenti diagnostici del naturalismo e dei suoi derivati: è facile piangere sui guasti irreparabili provocati dalla Natura, coi suoi istinti bestiali, tanto più se a questa si aggiungono la Società, il Sistema, la Borghesia, altre entità oscure, ferree, implacabili. Al contrario, Lometto è un piccolo borghese, un campione del «sommerso», pronto a muoversi negli interstizi della società del benessere, desiderosa di prodotti di moda (i collant, i jeans), di tranquillanti, di immagini affluenti e promozionali, capaci di alludere a un qualche grado di benessere. O in altre parole, il mondo «basso» degli istinti, delle lotte, dei soprusi, nell'universo di Busi si esprime «alla pari», all'altezza delle opportunità concesse dallo sviluppo tecnologico. Non è un mondo beota di regressione, di ignoranza, di bestialità. L'intelligenza, l'informazione, un certo grado di cultura lo solcano, lo intridono, consentendo così a Busi di usare un linguaggio sempre ad alta tensione, anche quando si limita ad essere mimetico e icastico. Ma appunto, Lometto e i suoi simili sono pieni di tic ormai sapienti e coltivati, estratti dall'inevitabile frequentazione dei mass media. E soprattutto, la molla della crescita sociale si è impadronita di loro, li fa mirare a mete che hanno qualcosa di grandioso, di epico, di folle, al punto da riscuotere l'ammirazione dell'intellettuale, magari contro voglia. Basti ricordare che i tre figli di Lometto, e della sua degna coniuge Edda, coltivano una pratica necrofila, quella di imbalsamare ogni animale che cada sotto i loro artigli, non arrestandosi neppure di fronte all'animale-uomo (o almeno così sospetta Angelo). Ma la mossa più grandiosa, più «promozionale», riguarda Edda, personaggio altrimenti umile e sottomesso, che a un tratto, pur in tarda età, vuole fortemente un quarto figlio, e lo vuole cittadino degli Usa, nella non troppo recondita speranza di farne un futuro presidente di quel paese. L'avaro, avido Lometto, che ruba sul salario delle dipendenti o sulle tariffe delle transazioni commerciali, è disposto a bruciare parecchi milioni per assecondare una similefollia. La donna andrà a partorire a New York, accompagnata da Angelo, nella sua veste di intellettuale-interprete. Ma la beffa più atroce attende al varco l'ansia di ascesa sociale dei nostri piccolo-borghesi, in quanto non nascerà un futuro Giorgio Washington, e neppure una Giorgina (come già scherzosamente la chiamava Angelo), bensì una mongoloide, un prodotto sbagliato, da cancellare al più presto. E infatti dalla Bassa mantovana giunge il perentorio ordine di sopprimerla, appoggiato a una congrua erogazione di milioni supplementari. Ma il «chierico» Angelo tenta qui di difendere la vita allo stato puro, impedisce l'infanticidio, obbliga la madre a riportare in patria la povera creatura sana e salva. Difesa vana, disarmata, sconfitta e superata a corto raggio, addirittura col sospetto che i genitori abbiano affi- . dato ai figli il compito di sbarazzarsi della scomoda sorellina, mediante un gratificante processo di imbalsamazione. Al nostro sacerdote laico non resta che recuperare, da un brefotrofio, la figliadi una delle tante vittime della malvagità allo stato puro di Lometto. Come si può constatare, esistono esatti spunti «mitici», motivi di trama, che d'altronde sorreggono uno smisurato tessuto linguistico, sempre felice, sempre degno di un'eredità colta dal «medico dei poveri» Céline, e da un Gadda ormai definitivamente «ingegnere», costretto cioè a misurarsi con un impasto sempre più stretto di natura e di tecnologia. Daniele Del Giudice Atlante occidentale Torino, Einaudi, 1985 pp. 152, lire 16.000 Aldo Busi Vita standard di un venditore provvisorio di collant Milano, Mondadori, 1985 pp. 471, lire 20.000 Sul tema della nuova narrativa abbiamo pubblicato- uno scritto di Mario Spinella (Squassabia, Piemontese, Lanza) nel n. 79 (dicembre 1985), e un precedente articolo di Renato Bari/li (Celati, Tabucchi, Tondelli) nel n. 78 (novembre 1985).
Il pubblico Pa~g,i- trovatori Maria Luisa Meneghetti . Il pubblico dei trovatori Modena, Mucchi editore, 1984 pp. 423, lire 55.000 D a un po' di anni, molte delle campagne semioticamente e letterariamente più fertili hanno prodotto nuovi frutti, di sapore e consistenza diversamente apprezzabili, ma tutti caratterizzati da un orientamento sul lettore e sulla questione della lettura: reagendo forse alla sbornia oggettivistica dello strutturalismo più radicale, si è messo così in secondo piano anche il soggetto per eccellenza, l'onnipresente e onnipotente autore a cui tutto, in epoca prestrutturalistica, sembrava dovuto. Si trattava, in generale, di riconoscere al lettore un ruolo più attivo e determinante nella vita dei fatti letterari, liberandolo dall'umiliante statuto teorico di inconsapevole tubo digerente che piano piano gli era scivolato addosso, ma coloro che si sono posti a indagare la speciale creatività condizionata del destinatario sono avanzati in direzioni molto diverse, lavorando a proficue saldature fra la semiotica letteraria e la filologia, la storia, la sociologia letteraria o la teoria dell'informazione, oppure anche dilatando i confini della figura del lettore fino a fargli inghiottire opera e autore nel fluire libero del linguaggio. Ora si comincia a percepire l'esigenza di un più sorvegliato riesame critico della rigogliosa fioritura teorica cui si è alluso, e per esempio all'ultimo convegno dell'Associazione italiana di studi semiotici, intitolato significativamente Semiotica della ricezione (Mantova 25-27 ottobre), tale esigenza ha occupato in varie forme buona parte degli interventi, da quello di Eco che ha proposto una razionalizzazione del panorama ricezionale tentandone una tipologia, a quello della Ferrari Bravo che ne ha illustrato la genesi nel pensiero russosovietico; altri hanno voluto saggiare la tenuta dell'orientamento sul destinatario con prove critiche particolari, riconoscendo per esempio una vera e propria analisi del ruolo dello spettatore in La donna che visse due volte di Hitchcock (Casetti) o illustrando i modi dell'ascolto popolare di testi musicali (Stefani). È probabilmente su questa seconda strada che i materiali teorici davvero fecondi, acquistando spessore metodologico, troveranno un definitivo consolidamento e, d'altra parte, proprio nell'ambito della sperimentazione critica alcune delle più ambiziose proposte ricezionali sembrano cominciare a decostruirsi da sole (v. P. Valesio, «Fine della decostruzione», in Alfabeta, n. 77, p. 35). Non è certo questo il caso del bel libro di Maria Luisa Meneghetti, che affronta dal punto di vista degli studi sul lettore il complesso della poesia amorosa provenzale. L'indagine percorre differenti itinerari: dopo un'esauriente panoramica ragionata dei principali contributi critici sulla lirica cortese e una lucidissima premessa metodologica, la studiosa affronta il problema della trasmissione-esecuzione dei testi poetici in rapporto ai tipi di pubblico cui erano indirizzati; l'analisi procede con l'esame di' una nutritissima serie di scambi e riprese tematico-formali da un autore all'altro, da cui emerge con evidenza il carattere diffusamente dialettico dell'esperienza letteraria provenzale, anche al di là dei generi specificamente responsivi (tensa, partimen) che, secondo la Meneghetti, discendono proprio da quella generale inclinazione al dibattito. Segue una persuasiva e avvincente carrellata diacronica sui ricorrenti recuperi del motivo del canto per amore nei poeti cortesi fino al Trecento, di cui si mettono in evidenza gli slittamenti interpretativi, dovuti alla necessità di adeguarsi alle attese di nuovi pubblici; chiude il libro, davvero ricchissimo, la dimostrazione che le vidas, razos, e miprovvedersi di uno strumento critico duttile e affilato, grazie al quale riesce a offrirci un'immagine rinnovata e sorprendente del corpus poetico forse più studiato del mondo. Ciò che soprattutto interessa la studiosa delle riflessioni di Jauss e Iser sul ricevente, oltre la consapevolezza, diffusa in molte semiotiche, che ogni opera d'arte sia realizzata pensando alla fisionomia di un destinatario ideale o lettore implicito che sappia farla funzionare perfettamente, sono i concetti riferibili anche alla figura del lettore effettivo. stanno sia la possibilità dell'opera di caricarsi nel tempo di sempre nuove significazioni (la sopravvivenza dei capolavori) sia la creatività del destinatario che, attraverso il rinnovarsi delle interpretazioni, diviene l'operatore di quella sopravvivenza. U na volta riconosciuta la particolare dialogicità dell'esperienza interpretativa (cui è giunto per altra via anche Lotman) è possibile pensare secondo la Meneghetti a una storia della ricezione di un testo o di un genere c,i. ~ k vr jj ,..J,i.,, ~ niature che accompagnano i testi nei codici svolgono la funzione di regolare l'interpretazione del lettore. Non è purtroppo possibile, qui, dar conto diffusamente di tutto ciò che questo importante studio ci regala, e mi fermerò quindi sulle questioni di metodo. D'altro canto, benché la ricerca sia tanto ricca di proposte interpretative illuminanti e di stimoli per lo studioso di cose provenzali, è soprattutto sul versante teorico che si reperiscono le più accattivanti fascinazioni: l'autrice (maledetti filologi!) sa infatti condurre l'incontro fra le tesi ricezionali della scuola di Costanza e i testi della lirica cortese in modo da SlllM/~,A • ' ·' . \s~: ~,. ~-~ ... Il primo è quello di orizzonte d'attesa del pubblico, che va inteso nel senso dell'insieme di conoscenze, predisposizioni e aspettative dei lettori all'apparire di un testo, il quale può poi prevederle e quindi esaudirle in misura molto variabile, ma ne è comunque influenzato; ancor più interessante è quello secondo cui ogni evento letterario soggiace alla logica della domanda e risposta: ogni testo è la risposta a una serie di domande che l'autore si è fatto, ed è però bersagliato anche dai destinatari di interrogativi che non sempre coincidono con quelli dell'emittente; nello spazio descritto dallo scarto fra il chiedere dell'autore e quello del lettore letterario che non si riduca né a un 'impossibile riorganizzazione della storia letteraria dalla parte del lettore, né a un catalogo sociologico dei tipi di pubblico, soprattutto ricorrendo allo studio dell'intertestualità di un dato periodo o ambiente, cioè del gioco di citazioni, allusioni, rifacimenti (e quindi interpretazioni) di quell'opera o genere in un'altra, insomma del cammino dei testi nel tempo, attraverso il veicolo di successive riutilizzazioni. La proposta di analizzare i rapporti di un'opera con testi coevi o del passato non sarebbe certo nuova, e anzi fino ad epoche relativamente recenti gli studiosi di letteratura non hanno in fondo fatto altro, nuova è però la prospettiva che indirizza ora simili indagini: per fare un esempio di fronte alla canzone Gioiosamente canto di Guido delle Colonne, giudice-poeta alla Corte palermitana di Federico II, lo storico della ricezione, una volta riconosciuta l'ampia utilizzazione di fonti e luoghi comuni della lirica provenziale e il loro riuso parodico (qui si fermerebbe un tradizionale studio delle fonti) si chiede essenzialmente che tipo di condizioni letterarie, storiche, sociali ecc. abbiano potuto determinare il nuovo orizzonte d'attesa del pubblico, che ora può gustare operazioni inconcepibili in altra sede, analizzando la riscrittura del patrimonio poetico provenzale non più come primario oggetto di studio ma come segnale di una tappa decisiva nel cammino di quei materiali (in particolare il motivo dell'ispirazione amorosa del canto lirico) attraverso il tempo (v. pp. 227-30 per l'analisi condotta dalla studiosa). Una simile impostazione diviene tanto più preziosa e feconda quanto più ci si allontana dall'oggi verso il passato, per il progressivo diradarsi di testimonianze dirette sull'operosità creativa dei destinatari; e se per il passato ci si deve largamente rifare alle letture che siano divenute riscritture, il medioevo sembra proporsi ancora una volta come terreno di ricerca stimolante e privilegiato, caratterizzato com'è da un generale indebolimento del polo comunicativo dell'emittente: in quella cultura pressoché immune dalle febbri dell'originalità individuale e del copyright la riattualizzazione di un testo o di un tema in un contesto ormai mutato era infatti più autorizzata, più libera e più frequente di quanto oggi non si conceda (con tutto ciò forse non sarebbe priva d'interesse neppure una moderna semiotica del plagio). Nell'indagine sul Pubblico dei trovatori le premesse teoriche e metodologiche discusse fin qui concorrono a illustrare gli adeguamenti che hanno scandito il plurisecolare procedere della lirica amorosa di Provenza (XI-XIV secolo) attraverso ambienti culturali e ideologici spesso molto diversi, ma sono come rinsanguate da un piglio critico sicuro e originale, che mi sembra emerga soprattutto nella capacità di mettersi sulle tracce di quegli aggiustamenti interpretativi assumendo con piena adesione il punto di vista nuovo di chi cerca una lettura; ne deriva, per chi invece segue lo svolgersi dell'analisi, un felice accumulo di sorprese: ora la studiosa ci mette di fronte a una sorgente di notizie del tutto inattesa, ora sa spremere informazioni fresche e utilissime a un testimone prevedibile e sfruttato, scorgendo rapporti illuminanti fra elementi solo apparentemente eterogenei; interroga le miniature dei codici sui modi della recitazione dei componimenti, ma vi ritrova pure come si è detto una consapevole funzione 'O <:! di istruzione per l'uso dei testi; do- s:: cumenta il sopravvenire di nuove -~ interpretazioni analizzando la di- t::l.. versa disposizione o la soppressio- gi ........ ne di alcune strofe del testo; ordì0 sce un tessuto di fittissime relazioni -~ fra i testi e i tempi in cui vennero letti, ma le molteplici direzioni in -e -e ~ cui procede sono i momenti succes- ao sivi di un'esplorazione lucida e sor- ~ vegliata, che si ricompone in una ~ relazione di viaggio ricca, compat- · l ta, duratura. ~
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